Clistene l’Ateniese

La traduzione in italiano del libro di Pierre Lévêque e Pierre Vidal Naquet su Clistene (Clistene l’ateniese. Sulla rappresentazione dello spazio e del tempo in Grecia dalla fine del VI secolo alla morte di Platone, Castelvecchi, Roma, “Prefazione” di Francesco Fronterotta), è un piccolo evento editoriale, che non deve passare inosservato.

Leonardo Geri

Come spesso accade nelle introduzioni, il testo di Lévêque e Vidal-Naquet apre interrogandosi sul significato della propria ricerca. Perché la necessità di un ulteriore testo su Clistene? Oggi, a distanza di 54 anni dalla prima edizione dell’opera, la medesima domanda si ripete in forma leggermente alterata: perché la necessità di tradurre un testo su Clistene? Tramite un reciproco rinviarsi, tali domande trovano in questa occasione più che mai facile risposta: c’è qualcosa di importante da dire sull’operato politico dell’Alcmeonide sul quale non si è detto abbastanza.

Il filo conduttore scelto, come si evince dal sottotitolo del testo, è rappresentato dallo sviluppo dell’organizzazione dello spazio e del tempo dalla fine della Grecia arcaica sino alla Grecia classica. In quest’orizzonte, la riforma di Clistene è per gli autori il vero momento di svolta che costituisce, in parte, «una sorta di schermo che divide gli Ateniesi dal loro passato più remoto, destinato via via a sfuggire alla loro comprensione» (p. 18). Naturalmente, l’approfondimento di questo tema non sarebbe stato possibile senza affrontare tutte le questioni che, parallelamente, sorgono. Il testo si sofferma in particolare sull’originale ed eretico genos dei discendenti di Cilone; sull’analisi del significato del termine isonomia e della proclamazione di Clistene a campione della democrazia[1]; sulle possibili affinità con gli altri modelli politici del VI secolo e sull’analisi delle influenze e delle conseguenze che una simile riforma ha nei vari campi della filosofia, dell’arte e della storiografia. A questo proposito è opportuno spendere già da ora una parola circa il ricorso alle fonti degli autori. Non è una novità che tali fonti siano misteriosamente esigue se rapportate ad altre figure cardine della storia ateniese[2]: in confronto a uomini quali Solone, Pisistrato (e i Pisistratidi) e Pericle, si assiste a quello che potrebbe definirsi metaforicamente un “inquietante silenzio”[3] da parte della storiografia e della letteratura antica, un buco parzialmente spiegabile anche attraverso l’affermazione di H.T. Wade-Gery che gli autori riportano, secondo la quale «Clistene non ha eccitato l’immaginario popolare; l’aspetto mitico della sua vita è ridotto al racconto morale di Eliano e alle chiacchiere sui suoi rapporti con Delfi» (p. 139). Questa penuria di riferimenti a Clistene sulla quale il testo torna periodicamente è proprio il fattore scatenante l’encomiabile approccio interdisciplinare (mai dispersivo) scelto dagli autori: passando dalla numismatica alla storia dell’arte e dalla filosofia all’urbanistica, viene infatti gettata una rete atta a catturare tutti quegli aspetti necessari al fine della soddisfazione delle domande con cui si apre il testo (o quanto meno si tenta in tal modo di fornire un più ampio e corretto indirizzamento della ricerca). Contemporaneamente e in aggiunta a questa soluzione non deve passare inosservata la vastissima letteratura secondaria a cui si fa riferimento. Questo è sicuramente uno degli aspetti più encomiabili del testo, sicché anche qualora il lettore decidesse di prendere una posizione critica su alcune delle riflessioni esposte, rimarrebbe innegabile il valore prezioso di tutti quei rimandi a studi che ancora oggi sono di grande importanza – sebbene talvolta poco conosciuti, complice anche una mancata traduzione italiana.

L’accusa di sacrilegio che valse alla famiglia degli Alcmeonidi ben tre esili (p. 49-50), quasi che vi fosse uno stretto nesso tra la loro (presunta) ereticità e originalità politica, finì molto probabilmente per influenzare l’operato di Clistene. È proprio nel primo capitolo che viene preso di petto il tema della riforma che portò alla creazione di uno spazio e di un tempo civici attraverso la nota divisione dell’Attica in tribù, trittie e demi. Emerge così che questa geometrica suddivisione della regione avesse come scopo il “mescolamento” della popolazione[4], volto a ridimensionare notevolmente il potere smisurato di famiglie come quella degli Eupatridi tramite la distruzione del «contesto geografico e sociale tradizionale» (p. 26). Con questi obiettivi in mente, Clistene istituisce la celebre boulé dei Cinquecento dove, a turno, ogni tribù esercita la pritanìa presiedendo all’Ecclesia. Viene dunque a formarsi per la prima volta uno spazio politico in cui il demos possa partecipare attivamente e «non è un caso che l’agorà di Atene venga rimodellata nell’ultimo decennio del secolo [V]» (p. 29). In questo periodo si assiste infatti alla costruzione del bouleterion il quale, utilizzato per scopi profani e condividendo la medesima pianta della sala delle iniziazioni innalzata da Pisistrato ad Eleusi, funge da testimonianza di una laicità ante litteram. Nella medesima ottica di accrescimento dell’importanza degli spazi politici è da considerare poi la clistenica delimitazione dell’agorà attraverso cippi confinari – una simile operazione, così precisa, non vuole in alcun modo evidenziare uno spazio incolmabile tra le tribù e il loro luogo di rappresentazione ribadendo la tradizionale opposizione tra oikos e politica[5], bensì all’opposto vuole unire tutte le circoscrizioni territoriali dell’Attica (asty, paralia, mesogaia) in un unico centro comune e geometrico: appunto l’agorà, cuore della civiltà ateniese. Ma lo studio di Lévêque e Vidal-Naquet non si limita a quelli che qui non possono che essere pochi riferimenti circa la nuova concezione di spazio civico, poiché come già accennato gli effetti che derivano dall’opera dell’Alcmeonide investono anche la tradizionale concezione Attica del tempo. Nel capitolo VI, dove vengono analizzati quei numeri che fanno da costante cornice per tutta l’opera organizzativa di Clistene, ovvero il tre, il cinque e il dieci (con annessi i suoi multipli), questo suo spirito riformatore emerge chiaramente. In contrapposizione con lo schema duodecimale prettamente ionico che aveva esportato in tutta l’Ellade la tradizionale composizione del pantheon divino, la scelta di optare per un sistema decimale rompe «incontestabilmente con una tradizione sacra di matrice etnica e religiosa al tempo stesso» (p. 118). Così facendo infatti, non solo Clistene si contrappone alle influenze della Ionia come già era noto ad Erodoto (Ibidem), ma attraverso la successiva istituzione del calendario civico composto da dieci mesi (conseguenza diretta dall’esistenza delle pritanie), il suo operato va a concorrere direttamente con il tradizionale scandirsi del tempo basato sul calendario religioso, che richiamando la composizione degli dei era costituito da dodici mesi. In tal modo, attraverso la nuova istituzione di un anno propriamente politico, gli autori possono affermare con sicurezza come «l’organizzazione del tempo ricalchi […] quella dello spazio» (p. 32), entrambe volte a favorire la nascita di una nuova dimensione prettamente politica nella vita dei cittadini ateniesi.

Un’ulteriore ricerca portata avanti dagli autori è quella incentrata sul concetto di isonomia. Il motivo stesso che porta all’analisi di questo termine è di fondamentale importanza per l’interpretazione che si viene a delineare circa l’orientamento politico di Clistene, stando così le cose vale la pena seguire da una distanza relativamente vicina i passaggi riportati nel corso del testo. Utilizzando Erodoto come fonte principale, Lévêque e Vidal-Naquet notano lo stretto legame politico che il celebre storico pone tra Clistene di Sicione, Clistene l’Ateniese e Pericle – una continuità che lungi dall’essere caratterizzata da un mero rapporto di parentela, spiegherebbe invece l’orientamento democratico dell’intera famiglia degli Alcmeonidi, ivi compreso quello di Clistene l’Ateniese e la sua riforma. Tuttavia, per poter accogliere o respingere una simile posizione risulta necessario delucidare il senso che la parola democrazia possedeva verso la fine del VI secolo e l’inizio del V secolo, ed è in questo contesto che gli autori giungono a un’importante conclusione. Negando l’opinione ancora oggi diffusa secondo la quale Le Supplici di Eschilo sarebbero il primo testo che esprime, tra l’altro tramite una perifrasi, il concetto di democrazia, gli scrittori sostengono al contrario che la tragedia non sarebbe anteriore al 468, lasciando così ad Erodoto il primato del suo utilizzo scritto (p. 36-37). Qui, nel celebre discorso tenuto dal persiano Otane[6], la suddetta parola viene poi identificata formalmente con l’isonomia, un termine assai antecedente quello attribuito a Clistene. È dunque da questa presunta identificazione di significato tra termini temporalmente distanti che nasce l’esigenza di una ricerca autonoma sulla parola isonomia e sui suoi termini affini, da cui emergerà in maniera «sorprendente» come «queste parole sono utilizzate dallo storico esclusivamente per evocare fatti che risalgono alla fine del VI secolo e all’inizio del V» (p. 38). Inoltre, nel loro frequente utilizzo, esse hanno un costante riferimento ai regimi anti-tirannici che si vengono ad instaurare (p. 39). Nel famoso scolio dei tirannicidi, dove compare il termine ἰσονόμους, l’Atene che si viene a rappresentare all’alba dell’assassinio di Ipparco è «un’Atene sbarazzatasi dei tiranni» (p. 40), così come è probabile che la cacciata del fratello Ippia da parte delle forze congiunte degli Alcmeonidi e degli Spartani nel 511/510 sia avvenuta sotta l’egida comune dell’isonomia, pur rappresentando queste fazioni delle forme politiche totalmente differenti che si sarebbero scontrate di lì a poco (p. 54). Tutto ciò permetterebbe dunque di concludere che l’isonomia non sia semplicemente «la vecchia parola che i Greci usavano in luogo della più tarda demokratia»[7], bensì un termine che risale «a un’epoca in cui non era ancora possibile distinguere nettamente gli “oligarchi” dai “democratici”» (p. 41), e questo proprio perché la supposta uguaglianza di fronte alla legge che tale termine indica è da intendersi in un’accezione oppositiva rispetto ai governi tirannici dei singoli, lasciando così nell’ambiguità l’estensione effettiva che l’uguaglianza possiede. Tuttavia, nonostante la parola democrazia non pare fosse presente al tempo dell’attività politica di Clistene e nonostante la sua presunta forma arcaica, ovvero l’isonomia, sembrerebbe utilizzata tra il VI e il V secolo in un senso differente rispetto al suo futuro sostituto, la posizione di Erodoto sull’operato politico dell’Alcmeonide non viene rigettata interamente dagli autori. Se, infatti, non è possibile ravvisare elementi democratici in Clistene prima della cacciata di Ippia, successivamente le posizioni dell’ateniese e dell’alleato spartano Cleomene cominciarono a polarizzarsi sempre maggiormente, lasciando presagire quella differenza ideologica che giocherà un ruolo fondamentale nella guerra del Peloponneso. Per assicurarsi la vittoria nella lotta al potere contro Isagora, sostenuto dalla città «campione delle oligarchie» (p. 63) Sparta, Clistene dovette infatti associare «il popolo alla sua eteria»[8]. Questo demos a cui si rivolge, però, non è affatto il medesimo a cui si era rivolto Pisistrato, in quanto esso viene ora a porsi come una vera e propria «classe politica» (p. 56) che costituisce il centro delle riforme cominciate nel 508 e concepite dal loro artefice, probabilmente, già nel suo terzo e ultimo esilio. Così, Clistene finì con il trasformare radicalmente le istituzioni sulla base del suo progetto, il quale pur mantenendo alcune delle vecchie strutture prevedeva «l’integrazione del demos in quadri politici nuovi» (p. 64), dando inizio a ciò che in seguito verrà correttamente definita come democrazia.

Sorge allora una domanda legittima, portatrice di un’ulteriore questione: quali furono i modelli politici a cui Clistene si ispirò? E quale l’universo concettuale entro cui tale riforma poté essere pensata? Tra queste domande (indagate rispettivamente nel IV e V capitolo) sarà più opportuno concentrarsi sulla risposta data dagli autori nei confronti della seconda, di modo da individuare le coordinate mentali entro cui Clistene operò e favorire la comprensione degli aspetti più tecnici del IV capitolo, lasciati alla lettura integrale del testo. Detto ciò, è proprio il pensiero ionico quello che sembra avere una sostanziale affinità con l’azione politica del «fondatore della città nuova» (p. 96). In particolare, l’evoluzione geometrica che avrà Atene nel VI secolo sotto l’iniziale impulso di Clistene condivide con i cosiddetti filosofi naturalisti la regolarità che questi ultimi, parlando del mondo naturale, gli attribuivano. Non è una novità che i pensatori della scuola di Mileto trasferirono alcuni dei più importanti concetti provenienti dalla sfera sociale dell’uomo al mondo fisico (come ad esempio quello di Kosmos e Dike), e a tal proposito gli autori rinviano a importanti studi condotti da G. Vlastos e J.-P. Vernant, ai quali sarebbe utile aggiungere anche la recente ripresa dell’interpretazione del doppio processo di proiezione e riflessione[9] – processo per cui tali filosofi proietterebbero i concetti umani sulla natura di modo da trarre successivamente, con un opposto movimento discensivo-riflessivo, una maggiore legittimità dei suddetti concetti derivata dalla sostanziale unità con quelli che governano il mondo intero. Tuttavia, nonostante le somiglianze, Lévêque e Vidal-Naquet fuggono un’immediata identificazione tra Clistene e il pensiero filosofico, affermando come sia «assolutamente falso e assurdo immaginare che, per mezzo di un qualsivoglia meccanismo, la città abbia generato la geometria o la geometria la città. Se Clistene ha costruito la prima citta geometrica, non è ad Atene che sono nate le filosofie ispirate alla geometria»[10] (Ibidem). Perciò, se un orizzonte di pensiero comune dovesse effettivamente esistere nonostante la distanza, esso deve ancora essere comprovato. Con questo obiettivo in mente gli autori riprendono l’Anassimandro cartografo che realizzò la prima carta della oikoumene (la rappresentazione della Terra conosciuta e abitata dall’uomo), composta sulla base dei principi della ragione. È proprio per via di questo fondamento che «il cartografo si fa geometra e lo spazio geografico di Anassimandro si ordina in una griglia adeguata all’intelletto, come poi accadrà allo spazio politico di Clistene nell’accurata ripartizione delle trittie» (p. 98). Ma ancor di più della sua composizione è sicuramente l’utilizzo politico che della «carta ionica» viene fatto, quell’elemento chiave in grado di restituire lo spirito comune del tempo. Seguendo ancora una volta Erodoto in un’attenta analisi, gli autori si rifanno all’episodio di Aristagora di Mileto il quale, verso il 500, andò in giro per la Grecia alla ricerca di alleati che potessero unirsi alla spedizione contro la Persia. Fu così che egli, portandosi appresso «una tavola di bronzo sulla quale erano incisi i contorni di tutta la terra, tutto il mare e tutti i fiumi»[11], tentò di convincere Sparta e Atene della fattibilità e remuneratività dell’impresa. Avvenne tuttavia che il milese riuscì a convincere solo la città sacra ad Atena, la quale inviò venti navi: come fu possibile? Al di là dei motivi puramente politici è chiaro come, ad avviso di Lévêque e Vidal-Naquet, vi siano alla base due mentalità differenti – una visione questa che sarebbe condivisa anche da Erodoto il quale situa «il racconto sull’introduzione della “democrazia” ad Atene proprio fra l’esposizione dei due discorsi di Aristagora» (p. 101). In effetti, non è improbabile pensare che Atene, la quale ha già avuto esperienza dell’operato politico di Clistene, fronte a questa mappa geografica che richiama quella già costruita sulla base della filosofia di Anassimandro sarebbe in qualche modo più a suo agio, più disposta cioè a prestare ascolto al discorso di Aristagora. Per concludere l’analisi sulle affinità tra il pensiero ionico e l’agire clistenico, mostratosi coincidente sulla base della visione geometrica del mondo e la visione di una città razionale e omogenea, può rivelarsi utile fare un breve riferimento al modello politico proposto da Talete di Mileto all’alba dell’imminente arrivo dell’esercito persiano (p. 81-82). Egli suggerì una soluzione drastica e geometrica, ovvero la creazione di un sinecismo che vedesse Teo come città principale mentre, in parallelo, tutte le restanti città della Ionia si sarebbero dovute considerare dei semplici demi. Così, Ancora una volta, lo stesso Erodoto fonte di questo episodio opera un accostamento tra Talete e Clistene, sancendo in definitiva la mutua influenza anche per via della parola “demi”, utilizzata dallo storico nel medesimo senso che essa aveva ottenuto a seguito della riforma dell’Alcmeonide.

Per ultimo, è significativo soffermarsi sull’analisi svolta dagli autori nei confronti della ricezione del modello clistenico nel pensiero platonico del IV secolo, di modo da vedere come la filosofia greca concepì l’operato di Clistene negli ultimi momenti di autonomia delle polis. Nel Crizia, Lévêque e Vidal-Naquet portano avanti la stimolante interpretazione che vede nella mitica città di Atlantide un’allegoria volta a mascherare la pesante critica che il filosofo muove all’Atene classica, ovvero a quell’Atene inaugurata proprio dall’opera riformatrice di Clistene. Gli elementi che, mutatis mutandis, richiamano la città dell’Alcmeonide sono molteplici: la divisione del territorio di Atlantide in dieci parti, a capo di ognuna delle quali figurava un re; la presenza del celebre metallo da cui la città traeva le sue ricchezze, l’oricalco, che ricorda l’argento che Atene prendeva dalle miniere di Lauro; la vocazione marittima e commerciale della leggendaria città consacrata a Poseidone; una gigante statua del dio posta all’interno del tempio situato nell’Acropoli e, infine, la stessa forza imperialista di Atlantide che accompagna la sua disfatta, dovuta all’avidità e alla hybris dei re. Se dunque Atene è il modello a cui Platone si ispirerebbe per Atlantide, quest’ultima pur non coincidendo totalmente con quella viene a rappresentare in un certo qual senso «il modello del male» (p. 164).

Una critica più concreta all’Atene classica è data sicuramente dal modello di città ottimale che Platone viene a delineare nelle Leggi, considerato dagli autori, per via della sua costituzione, «la perfetta antitesi» (p. 173) dell’opera di Clistene. Ciò che l’Alcmeonide aveva costruito viene infatti fermamente rigettato e data l’enorme influenza che Platone avrà sui suoi posteri non è affatto peregrino attribuire al filosofo parte delle “colpe” che hanno portato alla scarsità di interesse, nella storiografia antica, per Clistene. In particolare, Platone ritorna a un sistema duodecimale per la divisione delle tribù, ognuna delle quali dovrà essere consacrata a una particolare divinità. In questo modo e al contrario di Clistene, Platone modella lo spazio sulla base del tempo, il quale costituito da dodici mesi per un totale di trecento sessantacinque giorni rimanderà per altrettante volte alle divinità, proprio come accadeva già nei calendari ionici. L’opera di Platone sarebbe dunque essenzialmente volta a far sì che «la legge, la ragione e la divinità coincidano» (Ibidem), contrariamente a Clistene che ha “laicizzato”, politicizzandola quanto più possibile, la religione, inscrivendola «nelle coordinate di uno spazio e di un tempo astratti» (p. 172). La sovranità più alta che l’Alcmeonide tentò di attribuire al popolo, tanto da far sì che Aristotele individui nel riformatore l’inventore della democrazia, nel dialogo platonico cede il passo alla sovranità degli dèi, seguita subito dopo da un elitario «consiglio notturno» composto di anziani e giovani che «meditando sugli astri, sull’unità della virtù e infine sulla dialettica, modellavano la città su questa “Città interiore” che non rientra nella sfera della vita politica» (p. 171).

A margine occorre dire che questo modello politico di Platone non può essere criticato, oggi, sulla base dello spirito contemporaneo occidentale figlio dell’illuminismo, particolarmente a suo agio nell’individuare una politica laica. Fondamentale è il contesto storico, qui un po’ trascurato da Lévêque e Vidal-Naquet, che ha spinto Platone alla formulazione della città dei Magneti in questi termini, esattamente come già La Repubblica tendeva a trovarsi per certi aspetti agli antipodi con l’Atene classica. Per il filosofo la città è “malata”. La decadenza morale e dei costumi dell’Atene a lui contemporanea (erede diretta dell’Atene classica come pure gli autori sostengono) aveva mandato a morte il maestro nel 399. Posto di fronte a questi misfatti, Platone cerca in tutti i modi di ritrovare quell’unità tra mondo sociale e mondo naturale che l’Alcmeonide aveva spezzato nell’andare a creare un tempo e uno spazio civico convenzionale e astratto (p. 172), scevro da qualunque rapporto con il divino. È proprio contro questo distacco, tradottosi poi con la sofistica (figlia dell’operato clistenico) nell’arbitrarietà del nomos, che Platone combatte strenuamente tramite il ricorso alla ragione. Così, nella costruzione della città, ciò che in Clistene è arbitrario nell’ottica di Platone non può esserlo in alcun modo, rivelandosi piuttosto come il frutto della “giusta ragione” (ὀρθὸσ λόγος) propria del legislatore, in grado di fare del logos una legge.

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Pierre Lévêque (1921-2004) è stato uno storico dell’antichità. Professore presso le università di Montpellier (1955-57) e Besançon (dal 1957), dove è stato anche preside e rettore, si è dedicato in particolare alla storia politica, sociale e religiosa della Grecia antica. Ha pubblicato moltissime opere sulla storia greca, tra cui La civiltà greca (2002) e Sulle orme degli dei greci (2006).

Pierre Vidal-Naquet (1930-2006) è stato uno studioso della storia greca ed ebraica. Direttore di ricerca presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, nel 1990 succede a Jean-Pierre Vernant alla direzione del Centre Louis Gernet di studi comparati sulle società antiche. Impegnato nella difesa dei diritti umani, insieme a M. Foucault e J.M. Domenach firmò il manifesto del Gruppo d’informazione sulle prigioni (1971) ed entrò a far parte della Coordination française pour la décennie de la culture de la paix et de la non-violence. Fra le sue opere tradotte in italiano, si ricordano Lo specchio infranto. Tragedia ateniese e politica (2002) e Il cacciatore nero. Forme di pensiero e forme d’articola­zione sociale nel mondo greco antico (2006).

NOTE

[1] Erodoto, VI, 131, I. (Le Storie, Vol. 2, a cura di Aristide Colonna e Fiorenza Bevilacqua, UTET, 2006). Aristotele, La Costituzione degli Ateniesi, XX, 1.

[2] Aristotele stesso fa rientrare l’opera di Clistene in uno degli undici cambiamenti della storia dell’attica a partire dall’emigrazione di Ione. Ivi, XLI, 2.

[3] Sono debitore nei confronti del curatore del testo Antonio Coratti per questa suggestiva espressione.

[4] Così già Aristotele, La Costituzione degli Ateniesi, XXI, 2.

[5] A tal proposito si veda anche la Postfazione di questo libro, dove tramite rinvii a vari autori tra cui quello di riferimento di Lévêque e Vidal-Naquet, ovvero J.-P. Vernant (p. 19), viene a mettersi in mostra la differenza che corre tra la Grecia arcaica e quella classica circa il rapporto tra famiglia e politica.

[6] Erodoto, III, 80, 6.

[7] Questo è quanto sostengono invece autori come W. Jaeger, Elogio del diritto, in M. Cacciari e N. Irti (a cura di), Elogio del diritto, La nave di Teseo, Milano 2019, p. 17. Non sarà superfluo far notare come anche Jaeger, nella sua bella esposizione sullo sviluppo del concetto di diritto nell’antica Grecia, tace completamente sull’operato di Clistene.

[8] Erodoto, V, 66.

[9] N. Irti, Destino di Nomos, in M. Cacciari e N. Irti (a cura di), Elogio del diritto, cit., p. 119.

[10] Corsivo mio.

[11] Erodoto, V, 49, 1.

(credit foto ohiochannel.org via Wikimedia Commons)



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