Cina, perché Xi Jinping si rifà alla saggezza di Confucio

Nella filosofia di Confucio si ritrovano i principi che ai vertici della Cina attuale, a cominciare da Xi Jinping, costituiscono un fondamento di legittimazione del potere, che si presenta come saggio.

Roberto Rosano

La parola 孔夫子, Kǒng Fūzǐ, Confucio, ricorre molto spesso nei discorsi di Xi Jinping. In Ritorno a Confucio. La Cina di oggi tra tradizione e mercato (il Mulino, Bologna, 2015, in particolare cap. V), Maurizio Scarpari, che è stato docente di Lingua cinese classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha annoverato l’attuale Presidente della Repubblica Popolare «tra i più fervidi sostenitori della rivalutazione della plurimillenaria cultura cinese».

Xi esibisce abitualmente una posa da junzi, una persona d’altri tempi, esemplare per virtù e nobiltà d’animo, capace di «nobilitare i propri sentimenti per farli emergere negli altri», garantendo alla Nazione e poi «a tutto il mondo sotto il cielo», prosperità, armonia e stabilità. Per questo i suoi discorsi sono spesso un saggio di tradizione e di letteratura classica, costruiti  in maniera quasi perfetta per farlo apparire quale colto conoscitore dell’autentica cultura cinese. Con qualche non piccola défaillance: ogni tanto si impiglia  nelle citazioni messe insieme dai suoi ghost-writers, suscitando commenti e precisazioni da parte degli esperti.

Naturalmente tra i nomi più citati della tradizione, ci sono Confucio e i suoi due maggiori seguaci ed esegeti, Mencio e Xunzi. Ma cerchiamo ora di capire perché si è cominciato ad usare la saggezza di questi maestri del pensiero come «strumento di regno». Il confucianesimo è un sistema di pensiero fortemente imperniato sull’educazione e i suoi principi riguardano sia la sfera individuale che politica. Il suo principale obiettivo è quello di realizzare un ideale di armonia basato sull’unità che fonde inseparabilmente l’essere umano alla natura e al mondo spirituale. Nel corso dei secoli, questo pensiero ha sagomato la società della Cina e dei Paesi attigui e, nella sua interpretazione più autoritaria, è stato il fondamento dell’ideologia imperiale. Secondo lo Zhongyong, uno dei quattro libri del Canone, il perfetto confuciano «si realizza scegliendo il bene e perseguendolo con determinazione, perseverando nello studio, indagando accuratamente ciò che viene appreso, riflettendo con attenzione, discernendo con acume e praticando il bene in modo costante».

Confucio aveva inteso bene che una società corretta dipende in maniera decisiva da una buona educazione, il che vuol dire disciplina, coltivazione interiore, ma anche un serio impegno politico e civile. Quella di Confucio è certamente una concezione aristocratica della società, ma di sicuro non castale: l’individuo è invitato a raggiungere livelli progressivi di eccellenza attraverso la formazione spirituale e l’istruzione, ma è invitato al tempo stesso a non dimenticare chi è impedito da condizioni di svantaggio materiale. Questo percorso di perfezionamento morale parte sin dalla tenera età: ogni individuo acquisisce e introietta il rispetto per gli anziani e i superiori, in una logica che, pur favorendo l’educazione e la ricerca dell’armonia sociale, non esclude l’impiego di forze coercitive e repressive.

Questo tipo di educazione ha ispirato il vasto sistema amministrativo-burocratico dell’Impero per oltre due millenni, com’è ben spiegato in Ideology of Power and Power of Ideology in Early China (a cura di R. Goldin e M. Kern): l’educazione confuciana ha dovuto plasmare una classe omogenea di civil servants dotti e inappuntabili, che hanno mandato quasi a memoria un corpus di opere a sfondo moralistico, canonizzate nei primi secoli della dinastia Han. Questo tipo di educazione, perciò, non ha fornito particolari competenze tecniche, ma una sorta di compattezza  valoriale basata sul rispetto del popolo, delle gerarchie e della famiglia.

Un altro aspetto interessante è che Confucio non ha introdotto neologismi, ma ha semplicemente reinterpretato e arricchito un lessico già esistente: «Trasmetto, non creo; credo negli antichi e li apprezzo» (Lunyu, 7.1). Questo tipo di mentalità è ancora oggi fortemente presente nei cinesi, che tendono spesso a trattare riforme e rinnovamenti presenti non tanto come innovazioni, ma come riscoperte di aspetti dimenticati o accantonati della tradizione.

Confucio, inoltre, non ha mai affermato o negato la trascendenza, così come non ha mai fatto ricorso a verità rivelate: questo rende le sue parole incredibilmente duttili e spiega anche il motivo per il quale un gesuita come Matteo Ricci sia riuscito ad adoperarlo con tanta dimestichezza per avvicinare Oriente e Occidente (si dia un’occhiata a M. Ricci, Dell’amicizia, Quodlibet, 2005).

Le parole chiave del lessico confuciano sono, come già si è detto, junzi (persona moralmente esemplare), renyi (la buona pratica di governo ispirata da umanità e giustizia), ren (benevolenza, amore per il prossimo), yi (rettitudine, giustizia, capacità di giudizio), li (riti e norme di buona condotta), xiao (devozione verso i genitori), shu (empatia), ti (rispetto verso i fratelli maggiori, i superiori e gli anziani). Va da sé che tali virtù, se applicate all’amministrazione pubblica, assicurino «il buon governo», «l’ordine degli affari interni», «leggi chiare» e l’assenza «di ogni forma di malversazione» (Huainanzi, 15). Il funzionamento dello Stato confuciano, perciò, somiglia ad una sorta di prova d’orchestra o di balletto, in cui il maestro-sovrano assegna ad ognuno un ruolo preciso e movimenti prefissati, e li dirige con grande solennità e scrupolo affinché l’esecuzione risulti alla fine perfetta e armoniosa.

I discepoli di Confucio, Mencio e Xunzi, a cui vengono attribuiti rispettivamente il Mengzi (14 capitoli) e il Xunzi (32 capitoli), rappresentano le maggiori linee interpretative degli insegnamenti del maestro. Mencio, la cui corrente fa capo a Zisi, nipote di Confucio,  è considerato il rappresentante principale del confucianesimo idealista, basato sul concetto di renyi (umanità e giustizia), mentre Xunzi è considerato il massimo rappresentante dell’ala razionalista, formalistica, pragmatica e autoritaria, legata alla dottrina dei li, che postula l’osservanza dei canoni rituali per dare espressione solenne, appropriata e strutturata alle norme del vivere civile. In un mondo caratterizzato da guerre continue per la supremazia e quindi dal luan, disordine, le tesi di Xunzi hanno avuto la meglio proprio perché più adatte a servire l’ideologia di stato fin dal primo periodo imperiale. Se per Mencio, le virtù principali risiedono nel cuore dell’uomo sottoforma di germogli che vanno riconosciuti e coltivati dall’individuo in un processo di maturazione personale che avrà ricadute positive sul contesto sociale, per Xunzi, invece, la natura umana è essenzialmente malvagia, egoismo e avidità sono innate nell’uomo e vanno represse per favorire la crescita spirituale mediante l’educazione, la cultura, il rispetto dei li. Questi ultimi sono lasciti di una tradizione ritenuta custode della perfezione assoluta, risalenti ad una perduta epoca aurea caratterizzata da una profonda armonia.

Confucio aveva sostenuto che «se si governa con le leggi e si mantiene l’ordine con le punizioni, il popolo cercherà di evitare di essere punito e non proverà vergogna per le proprie mancanze; se invece si governa con magnanima virtù e si mantiene l’ordine con i li, il popolo proverà vergogna per le proprie mancanze e si correggerà» (Lunyu, 2.3). Xunzi, invece, in contrasto col maestro, afferma che da sole le convenzioni sociali e la vergogna non sono sufficienti a mantenere l’ordine poiché ciò non basterebbe a correggere la maggioranza della popolazione rozza e poco istruita. Per questo riconosce il valore della coercizione, delle leggi, delle punizioni e delle guerre come mezzi utili e necessari in caso di fallimento della persuasione pacifica.

Dalla scuola di Xunzi si sono formati i maggiori teorici dell’amministrazione pubblica e dello stato autocratico e statisti di grande levatura, il cui ruolo si è rivelato determinante per il successo di Qin, il regno che è riuscito ad unificare tutti gli Stati combattenti in «una sola famiglia sotto lo stesso cielo» (yi jia tianxia). Tra questi, Hanfeizi, paladino dello stato totalitario e autore dell’omonima opera, e Li Si, primo ministro del Primo Imperatore dei Qin.

Ma già in epoca Han si è cominciato a rivalutare il Mengzi, cui si è dato un grande slancio a partire dall’epoca Song. Anche nella massima  di Deng Xiaping  «mantenere un basso profilo» riecheggia un principio costantemente presente negli scritti di Mencio. I suoi alti ideali sono ormai parte integrante della retorica politica ed hanno ispirato Hu Jintao e Xi Jinping nel formulare le teorie del «mondo armonioso» e della «comunità dal destino/futuro condiviso». Come si mettano in pratica tali nobili intenti, però, è un’altra storia, di cui un po’ si è già detto. È difficile dire se la governance cinese di oggi sia più Mencio o più Xunzi, certamente è una creatura bifronte, che può essere l’una e l’altra cosa, secondo un modello che i cinesi chiamano «yang ru yin fa», «apertamente confuciano, segretamente legista».

 

 

 

 



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