Conquiste e sfide per i diritti delle donne

Negli anni Sessanta, alle donne venne riconosciuto il libero accesso alle professioni. Negli anni Settanta avveniva la rivoluzione copernicana della riappropriazione di sé attraverso la pillola, l'aborto e il divorzio. E poi lo stupro divenne reato alla fine degli anni '90. Questo 8 marzo diamo uno sguardo alle varie fasi di sviluppo della libertà e dignità delle donne in Italia.

Maria Mantello

La giudice Margherita Cassano è la prima donna Presidente della Corte Cassazione. Una carica apicale importantissima che certamente è riconoscimento professionale da parte del Csm che l’ha votata all’unanimità al di là del genere, ma che per una donna arriva a 75 anni dall’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, e a 60 dalla legge che faceva cadere il divieto per le donne di accedere in Magistratura.

Vale appena ricordare che la questione del via libera a questo accesso era stata già posta all’Assemblea costituente sotto la spinta delle “madri costituenti, che però dovettero scontrarsi contro gli archetipi sessisti dei colleghi. Solo per fare un esempio (tra i molti dello stesso stampo) nella seduta dell’11 novembre 1947, Antonio Romano sentenziava: «La donna deve rimanere la regina della casa, più la si allontana dalla famiglia, più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per le capacità intellettive della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare».

A lui e a tutti gli altri onorevoli colleghi, Maria Federici (firmataria dell’emendamento) nella seduta del 26 novembre 1947 con serrata capacità analitico-critica replicava: «Se voi, onorevoli colleghi, stabilirete una norma limitativa nella nostra Costituzione per quanto riguarda il diritto della donna di accedere alla Magistratura, commetterete molti errori. Rileggete, onorevoli colleghi, quanto siete andati dicendo nel corso di questi nostri lavori, contate quante volte avete parlato di libertà civili, di parità di diritti, di uguaglianza di diritti […] Commetterete un grave errore, e prima di tutto entrerete in contraddizione con voi stessi […] Nell’articolo 3 voi avete stabilito che i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e lingua, di condizione sociale, di opinioni religiose e politiche, hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge  […] e che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il completo sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale dello Stato».

Il fronte reazionario ebbe la meglio! E ad applicare quel costituzionale “senza distinzione di sesso” (anche dietro sollecitazione della Corte costituzionale – sentenza n°33/1960) fu la Legge n. 66 del 9 febbraio 1963. Che il Parlamento della Repubblica varava a ben 15 anni quindi dall’entrata in vigore della Costituzione per statuire l’Ammissione della donna a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici. Magistratura compresa. Cassando la legge 17 luglio 1919 n. 1176, nonché il regolamento applicativo (R.D. 4 gennaio 1920 n. 39) e quindi le ridicole norme che tenevano fuori le donne da: magistratura, diplomazia, prefettura… spingendosi finanche a vietare incarichi per mansioni di normali addette alla segreteria in tribunali e prefetture!

Oggi la donna può accedere a ogni lavoro e carriera. Ma quante discriminazioni pregiudiziali resistono nella riproposizione della favola dell’angelo del focolare donna madre e sposa per vocazione onde ostacolare anche l’indipendenza economica delle donne e la parità salariale, finalmente sancite nel 1977 con la Legge n. 903 che vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la retribuzione e la carriera.

Negli anni Settanta avveniva la rivoluzione copernicana delle donne. Emancipazione voleva dire spezzare il modello patriarcale per riappropriarsi del proprio sé. Era la rivendicazione giuridica di un habeas corpus contro modelli stereotipati di cui il controllo della sessualità sulla donna è stato il principale “sacralizzato” tassello.

La verginità della donna non è stata forse per secoli un fatto di onorabilità sociale? E non spettava al maschio di famiglia difenderla anche con l’omicidio?
Ed è la storia del “delitto d’onore”, eliminato solo nel 1981 con la Legge 5 agosto 1981, n. 442, che abrogava anche il così detto «matrimonio riparatore»: acqua lustrale per estinguere il reato di violenza sessuale.

Sembrano cose di secoli fa, come pure quel vecchio diritto di famiglia, baluardo del codice fascista e mantenuto nell’Italia repubblicana, dove la moglie, considerata eterna minore, poteva essere picchiata a scopo «correttivo» dal marito capo-famiglia.
Nel 1975, con la legge n. 151 veniva varata la Riforma del diritto di famiglia, di cui la parola chiave è «parità». Una legge fondamentale per cambiare i rapporti strutturali patriarcali, che proprio nella famiglia avevano (e purtroppo ancora oggi spesso continuano ad avere) la loro maggiore zona franca.

L’anno prima c’era stata la vittoria dei No al referendum promosso dai clerico-fascisti per dire sì all’abrogazione della legge sul divorzio.
E nel 1975 venivano istituiti i consultori familiari con la legge 405 del 29 luglio 1975.

Una legge chiara ed essenziale nei sui brevissimi 8 articoli. Sorta di Manifesto laico di democratizzazione socio-sanitaria, che si prefigge di sostenere: «il singolo», «la coppia», «la famiglia» «per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti» fornendo un «servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità»; «per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile», dando  «informazioni idonee a promuovere, ovvero a prevenire la gravidanza, consigliando i metodi ed i farmaci adatti a ciascun caso».

Intanto la pillola anticoncezionale era ormai realtà. Venduta nelle farmacie dal 1967 camuffata da cura ormonale per la fertilità, finalmente legalizzata nel 1971 irrompeva come una rivoluzione nella società patriarcale italiana, scardinandone il simbolico della donna “fattrice”.

Vale appena ricordare, che nel contesto della rivoluzione sessuale del ’68, con l’affermazione della possibilità della donna di autodeterminarsi, di esercitare un potere sul proprio corpo da sempre “luogo” nel quale si sono resi visibili i reali rapporti di potere tra i due generi, Paolo VI con l’enciclica Humanae vitae (25 luglio 1968) ribadiva la dogmatica cattolica nella legittimazione del coito esclusivamente all’interno del matrimonio e a scopo procreativo. E lo faceva incardinando l’Humanae vitae sulla riaffermazione del miracolo creazionista di ogni vita ad opera del Dio Padre «da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome». Il che continuava «comporta ancora e soprattutto un più profondo rapporto all’ordine morale chiamato oggettivo, stabilito da Dio e di cui la retta coscienza è vera interprete. L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori».

Una gerarchia valoriale, che non resuscitava (forse) il capo-famiglia per il controllo del corpo della donna, che quella pillola rendeva troppo libera?
Ma quel che i clericali proprio non volevano era la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza che dopo anni e anni di lotta delle donne fu varata. Quella 194 del 22 maggio 1978 che l’obiezione di coscienza dei medici continua a mettere in crisi nella pretesa di equiparare il diritto delle donne per cui essa è nata a quello del medico obiettore.

La sacralizzazione dell’ovulo fecondato non è stata del resto alla base della famigerata Legge 40 del 19 febbraio 2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita). Caduta poi a pezzi sotto un profluvio di sentenze della Magistratura italiana ed europea?
E non c’è certo da stare tranquilli con il vento reazionario che soffia comprese le paventate infornate di pro-live in consultori e ospedali; mentre intanto vengono ripresentate sistematicamente proposte di legge per l’attribuzione della personalità giuridica all’ovulo fecondato. Cassando così definitivamente ogni possibilità di interruzione volontaria di gravidanza.

Espropriare la donna di quell’habeas corpus sintetizzato in quel “io sono mia” di tante manifestazioni femministe, che avevano animato non solo la battaglia per la 194, ma anche quella che rubricava la violenza sessuale a reato contro la pubblica morale. Come se il corpo delle donne, le parti intime delle donne, fossero un problema di decoro sociale e di ordine pubblico.

Quella violenza di stato contro le donne venne infine abrogata, con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, che finalmente stabiliva che la violenza sessuale era un crimine contro la persona.
Ma il retaggio che lo stupro in fondo lo provoca la donna non resiste ancora?
Quante volte fino a non molto tempo fa – nel ribaltamento tra vittima e carnefice – se lo sono sentite ripetere le donne che denunciavano la violenza sessuale subita?

Per non parlare del famigerato “debito coniugale” soppresso con la sentenza della Cassazione n° 14789 del 26 marzo 2004, affermando «che ogni forma di costringimento fisiopsichico, idonea in qualche modo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, se finalizzata al compimento di un atto sessuale, costituisce – anche all’interno del rapporto di coppia, coniugale o paraconiugale che sia – condotta punibile».

Una sentenza importante, che estendendo il giudizio anche alle unioni di fatto (coniugale o paraconiugale che sia) non faceva più del rapporto di coppia una zona franca per la violenza, perché specificava: «L’esistenza di un tale rapporto o di altro di contenuto similare […] non autorizzano alcun uso irrispettoso – e tantomeno “proprietario” o violento – del corpo altrui né limitazioni che valgano in alcun modo a deprimere la libertà della persona o ad umiliarne la dignità. Non esiste cioè – all’interno del rapporto di coniugio – un “diritto all’amplesso” né il potere di esigere o d’imporre una prestazione sessuale non condivisa. Non esiste nel rapporto di coppia un’area di esenzione diversa o distinta da quella governata dal reciproco consenso. Neppure l’ingiustificato e persistente rifiuto del così detto “debito coniugale”».

Il corpo è sempre stato il “luogo” nel quale si sono resi visibili i reali rapporti di potere tra i due generi. E attraverso il corpo, il controllo del corpo della donna nella sua subordinazione all’uomo.
Una questione atavica per cui anche la violenza in famiglia è così difficile da far emergere continuando ad essere un fatto nascosto, difficile da raccontare e che quindi si denuncia poco. Quasi si trattasse di questioni private tra coniugi; insomma, una violenza tutto sommato di importanza secondaria.

La legge quadro contro questo tipo di violenza è del 4 aprile del 2001 (Misure contro le violenze familiari L. 1544/2001). E la Legge n.38 del 23 aprile 2009 istituiva servizi e campagne di prevenzione capillari. E fondamentale quella chiamata “codice rosso” (legge 19 luglio 2019, n. 69) perché affianca all’immediatezza di misure giudiziarie quelle di immediata tutela e protezione della vittima per metterla al riparo dal suo carnefice.

Insomma, una lotta a tutto campo alla violenza femminicida nella consapevolezza delle sue manifestazioni multidimensionali, ma unidirezionale nella misoginia che si fa feroce rabbia contro gli spazi di autonomia e libertà conquistati dalle donne.
Il maschilismo va combattuto come malattia sociale, che, come un virus, s’insinua e resiste metabolizzandosi contro gli anticorpi della libertà e dell’uguaglianza cercando di ripristinare la decaduta e decadente figura del pater-familias.

Quella che a livello internazionale in rigurgiti di totalitarismo sembra risorgere in quel simbolico di supposta virilità maschia sintetizzata in sociologia nelle tre S: “sangue” (guerra) “sudore” (lavoro) “sperma” (discendenza).
E lo stupro non è forse usato ancora come trofeo in guerra come sfregio verso il nemico maschio di cui si viola il corpo della “sua” donna contaminandone la discendenza?

Attenzione però, perché mentre il maschilismo violento si smaschera facilmente e le sue azioni sono reato, quello più difficile da scardinare è il maschilismo paternalistico, che nella mistificazione misogino-sessista rispolvera la favola dell’«eterno femminino», in esercizi di stile sulle “connaturate” doti delle donne: dolcezza, sentimento, amabilità, grazia,… che significano poi soggezione, sopportazione, obbedienza, rassegnazione su cui tanti maschi continuano ad accomodarsi pensando di aver diritto a quel ruolo di servizio sacrificale delle donne. Costruito su presunte attitudini maschili e femminili. Sono le gabbie da replicanti dei modelli simbolici patriarcali e delle loro logiche di sopraffazione e dominio.

Abbattere tutto questo è la sfida che ancora continua e richiede impegno individuale e collettivo nel pubblico e nel privato.
E non è una questione che riguarda solo le donne!

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Foto Canva | bones64



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