I doveri dei giornalisti in tempi di guerra

Mai come in queste ore le responsabilità dei media sono enormi e non si può ignorare l'influenza sulla percezione dei lettori che hanno notizie non – magari solo non ancora – verificate con cura.

Christian Elia

Le ore scorrono più veloci, le giornate sono più corte. Le immagini, i post, i gruppi su WhatsApp e Telegram sono un flusso continuo: la guerra è ovunque, ma è allo stesso tempo lontana.
Questo frenetico flusso di informazioni è naturale, sia per la gravità di quello che accade in Israele e Palestina sia per la possibilità tecnologica che chiunque ha di produrre o rilanciare contenuti. Però se il giornalismo ha un senso, è quello di non farsi travolgere.
Da qualche ora gira un video tremendo: un ragazzino piange disperato, il corpo ricoperto di quelle che sembrano ustioni gravi, voci concitate attorno a lui. Secondo alcune fonti è la vittima di un assalto di coloni a un villaggio palestinese nei pressi di Hebron. Sono cose già accadute: luglio 2015, nel villaggio di Duma, vicino a Nablus, Ali, un bimbo di 18 mesi, morì bruciato come suo padre Saad Dawabcheh, morto in ospedale per le ustioni di terzo grado, dopo l’assalto alla loro casa di un gruppo di coloni estremisti che avevano appiccato il fuoco all’abitazione. All’epoca, in un clima politico differente, anche il premier Netanyahu parlò di ‘atto terroristico’. Possiamo però dare per confermata questa vicenda? Possiamo analizzare il video, capendo quando è stato realizzato, quale sia la storia dietro quel disperato ragazzino coperto di piaghe? Sì, lavorando con precisione e prendendosi il tempo per farlo, ma non reagendo a un contenuto diventato virale in poche ore raccontandolo come fosse già confermato. Non è nulla di rivoluzionario, è quello che distingue il giornalismo da tutte le altre forme di racconto di realtà.

Da circa un giorno la stampa italiana, in massima parte, sta dando per acquisita la notizia della decapitazione di alcuni dei 40 bambini (cento morti il totale delle vittime) massacrati a Kfar Aza, il kibbutz a due chilometri dalla Striscia di Gaza, una delle ventidue comunità di confine attaccate sabato mattina dai miliziani di Hamas. Premessa: possiamo dire che non sia accaduto? Assolutamente no. Possiamo confermare che sia accaduto? Al momento la stessa stampa israeliana è stata più cauta di quella italiana.
Quello che sappiamo con certezza è che fonti militare, entrate nel kibbutz, dopo il massacro, hanno riferito ai giornalisti – che mentre scriviamo non hanno avuto accesso – che sono stati rivenuti tra le vittime anche i corpi martoriati di bambini decapitati. Un orrore senza fine, che lascia senza fiato, che alimenta un immaginario deumanizzante del quale la gente di Gaza che non c’entra nulla col massacro (2,2 milioni di complici non è un dato di realtà) non ha bisogno. E non ne ha bisogno neanche l’informazione che si tenta di dare a un pubblico legittimamente assetato di notizie. Anche perché questa barbarie non toglierebbe nulla a quello che è un crimine, comunque, ma che andrebbe incontro a una lettura che richiama le dinamiche tipiche di ISIS e Daesh, da sempre estranee alle forme di lotta palestinesi. Segnerebbe un passaggio di livello, di linguaggio, di violenza, ma senza nulla togliere a quel che resta un massacro di civili, ne manipola la lettura.

A dare la notizia l’emittente TV I24 accusata di sensazionalismo in passato. Quello che colpisce è la cautela dei giornalisti israeliani, che hanno chiesto alle autorità di avere accesso alle autopsie, ai documenti e ai testimoni oculari prima di confermare la notizia. Magari sarà confermata nelle prossime ore, ma è importante prendersi il tempo di riflettere su come raccontiamo quello che accade, perché con i titoli cubitali sulle decapitazioni in Italia– al momento prudentemente scivolati in posizioni meno visibili della homepage di alcuni media mainstream – hanno già lasciato un segno. Che notoriamente, in questo lavoro, si sa non sarebbe mai più cancellato da una smentita. Lo stesso esercito israeliano non ha informazioni che confermino il fatto che Hamas abbia decapitato bambini: lo ha detto un portavoce militare all’agenzia stampa turca Anadolou.
Potrebbe essere confermata? Certo, magari già mentre si scrive questo articolo. Ma non possiamo rilanciare senza verificare. Conoscere il contesto è anche questo: avere la mappa mentale per collocare le informazioni e la loro provenienza. Ha’aretz, +972 Magazine e tutti i principali media israeliani ci stanno lavorando, i colossi internazionali come BBC e al-Jazeera, pur raccontando quello che hanno potuto vedere (un massacro terribile), sottolineano nei loro reportage come non abbiano avuto accesso alle salme. In particolare, Oren Ziv, reporter investigativo di +972, twitta: “Questa storia si sta ancora svolgendo e stanno arrivando informazioni che devono essere verificate. Sto ricevendo molte domande sulle notizie di bambini decapitati da Hamas che sono state pubblicate dopo il tour dei media nel villaggio. Durante il tour non abbiamo visto alcuna prova di ciò, e anche il portavoce dell’esercito o i comandanti non hanno menzionato alcun incidente del genere. Durante il tour, i giornalisti sono stati autorizzati a parlare con le centinaia di soldati presenti sul posto, senza la supervisione del team di portavoce dell’esercito. La giornalista di I24 ha detto di averlo saputo dai soldati. I soldati con cui ho parlato ieri a Kfar Aza non hanno parlato di bambini decapitati’. Il portavoce dell’esercito ha dichiarato: ‘Non possiamo confermare in questo momento… siamo consapevoli degli atti efferati di cui Hamas è capace’. Questo non significa che non siano stati commessi crimini di guerra. La scena a Kfar Aza è stata orrenda, con decine di corpi di israeliani uccisi nelle loro case. Purtroppo, Israele utilizzerà queste false affermazioni per intensificare i bombardamenti su Gaza, e per giustificare i suoi crimini di guerra”.

Tutti, in Israele e all’estero, i media più attendibili hanno correttamente riportato le dichiarazioni dei militari e di alcuni operatori che sono entrati per recuperare i corpi, ma chiarendo che a queste dichiarazioni non si è potuto ancora dare una verifica.
Nulla può invitare alla prudenza più di queste ore concitate e dolorose, mai come adesso bisogna non farsi travolgere. Paradossalmente anche rispetto al coinvolgimento delle autorità dell’Iran nell’attacco di Hamas a Israele, per certi versi, è stato più prudente il Dipartimento di Stato Usa – alleato d’acciaio d’Israele e non di Teheran – nel dichiarare: “Non abbiamo visto ancora prove secondo cui l’Iran avrebbe diretto o sostenuto questo particolare attacco. Ma c’è sicuramente un rapporto consolidato tra Teheran e Hamas”, per voce del segretario di Stato Usa, Antony Blinken, alla Cnn. “Non ci sono prove del diretto coinvolgimento dell’Iran”. Che magari ci sono, anche se le autorità iraniane hanno ‘benedetto’ l’assalto, pur negando di esserne parte. Mai come in queste ore le responsabilità sono enormi e non si può ignorare che si influenza la percezione dei lettori con notizie non – magari solo non ancora – verificate con cura.

FOTO EPA/HAITHAM IMAD



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Christian Elia

Antony Loewenstein racconta come le tecniche di controllo di massa che Israele sperimenta in Palestina siano un modello in tutto il mondo.

La storica sentenza della Corte suprema contro le disparità di trattamento degli ultra-ortodossi potrebbe destabilizzare il governo Netanyahu.

Il diritto internazionale deve essere difeso per la tutela dei palestinesi, ed è strettamente connesso alla tutela di tutti i popoli.

Altri articoli di Mondo

Il 25 aprile 1974, una sollevazione popolare e militare mise fine all'Estado Novo di Salazar, che terrorizzava il Portogallo dal 1933.

Il voto sulla commemorazione del genocidio di Srebrenica è un’occasione di affrontare le atrocità del passato e lo spettro di un nuovo conflitto.

L’ultima tornata elettorale in Turchia ha visto l’Akp di Erdoğan scendere a secondo partito su scala nazionale.