Lo sguardo lungo di Dolly: dalla clonazione alla medicina rigenerativa. Intervista a Carlo Alberto Redi

Dalla nascita di Dolly la clonazione ha rivoluzionato l’epistemologia genetica, aprendo a sviluppi impensabili nella medicina rigenerativa.

Andra Meneganzin

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Questo contributo è inserito nel numero di MicroMega+ del 2 luglio 2021.

Ora è possibile osservarla al Museo Nazionale di Scozia a Edimburgo, a una decina di chilometri di distanza dal Roslin Institute, dove i biologi Keith Campbell e Ian Wilmut avevano concepito un esperimento destinato a schiudere nuovi spazi di possibilità per la ricerca scientifica. La celebre pecora Dolly è oggi simbolo delle frontiere raggiunte con la clonazione. Da abusato tema di fantascienza a oggetto di intenso dibattito bioetico, la clonazione del XX secolo ha gettato le basi per una profonda rivoluzione nell’epistemologia genetica, aprendo a sviluppi ritenuti impensabili nel campo della medicina rigenerativa.
Ne parliamo con Carlo Alberto Redi, professore Ordinario di Zoologia presso l’Università di Pavia, accademico dei Lincei, presidente del Comitato Etica della Fondazione Umberto Veronesi, ed esperto di genomica funzionale e riprogrammazione genetica.

Venticinque anni fa la nascita della pecora Dolly (5 luglio 1996), il primo mammifero a essere clonato con successo partendo da una cellula somatica. Forse i non esperti si staranno già chiedendo: perché clonare una pecora?
Il fatto risulta meno insolito se lo si guarda in prospettiva storica. Aveva senso che fosse una pecora se si guarda il deragliamento prodotto da presunte frodi come quella di Peter Hoppe e Karl Illmensee, che in un articolo del 1981 dichiararono di aver clonato dei topi trasferendo i nuclei di cellule embrionali allo stadio di blastocisti[1] in oociti[2] enucleati. Tuttavia, nessuno riuscì a ripetere l’esperimento e a ottenere il completo sviluppo di un embrione di topo: un articolo di Nature del 1984 dichiarò così che la clonazione utilizzando tecniche di trasferimento nucleare era biologicamente impossibile. La biomedicina smise allora di interessarsi alla clonazione. Se ne interessarono i veterinari, che avevano scopi più pratici. Ad esempio, se posso far esprimere il fattore IX della coagulazione del sangue umano nella mammella di una pecora transgenica, otterrò del latte con una proteina fondamentale, la cui carenza porta all’emofilia B. Il concetto è quello di una bio-fattoria. Al tempo questa operazione era economicamente molto costosa: in caso di decesso dell’animale col fattore IX della coagulazione, ingegnerizzarne un altro sarebbe stato esoso. Meglio clonarlo. Così si è arrivati alla clonazione, per rispondere ad esigenze che partivano dalla ricerca veterinaria.

Dolly è stata clonata dopo 277 tentativi a partire da una cellula somatica, prelevata dalla ghiandola mammaria di una pecora adulta, attraverso la tecnica del trasferimento nucleare (SCNT – somatic cell nuclear transfer). Come si è arrivati a questo risultato?
Il successo di Dolly ha le sue radici nella storia della biologia sin dall’800, a partire dalle domande del biologo evolutivo August Weismann su che cosa fossero la linea germinale e la linea somatica e gli esperimenti dei grandi embriologi della scuola tedesca (tra cui ricordiamo Wilhelm Roux e Hans Driesch). La scuola è sì tedesca, ma sebbene non lo si ricordi abbastanza, questi scienziati hanno lavorato per numerosi anni alla Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, in Italia. La strumentazione era allora scarsa, per cui erano necessarie grandi cellule come quelle degli invertebrati marini per poter condurre gli esperimenti. Così, si riuscì a vedere che nell’idromedusa, ad esempio, alcune cellule non si differenziavano (sono le cellule della linea germinale, che contengono materiale genetico trasmissibile ai discendenti).
Hans Spemann, figura geniale, pur in assenza di strumenti, aveva una domanda scientifica ben precisa: cosa succede se sposto il nucleo di una cellula della linea somatica (cellule cioè che si differenzieranno e andranno a formare le cellule dei vari organi del corpo) in una cellula della linea germinale? Con i capelli biondi della figlia Margrethe realizzò delle “strozzature” all’interno di quelle grandi cellule animali, riuscendo a spostare i nuclei nel citoplasma. La tesi di dottorato dell’allieva prediletta, Hilde Proescholdt (vittima poi di un tragico incidente), lo porterà al Nobel. Ma il suo grande rimpianto era quello di non aver potuto realizzare “l’esperimento fantastico” (“das wundere Experiment”) in assenza di strumentazione adeguata, ovvero prelevare il nucleo non da una cellula embrionale o nelle prime fasi dello sviluppo, ma da una cellula terminalmente differenziata.
Negli anni ‘50 i biologi americani Robert Briggs e Thomas King misero una siringa su una cremagliera, procedendo con piccolissimi avanzamenti controllati da un micrometro, riuscendo a bucare le cellule e a prelevarne il nucleo, e clonando così animali di vario tipo. Verso gli anni ‘60, John Gurdon clonò la rana, prelevando un nucleo cellulare dall’intestino di un rospo africano (del genere Xenopus) e inserendolo in una cellula uovo, ed è in questo contesto che si usa per la prima volta la parola “clone”. Ma non siamo ancora arrivati all’esperimento fantastico di Spemann in un mammifero. Peter Hoppe e Karl Illmensee, come abbiamo visto, dichiararono di aver clonato il topo ma nessuno riuscì a ripetere l’esperimento (ancora troppo sperimentale la strumentazione necessaria), di qui l’accusa di frode a seguito di indagini di una commissione guidata dal biologo Davor Solter. Ma la conclusione perentoria sull’impossibilità di clonare un mammifero alla fine si rivelò errata, come sappiamo.
Infatti, da quel momento partì un filone di ricerca veterinaria: Neil First clonò i vitelli a partire da cellule embrionali preimpianto e poi Keith Campbell e Ian Wilmut clonarono la pecora Dolly. È doveroso ricordare che a condurre gli esperimenti cruciali fu Keith Campbell, che ho avuto modo di ospitare diverse volte all’Università di Pavia. Clonò le famose Megan e Morag, due pecore, a partire da cellule coltivate in laboratorio, non da cellule terminalmente differenziate come richiedeva l’esperimento di Spemann e allo stesso modo, negli stessi anni, Gerald Schatten e Don Wolf clonarono delle macache. Con Dolly, invece, nata prelevando da un freezer una cellula di una ghiandola mammaria di una pecora deceduta da diversi anni, si ha un vero e proprio salto quantico. Anche se in questo caso si fa riferimento a un trasferimento nucleare, Wilmut e Campbell operarono più precisamente una fusione cellulare col virus di Sendai (fondendo cioè l’intera cellula della ghiandola mammaria con l’oocita). Così, dopo 277 tentativi, 29 primi embrioni sviluppati, in una delle 13 pseudo-madri spunta fuori Dolly. Si tratta di una vera e propria rivoluzione concettuale: Spemann, sull’onda degli embriologi dell’800 ci aveva azzeccato. Sotto il profilo dell’epistemologia genetica Dolly indicava che una cellula terminalmente differenziata poteva essere riprogrammata geneticamente al contesto embrionale. Un traguardo straordinario.

Cosa distingue questa tecnica di trasferimento nucleare (che nel caso di Dolly, abbiamo visto, ha coinvolto un processo di fusione) da altri metodi di clonazione esistenti?
Per produrre cloni si può anche utilizzare la tecnica della scissione embrionale (embryo splitting), un processo che mima il fenomeno spontaneo dei gemelli monozigoti. È una tecnica semplice e non esosa, che tuttavia richiede tempo e va ripetuta. Nel caso di un animale con caratteristiche di interesse e che produce un buon numero di progenie, si può ricorrere alla scissione embrionale. Molti commettono l’errore di considerare l’individuo finale un clone dell’individuo parentale, ma non è così: gli individui della generazione figlia (che sono tra loro cloni), sono geneticamente diversi dai genitori, perché questi si sono riprodotti sessuatamente. L’indirizzo del trasferimento nucleare è quello di avere un vero e proprio clone dell’individuo parentale ed è a oggi la principale tecnica di clonazione. Il trasferimento nucleare, nel vero e proprio senso della parola, è proprio questo: prendo il nucleo di una cellula di un tessuto che mi interessa e lo trasferisco in una cellula uovo a cui ho tolto il nucleo (“enucleata”).

Quando l’articolo scientifico venne pubblicato sulla rivista Nature il 27 febbraio 1997, l’immaginazione collettiva aveva ormai preso il sopravvento. Dolly fu la miccia di innesco di un acceso dibattito etico e scientifico sulle possibili applicazioni ed estensioni di questa tecnica ad ambiti come la clonazione riproduttiva umana. Nel 1998 il Consiglio d’Europa propose agli stati aderenti la messa al bando della clonazione umana. Nel 2000 l’Europarlamento votò una risoluzione simile, vietando la clonazione umana in ogni sua forma (riproduttiva e terapeutica). Retrospettivamente come valuta tali provvedimenti, alla luce delle conoscenze del tempo, e qual è il reale lascito scientifico del traguardo raggiunto con Dolly?
Tutto il mondo politico, a livello internazionale, era al tempo spaventato, ma non ci fu nessuno che compì l’opera fondamentale di distinguere la tecnica dal prodotto della tecnica. E fu proibito tutto indistintamente. Andava invece proibito il prodotto: “non si può clonare un individuo umano!”. Ma la tecnica di trasferimento nucleare è talmente utile in una vastità di campi che proibirla è un delirio. Questo è dovuto al fatto che non c’è stata una cultura dell’informazione da parte del mondo politico, evidentemente a livello europeo: non ci si è rivolti agli esperti prima di produrre le norme. Questa situazione ha provocato un ritardo terribile nell’utilizzo buono della tecnica, e che permane tutt’oggi in alcuni aspetti. Pensiamo ad esempio all’applicazione del trasferimento nucleare – l’eredità di Dolly – per evitare terribili patologie mitocondriali, talvolta correlate a gravi paraplegie nei bambini.

Dolly ha notoriamente dato l’inizio anche alla ricerca sulle cellule staminali. Il biologo Shinya Yamanaka ha dichiarato che fu proprio la clonazione di Dolly a spingerlo a intraprendere questa nuova linea di ricerca, che gli valse il Nobel per la Fisiologia e la Medicina nel 2012.
Certo, si applica la riprogrammazione genetica limitatamente alle primissime fasi dello sviluppo embrionale, senza impiantare l’embrione (in base alla nota “regola dei 14 giorni[3]”). Disgregandolo, si ottengono cellule staminali con cui realizzare terapie cellulari. Oggi siamo in grado di differenziare molto bene le cellule staminali embrionali nel prodotto desiderato, ad esempio cellule della pelle, cellule del fegato o del cuore. Questa clonazione terapeutica è appunto finalizzata alle terapie cellulari, ma il dibattito come sappiamo è ancora molto acceso. Una obiettiva difficoltà di fondo consiste nella disponibilità di cellule uovo: io propongo, assieme ad altri, di ricorrere ad embrioni crioconservati e che altrimenti sarebbero gettati. Si calcolò che in Italia, al tempo della formazione della Commissione EuroStemCell, ce ne fossero circa 50.000. Il loro utilizzo contribuirebbe ad alleviare le sofferenze di persone affette da gravi malattie – una forma di rispetto, io credo, maggiore della prospettiva di sprecarli, gettandoli via.
Una grande dimostrazione della sensibilità del mondo dei biologi a questioni di carattere etico – il koshmar (l’incubo) di un miliardo e mezzo di cattolici nel mondo – sta nell’esser riusciti a ottenere cellule simil-embrionali, ovvero cellule staminali pluripotenti indotte (induced pluripotent stem cells, iPSC) create artificialmente in laboratorio da cellule somatiche, ad esempio fibroblasti della pelle, riprogrammate e che non pongono problemi etici. Yamanaka è noto oggi per i “fabulous four” (i fantastici quattro) – Oct4, Sox2, Nanog, Klf4 – ovvero dei fattori di trascrizione utilizzati per “riaccendere” i geni della staminalità, creando cioè delle cellule staminali pluripotenti indotte. I risultati li conosciamo: dal fibroblasto[4] della pelle si possono ottenere delle simil-embrionali, che a loro volta possono essere differenziate per il tipo cellulare di cui il medico ha bisogno per fare medicina rigenerativa. Dei “fabulous four” si è riusciti poi a utilizzare solo Oct4 e oggi è sufficiente solo uno dei loro prodotti proteici. Le applicazioni hanno talvolta del commovente. Il prof. Michele de Luca, ad esempio, è riuscito a salvare la vita a un bambino colpito da epidermolisi bollosa – una patologia tremenda, che comporta una sorta di “liquefazione” della pelle. De Luca ha prelevato dei fibroblasti da un lembo di pelle ed ha fatto terapia genica, perché si conosce la base genetica della malattia, ha corretto il difetto genetico responsabile della malattia e ha ricreato dei metri interi di pelle, salvando la vita al bambino. Questo per dire che con Yamanaka si è aperto un mondo: la medicina si è trasformata da medicina riparativa a medicina rigenerativa.

Dolly è stata una prima mondiale, ma lei prof. Redi è stato a capo del gruppo di ricerca italiano che con il professor Ryuzo Yanagimachi, uno dei pionieri della fecondazione in vitro, ha clonato il primo topolino, Cumulina. Quali sono le novità rispetto a Dolly?
Fondamentalmente con Cumulina abbiamo il vero esperimento fantastico di Spemann. Si era partiti da cellule somatiche terminalmente differenziate del follicolo ovarico, cellule del Sertoli prese dal tubulo seminifero del testicolo e cellule del sistema nervoso. I tentativi con le ultime due tipologie abortirono. Con le cellule follicolari, un tentativo su 84 andò in porto. Il soprannome, Cumulina, deriva dal fatto che la cellula proveniva dal cumulo ooforo (il cumulo di cellule che riveste l’oocita). Chi clona, come sappiamo, ha diritto alla scelta di un soprannome.
Il topo non è la pecora di Campbell e Wilmut, trovo ingiusto che dal Nobel sia rimasto fuori Yanagimachi. Il topo è il modello per eccellenza: non esiste oggi patologia umana che non abbia un avatar murino. Con l’esperimento iniziato con Cumulina si è riusciti addirittura a clonare un clone.

Tre anni fa, nel 2018, un gruppo di ricercatori della Chinese Academy of Sciences è riuscito a clonare due macachi (Macaca fascicularis) – battezzati Zhong Zhong e Hua Hua – nati con la stessa tecnica utilizzata per Dolly. Un risultato del genere non era mai stato ottenuto con dei primati a partire da una cellula differenziata. Perché ci è voluto tanto per clonare un primate e quali contributi potrebbe dare uno studio simile al futuro della ricerca biomedica?
Il fatto che ci è voluto molto non è necessariamente legato a una difficoltà intrinseca, biologica o tecnica: gli strumenti ormai ci sono. L’aspetto principale riguarda una serie di restrizioni molto forti sulla sperimentazione su primati, soprattutto nei Paesi occidentali. La legislazione è sicuramente più permissiva in ambito cinese. Poi, ha giocato un ruolo importante la possibilità di avere molti animali a disposizione e la forte motivazione di capire in dettaglio le prime fasi dello sviluppo embrionale in mammiferi sempre più evolutivamente vicini all’uomo.

Ne aveva già accennato prima, ma quali sviluppi possiamo attenderci dalla medicina rigenerativa dei prossimi anni?
Saranno merito di quel lavoro di secoli che ha portato a Dolly come risultato finale e alla possibilità di terapie cellulari utilizzando diversi tipi di cellule differenziate da cellule staminali pluripotenti indotte. A questo punto, da qualsiasi tipo di cellula è possibile ottenere il reagente biologico per le terapie cellulari. Non c’è patologia che in linea di principio non possa essere aggredita con terapie cellulari. Tendo a essere un ottimista, ma vi includerei anche le lesioni spinali purtroppo frequenti negli incidenti cosiddetti della “mala movida”. Qualche risultato si è già visto in modelli animali. Per quanto riguarda il Parkinson, l’infarto e il diabete ci siamo quasi: col Parkinson siamo molto avanti nella sperimentazione e si è visto che funziona, per le zone necrotiche del miocardio (infarto) saranno presto sufficienti un ecografo e un ago per rilasciare le cellule nell’area infartuata. Anche il trapianto delle isole pancreatiche[5] per il diabete sarà sostituito. Quanto ai tumori, sappiamo che questi sono mantenuti dalla staminale cancerosa e capiamo ora il motivo della ridotta efficacia e dei fallimenti di chemioterapia e radioterapia che, salvo fortunatamente qualche eccezione, selezionano la staminale cancerosa che poi ripropone la malattia. Ma sapere che si tratta di una staminale, apre le porte a sperimentazioni di ogni tipo. Questo dimostra quanto sia importante la ricerca guidata dalla curiosità (ovvero la ricerca di base).

Se con Dolly, evolutivamente distante da Homo sapiens, le prospettive di clonazione umana rimanevano nel dominio del fantascientifico, ora con due macachi clonati c’è chi paventa la possibilità che diventino realtà. Come risponde a chi immagina prossimi scenari come quelli del noto film distopico The Island (2005), in cui la clonazione umana viene praticata a scopo di trapianto e maternità surrogata?
Risponderei come rispondo a coloro che ritengono sia stato un bene dare il Nobel a Kazuo Ishiguro: è vero che scrive bene e l’ho personalmente lodato al premio letterario scientifico Merck, ma ho votato contro l’assegnazione del premio per “Non lasciarmi” (2005). La trama ha delle somiglianze con The Island, con una comunità di persone che vengono clonate per donare gli organi ai malati. Rispondo che è fondamentale informarsi, per non rimanere vittime delle dinamiche delle fake news e dei like: nessuno ha oggi interesse a clonare un umano. Abbiamo parlato dei grandi successi scientifici inaugurati da Dolly, ma va precisato che con la produzione di un clone non si azzera del tutto il programma epigenetico[6] della cellula da cui esso deriva. Il medesimo genoma esprime geni diversi, imponendo un programma epigenetico che nella clonazione riproduttiva non viene perfettamente controllato, cosa che è invece possibile fare con le staminali pluripotenti indotte in laboratorio. Con la clonazione riproduttiva il più delle volte si osservano fenomeni come la sindrome degli organi dilatati, disformie della faccia, problemi neurologici. Dolly e Cumulina sono i tentativi andati a buon fine.
Chi si metterebbe mai a clonare un essere umano? Bisogna sfatare l’idea che il clone mantenga l’identità dell’individuo di partenza. Un essere umano è frutto del DNA proveniente dalla roulette genetica del sesso dei suoi genitori unito – ed è essenziale – alla sua interazione con l’ambiente. C’è anche un fondamentale aspetto etico: chi fornisce le cellule necessarie alla clonazione? Queste andrebbero acquistate, e con buona probabilità le venderebbero solo persone economicamente svantaggiate. Poi, se vogliamo, c’è un ulteriore aspetto: chi si priverebbe mai, per ottenere un clone umano, dei piaceri di un invito a cena e di quello che può seguirne?

Attualmente esistono diversi progetti di de-estinzione di specie che da tempo non fanno più parte dell’inventario della biodiversità sulla Terra, come il mammut lanoso e il piccione migratore (ma la lista è lunga). La clonazione, attraverso il prelievo di DNA da esemplari perfettamente preservati, è una delle opzioni. Siamo vicini alla possibilità di produrre prole vitale di un esemplare estinto? E perché – pur potendo – dovremmo volerlo fare, continuando a investire risorse in progetti di resurrezione di biodiversità perduta?
Temo siano meccanismi principalmente volti a ottenere visibilità. Pensiamo al genetista George Church, attualmente a capo di un programma di de-estinzione del mammut. La pseudo-madre di un mammut è un elefante: stiamo parlando di un canale del parto di diversi metri. Come può un veterinario utilizzare l’elefante come pseudo-madre? Inoltre, con l’attuale scioglimento del permafrost, dove pensa George Church di mettere un mammut? In frigo? Sono delle sparate che entusiasmano e stimolano le fantasie collettive, ma ci sono delle difficoltà tecniche macroscopiche: quante pseudo-madri servirebbero? Quante super-ovulazioni dovrebbe fare un’elefantessa? Come verrebbero estratte le cellule uovo? Molto più serio è il lavoro per gli animali in via di estinzione, a scopo di conservazione: diversi programmi in Australia e quello di Pierre Comizzoli per i felini allo zoo di Washington. In questo caso il ripopolamento di specie in via di estinzione andrebbe di pari passo con la conservazione delle nicchie ecologiche in cui vivono. La Lista Rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura è sterminata.


[Credit foto Sgerbic, CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons]


[1] La blastocisti è una delle fasi iniziali del processo di embriogenesi, ovvero il processo mediante cui l’embrione si forma e si sviluppa. Lo stadio di blastocisti nell’uomo viene raggiunto tra il 5° e il 7° giorno dopo la fecondazione.

[2] Un oocita è la cellula germinale da cui si origina il gamete femminile (la cellula uovo).

[3] La cosiddetta “regola dei 14 giorni” è una linea guida proposta nel 1979 dall’Ethics Advisory Board del Department of Health, Education and Welfare statunitense, poi recepita da altri 12 paesi in tutto il mondo. Sancisce la possibilità di svolgere ricerca in vitro sugli embrioni umani entro e non oltre il quattordicesimo giorno dello sviluppo embrionale stesso. Di recente la Società internazionale per la ricerca sulle cellule staminali (Isscr) ha rilassato questa regola, proponendo di valutare caso per caso gli studi che propongano di far crescere embrioni oltre le due settimane, e con processi di revisione ad ogni fase per determinare a che punto gli esperimenti debbano essere interrotti.

[4] I fibroblasti sono cellule tipiche del tessuto connettivo.

[5] Le isole pancreatiche, anche definite isole di Langerhans, costituiscono una minima parte della struttura del pancreas e sono costituite da aggregati di cellule che presiedono al metabolismo del glucosio in quanto contengono le beta cellule che producono insulina.

[6] Il termine “epigenetico” viene oggi utilizzato per descrivere la regolazione dell’espressione genica (capace di modulare i cambiamenti fenotipici) prodotta da modificazioni chimiche (i.e., aggiunta di particolari gruppi chimici al DNA o alle proteine che lo avvolgono) del genoma senza che sia alterata la sequenza nucleotidica primaria del DNA.



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