Cina e Taiwan, cosa aspettarsi della crisi in corso

Intervista a Francesca Congiu e Barbara Onnis autrici di ”Fino all’ultimo Stato. La battaglia diplomatica tra Cina e Taiwan”.

Roberto Rosano

Alla luce del recente aggravarsi dei rapporti tra Cina e Taiwan, dopo più di tre giorni di manovre militari e simulazioni di attacchi di precisione, cui sono seguite dichiarazioni allarmanti dal ministro degli Esteri di Taipei, abbiamo chiesto un commento a Francesca Congiu e Barbara Onnis del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Cagliari, autrici di Fino all’ultimo Stato. La battaglia diplomatica tra Cina e Taiwan (Carocci, 2022).
Il vostro libro, uscito non molti mesi fa, ha come sottotitolo “la battaglia diplomatica tra Cina e Taiwan”. Alla luce di quanto accaduto in questi giorni, questo sottotitolo è diventato un po’ più anacronistico? Questa battaglia rimarrà diplomatica? E se sì, ancora per quanto tempo?
Onnis:
Tutt’altro, se guardiamo a quanto accaduto qualche settimana fa, quando la Repubblica dell’Honduras ha interrotto i rapporti con Taipei (che intratteneva dal 1941) e ha riconosciuto diplomaticamente la RPC, riducendo ulteriormente lo spazio diplomatico di Taiwan in America centrale. Attualmente sono rimasti solo il Belize e il Guatemala, nell’area, a riconoscere diplomaticamente Taiwan, mentre a livello globale se ne contano 13 in totale. Si tratta di Paesi che hanno poco peso a livello geopolitico e con livelli di sviluppo molto bassi, eccezion fatta per il Vaticano. Naturalmente può contare sul sostegno (informale) di moltissimi Paesi, a partire dagli Stati Uniti e da un numero crescente di suoi alleati del blocco occidentale, sempre più insofferenti di fronte all’assertività e arroganza di Pechino. Questo può certamente fare la differenza, soprattutto di questi tempi, in cui la battaglia sta trasformandosi in una battaglia valoriale e il fronte delle “democrazie” si sta schierando compatto in difesa di Taiwan.

Episodi come la visita di Nancy Pelosi o l’incontro tra la presidente taiwanese Tsai Ing-wen e lo speaker repubblicano della Camera dei rappresentanti Mc Carthy, possono esseri letti come segnali di radicalizzazione della posizione americana su Taiwan? Che rapporto hanno con la progressiva crescita della potenza e dell’influenza cinese?
Congiu:
Questi episodi fanno parte di un processo di radicalizzazione del conflitto tra RPC e USA in cui Taiwan risulta essere, come sempre nel corso della storia, una delle carte strategiche da giocare. Taiwan è stata la carta su cui si è costruito il compromesso all’epoca dello storico incontro tra Nixon e Mao che ha prodotto il Comunicato di Shanghai del 1972 in cui le parti riconoscevano di avere delle posizioni discordanti che, in quel momento però, non dovevano ostacolare il riavvicinamento. Attualmente, invece, la politica USA verso Taiwan costituisce l’apice strumentale di un conflitto che inizia ad emergere all’indomani della crisi economica globale del 2008-9 che parte proprio dagli USA. La crisi viene affrontata, anche se mai risolta, come tutte le crisi cicliche del capitalismo, grazie alla forza economica della RPC che resiste alla crisi ponendosi come salvatrice dell’economia globale, o se vogliamo, del capitalismo. Proprio nel 2008, gli USA partecipano ai negoziati per la costituzione del Trans-pacific Partnership Agreement che Obama trasformerà nel suo principale strumento di contenimento della Cina, il Pivot to Asia.

A chi conviene di più, in questo momento far precipitare la crisi di Taiwan e mettere in discussione lo status quo? Alla Cina, a Taiwan, agli USA o a nessuno dei tre?
Onnis:
Credo non convenga a nessuno. Sicuramente non conviene alla RPC, che ha bisogno di recuperare in termini di immagine, gravemente danneggiata dalla pandemia e dalla posizione assunta di fronte alla guerra in Ucraina. La Cina ha bisogno di stabilità per riavviare la macchina economica sempre più in affanno, mettendo a rischio i grandi progetti di sviluppo avviati da Xi Jinping fin dal suo primo mandato (a partire dalla Belt and Road). Certo, rimane il fatto che il “sogno” di Xi non potrà dirsi realizzato senza la riunificazione di Taiwan alla madre patria ma, certamente, una presa di Taiwan con la forza militare sarebbe un grosso rischio allo stato attuale e i governanti cinesi ne sono ben consapevoli. Al contempo, non possono accettare ingerenze esterne in quello che ritengono essere un affare interno.

Leggendo il vostro libro, si comprendono molto bene le intenzioni delle due parti: la Cina vuole costringere Taiwan alla resa e alla “riunificazione pacifica”; Taiwan vuole lottare con ogni mezzo per la propria sopravvivenza come Stato indipendente nel nuovo mondo globale. In questo momento chi ha più mezzi per chiudere la partita a proprio vantaggio?
Onnis:
Al di là delle disparità enormi nei numeri relativi alle forze terrestri e navali tra le due parti e dell’ammodernamento strategico delle forze armate della RPC, tutta una serie di fattori geografici e militari contribuiscono a fare di Taiwan un temibile avversario per Pechino. Al di là di tutto, Taiwan è inserita nel fronte indo-pacifico, ben più strategico per Washington rispetto ai teatri europei, e gode dunque del supporto degli Stati Uniti (e dei suoi alleati nell’area).

Che idea vi siete fatta della presidente indipendentista Tsai e del suo partito?
Congiu:
La legittimità politica del partito della presidente DPP (Partito Progressista Democratico) si è costruita intorno e attraverso la costruzione dell’identità taiwanese in funzione antitetica proprio alle posizioni del GMD (Partito Nazionalista Cinese, da sempre contrario all’indipendenza taiwanese e più propenso alla riconciliazione). La funzione politica dell’identità taiwanese assume diverse forme a seconda delle circostanze. Quella cavalcata da Tsai, sull’onda del movimento dei girasoli del 2014, è stata una funzione oppositrice alla liberalizzazione dei commerci, degli investimenti, e della cooperazione economica promossa da Pechino e dal governo nazionalista di Ma Ying-jeou attraverso l’Economic Cooperation Framework Agreement che ha istituzionalizzato l’integrazione economica ai due lati dello Stretto.

Qual è la prospettiva degli attivisti del movimento?
Congiu: Secondo questa prospettiva, intercettata poi da Tsai, che nel 2016 vince le elezioni presidenziali, gli accordi favorivano soltanto le grandi corporazioni cinesi e taiwanesi mentre danneggiavano il tessuto taiwanese di piccole e medie imprese e i lavoratori. Negli ultimi anni, tuttavia, Tsai, per limitare i rischi evidenti di ritorsioni militari da parte cinese, deve giostrarsi nel trovare un equilibrio tra la necessità di preservare il proprio consenso tra i nazionalisti taiwanesi pro-indipendenza, e gestire le provocazioni eccessive da parte americana.

La forza di persuasione del Partito Comunista Cinese sull’isola di Taiwan oggi di che mezzi dispone?
Congiu:
Il mezzo di persuasione per eccellenza è il mezzo economico. Lo è sempre stato, sin dalla formazione delle ZES, in cui i primi investitori, anche andando contro gli iniziali divieti del governo di Taipei, erano businessmen taiwanesi. Oggi le grandi corporazioni taiwanesi, soprattutto quelle produttrici di semiconduttori, sono fortemente dipendenti dal mercato cinese e a queste non giova né la politica aggressiva statunitense né quella indipendentista di Tsai. Tanto più che attualmente Pechino multa con pesanti sanzioni economiche le compagnie taiwanesi che sulla Cina continentale violano norme legate, per esempio, alla tutela ambientale o dei lavoratori. Si tratta, probabilmente, di una politica dimostrativa nei confronti di tutti gli attori economici taiwanesi allo scopo di disincentivare alleanze con il DPP e incentivare invece avvicinamenti al GMD. Una scelta di questo tipo potrebbe tuttavia compromettere definitivamente i rapporti anche con quella parte della società taiwanese interessata a mantenere salda l’integrazione economica e dunque anche l’attuale status quo.

Voi pensate che sia ancora possibile tornare alla “diplomazia flessibile” inaugurata da Ma Ying –jeou nei rapporti con Pechino e ad una “tregua diplomatica” oppure il progetto di riunificazione annunciato da Xi lo renderà, di fatto, impossibile?
Congiu:
Xi ha reiterato con maggior assertività un progetto mai accantonato che oggi, anche per via della carta taiwanese giocata dagli USA per contribuire ad indebolire l’immagine e la legittimità internazionale della RPC, diventa un’esigenza impellente che, per il governo di Pechino, è funzionale alla legittimità interna e per evitare un possibile effetto domino a cascata di ulteriori azioni secessioniste, nelle aree, per esempio, dello Xinjiang.

Da parte del GMD c’è di sicuro un tentativo già in azione…
Congiu:
Lo suggerisce la recentissima visita di Ma nella RPC – la prima in assoluto di un presidente o di un ex presidente di Taiwan nella Cina continentale dal 1949 e contestuale a quella di Tsai negli USA – come pure la vittoria del GMD nelle ultime elezioni locali dello scorso novembre e, ancor più, l’intenzione del magnate fondatore di Foxconn Terry Gou – grande amico di Pechino (e di Washington) – di (ri)candidarsi con il GMD per le prossime elezioni presidenziali, in programma nel gennaio 2024, ergendosi a “grande stabilizzatore” delle due sponde dello Stretto.

La dottrina dell’autonomia strategica avanzata da Macron è un altro gesto di grandeur francese oppure c’è stavolta qualcosa di più strutturato e significativo? Voi pensate che l’Unione Europea debba seguirlo?
Onnis:
Premesso che da sempre esiste dentro e fuori l’Eliseo una componente politica e culturale critica di Washington, il concetto di autonomia strategica europea non è nuovo, ma venne lanciato dal presidente Macron qualche mese dopo l’avvio del suo primo mandato presidenziale. Certamente rispetto al 2017 molte cose sono cambiate nei rapporti tra Cina e Unione Europea e tra Cina e Stati Uniti.

All’epoca la Cina di Xi si presentava agli occhi del mondo come l’alfiere della globalizzazione…
Onnis:
…davanti a una nuova amministrazione statunitense che metteva l’America al primo posto e destabilizzava molti degli alleati europei. La riproposizione del concetto da parte di Macron, ora, tuttavia, giunge con toni discordanti e ben più concilianti rispetto a quelli della presidente della Commissione europea che lo accompagnava nella recente visita a Pechino e il fatto che l’Eliseo si sia visto costretto a diramare una nota per precisare la posizione del Presidente dopo la sua intervista, in merito all’alleanza con gli Usa e alla condivisione di valori comuni, la dice lunga sul fatto che Macron potrebbe aver fatto un “balzo in avanti” pensando agli esclusivi interessi francesi senza tenere in grande considerazione la posizione più cauta e meno conciliante di Bruxelles.

Voi pensate che l’UE possa seguirlo?
Onnis:
Le dichiarazioni di Macron e le reazioni critiche di alcuni Paesi dell’UE rimandano all’annoso problema legato all’incapacità dell’UE di parlare con una sola voce e di esprimersi all’unisono, come già emerso in numerose circostanze, da ultimo in occasione della missione diplomatica europea del capo della diplomazia cinese WangYi, lo scorso mese di febbraio. Sappiamo bene che i 27 membri dell’UE hanno punti di vista molto differenti riguardo alla Cina, oggi più che mai.

Quindi è altamente improbabile una presa di posizione di Bruxelles sulla scia della posizione francese…
Onnis:
Infatti, laddove durante le presidenze Obama e Trump gli Stati Uniti si erano concentrati sull’area pacifica, disimpegnandosi in parte dall’Europa, l’invasione russa dell’Ucraina ha riportato in primo piano l’indispensabile ombrello militare di Washington e della Nato, favorendo addirittura l’abbandono della neutralità da parte di alcuni Paesi, come Finlandia e Svezia. In seno all’UE, i Paesi baltici, i nordici, la Polonia, e anche l’Italia, sembrano nuovamente molto legati agli Stati Uniti, e le parole di Macron, non concordate a livello europeo, hanno rappresentato motivo di imbarazzo e disaccordo.

Foto:
1 Flickr |總統府
2 Flikr | Global Panorama



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