Comunicare la crisi climatica. Conversazione con Antonello Pasini

Qualcosa non ha funzionato, negli ultimi decenni, nello sforzo profuso dalla scienza per far comprendere al grande pubblico e alla politica l’entità della crisi climatica e ambientale. Ma come può il mondo scientifico migliorare i propri metodi di comunicazione? Come stimolare, con la stessa efficacia, conoscenza ed empatia? Una conversazione con Antonello Pasini, fisico del clima e divulgatore scientifico.

Sofia Belardinelli

(Articolo pubblicato originariamente il 23 novembre 2020)

“Mostrati sicuro nel comunicare”, “punta su ciò che sai”, “racconta una storia”. Potrebbero sembrare suggerimenti per affrontare al meglio un colloquio di lavoro: si tratta, invece, di alcuni dei consigli che è possibile trovare nel Manuale che l’IPCC fornisce agli autori dei propri report per aiutarli ad essere più efficaci nel sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi della crisi climatica.

Già, perché comunicare la scienza in modo proficuo non è un compito facile; e si fa ancora più arduo se, come nel caso dei cambiamenti climatici, ci si trova a dover spiegare un tema complesso, multidisciplinare e terribilmente attuale.

Che sia in atto una perturbazione degli equilibri climatici a livello globale è noto da almeno sessant’anni (le evidenze raccolte dal Club di Roma furono presentate al pubblico, dopo quattro anni di attività di ricerca, già nel Rapporto Meadows, “The Limits to Growth, del 1972). Inoltre, il fatto che questo fenomeno sia di origine antropica, che sia cioè causato dalle attività dell’essere umano, è ormai pressoché unanimemente riconosciuto dalla comunità scientifica. Tuttavia, nonostante la mole di evidenze che sottolineano l’urgenza di prendere decisioni immediate e incisive per fermare questa pericolosa tendenza, le reazioni dell’opinione pubblica e, ancor di più, le risposte della politica sono giunte con grande ritardo.

Cosa, allora, non ha funzionato nel flusso di informazioni tra il mondo scientifico e gli altri settori della società? I fattori che hanno contribuito a questo lungo periodo di stasi sono molteplici: la crisi climatica è, infatti, un fenomeno molto esteso nel tempo e nello spazio – un iperoggetto, l’ha definita un filosofo – e, in quanto tale, difficile da comprendere a livello concettuale, poiché esula dal nostro campo di esperienze, e difficile da accettare sul piano emotivo perché mette in discussione le nostre certezze, le nostre abitudini, il nostro stile di vita.

La sola conoscenza razionale, come molti giustamente sottolineano, non è sufficiente per motivare all’azione: tuttavia, è il primo passo – ineludibile – verso la consapevolezza. La scienza ha un compito importante, in questo senso: è necessario che condivida le proprie scoperte con il resto della società, cosicché tutti abbiano gli strumenti per comprendere il mondo che li circonda e, di conseguenza, per agire secondo coscienza.

Secondo Antonello Pasini – fisico climatologo del CNR, docente di Fisica del clima all’Università di Roma Tre e appassionato divulgatore scientifico (è possibile seguire la sua attività sul blog “Il Kyoto fisso” e sulla sua pagina Facebook) – tra gli elementi che ostacolano la comprensione della questione climatico-ambientale vi è, anche in Italia, la mancanza di una autentica cultura scientifica. Afferma il professore: «Tristemente, troppo spesso nel nostro paese la cultura scientifica viene considerata un patrimonio secondario, un insieme di conoscenze meramente tecniche e perciò non adatte a risolvere i problemi della società. A mancare, però, non è tanto una generale alfabetizzazione su argomenti di scienza, quanto piuttosto la comprensione dei meccanismi di funzionamento della stessa impresa scientifica. Molti, infatti, non riescono a distinguere i fatti dalle opinioni poiché non hanno idea di come si ottenga un risultato scientifico attendibile. Vi è un intero processo – studi ed esperimenti, sottomissione di articoli a riviste specialistiche del settore, revisione tra pari (peer-review) – che deve essere attraversato e superato, affinché una scoperta sia convalidata e riconosciuta dalla comunità scientifica. Ecco perché quel che la scienza afferma sul cambiamento climatico ha un alto grado di attendibilità: si tratta di informazioni e conoscenze che sono state attentamente vagliate, prima di essere riconosciute come valide».

Vi è poi un’altra importante questione, messa in risalto anche da indagini sociologiche: molto spesso, la disponibilità a “credere” alla realtà della crisi climatica non dipende dal grado di conoscenza scientifica dell’individuo, ma da fattori quali i valori di riferimento – ad esempio in ambito economico, politico, talvolta religioso – o lo stile di vita. Comunicare con diversi “tipi” di pubblico richiede grande attenzione e capacità da parte del divulgatore: come consiglia l’IPCC nel “Manuale per gli autori”, è fondamentale sapersi identificare con la propria platea, ricorrere a un linguaggio non tecnico, mantenere il rigore scientifico senza però richiamarsi solo ai dati – che potrebbero risultare astratti e poco comprensibili –, ma piuttosto riferendosi a esperienze quotidiane, che aiutino a rendere tangibile ciò di cui si parla. «Quando faccio divulgazione – racconta Pasini – provo sempre a stabilire una connessione emotiva con il mio uditorio. Ovviamente presento dati aggiornati e scientificamente corretti, ma cerco di farlo attraverso una narrazione che rifletta l’aspetto più umano della scienza. Trovo necessario, a volte, espormi anche in prima persona, raccontando aneddoti ed episodi della mia vita personale che possano coinvolgere maggiormente il pubblico – che a quel punto mi percepisce come “uno di noi”, e non come un accademico distante e distaccato».

«Prendiamo un esempio concreto: un pubblico che trovo a me particolarmente congeniale è quello giovanile», continua il professore. «In questi anni abbiamo assistito al crescente coinvolgimento e all’impegno dei giovanissimi – i millennials e le generazioni successive – rispetto alle questioni scientifiche, ma anche politiche e sociali, sollevate dal cambiamento climatico. Fin da subito ho simpatizzato con movimenti nati dal basso come Fridays for Future, con i quali, infatti, riesco ad avere un dialogo costruttivo. La motivazione, a mio avviso, è che su molti temi abbiamo una visione comune: giovani e scienziati, ad esempio, condividono la consapevolezza della necessità di programmare gli interventi di contrasto alla crisi climatica in un’ottica temporale di medio e lungo periodo, a differenza della politica che, avendo bisogno di consenso per poter agire, rimane spesso intrappolata in una prospettiva di breve termine».

Nel necessario percorso di “umanizzazione della scienza”, come lo definisce l’IPCC, è molto importante non perdere di vista l’obiettivo principale, che è in realtà duplice: da una parte, cercare di fornire informazioni il più possibile corrette, aggiornate e attendibili, e comunicarle con chiarezza; dall’altra, puntare a convincere il pubblico, a renderlo partecipe, a far capire come la questione della crisi climatica sia assolutamente attuale e concreta, e come coinvolga tutti in prima persona. Sostiene il professore: «Per me, in quanto scienziato, è essenziale sottolineare come la scienza non punti a raggiungere un’assoluta certezza – la quale è, in effetti, più un ideale regolativo che un obiettivo concreto – ma aspiri, piuttosto, a diminuire progressivamente i propri margini d’errore. Bisogna avere ben chiaro che l’incertezza è parte ineliminabile del processo di avanzamento scientifico. Questa notizia è, però, tutt’altro che negativa: è proprio l’incertezza, infatti, che mantiene viva la ricerca scientifica, permettendole di progredire».

Il compito del divulgatore, dunque, non consiste unicamente nella puntuale e onesta presentazione dei fatti scientifici, e nella spiegazione del loro significato a un pubblico non specializzato. Altrettanto essenziale all’attività comunicativa è, come abbiamo già accennato, il coinvolgimento del pubblico: uno dei principali limiti di un modello “antiquato” di divulgazione è, infatti, la sottovalutazione della dimensione emotiva. Essa, invece, deve essere risvegliata, quando si parla di cambiamenti climatici: di fronte a un processo che, con ogni probabilità, avrà prima o poi un’influenza diretta sulla vita di ognuno, non si può che auspicare che l’impegno per evitare – o almeno ritardare il più possibile – che si giunga a un punto di non ritorno non sia demandato unicamente alle istituzioni, ma sia assunto da ogni cittadino, individualmente.

Perché questo “risveglio emotivo” si verifichi, è necessario individuare altre forme di comunicazione: «Dobbiamo fare in modo – conclude Pasini – che la questione climatica non sia più appannaggio esclusivo del discorso scientifico, ma che diventi oggetto della riflessione artistica. Letteratura, cinema, teatro, musica: è importante che ogni forma d’arte si mobiliti, per poter raggiungere un pubblico ben più vasto di quello già interessato alla narrazione scientifica. La scienza, da parte propria, ha il dovere di aprirsi a queste nuove possibilità, mettendosi in discussione e ripensando radicalmente il proprio modo di comunicare». Ragione e sentimento devono trovare un comune terreno di dialogo, un linguaggio condiviso grazie al quale riscoprire la propria origine comune, oggi minacciata: la Terra.

 

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