Come (non) si risolve il problema dei contratti a termine

Nonostante un’ampia letteratura accademica abbia dimostrato che a maggiore flessibilità e precarietà non corrisponde un aumento dell’occupazione, questa tesi continua a essere riproposta.

Renato Fioretti

Flessibilità e precarietà sono due temi rispetto ai quali si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto. Sono stati versati “fiumi d’inchiostro” per tentare di descriverne pregi (pochi) e difetti (tanti).
Ci si è appassionati al confronto tra coloro che ne celebravano l’avvento e quanti, invece, ne paventavano gli effetti (1) e le conseguenze (negative) per i soggetti coinvolti.
Le ragioni addotte dai primi, a sostegno di una maggiore flessibilità del lavoro, appaiono, sostanzialmente, riconducibili a due motivi.

L’uno rappresentato dalla possibilità, per le imprese – soprattutto se sottoposte alla competizione internazionale – di poter disporre esattamente di tanta forza lavoro quanta necessaria alla produzione in un dato periodo.
L’altro è riconducibile al contestassimo principio – mai sufficientemente dimostrato – secondo il quale accrescere la flessibilità del lavoro favorirebbe l’aumento dell’occupazione.

A questi due motivi, che Luciano Gallino (2) definiva “esplicitamente avanzati”, lo stesso ne aggiungeva almeno altri quattro; tutti “sottaciuti”: a) un attacco generalizzato al diritto del lavoro, b) il contributo della flessibilità del lavoro alla frammentazione delle classi lavoratrici e delle loro forme associative, c) la de-responsabilizzazione delle imprese rispetto alla perdita del lavoro e, non ultimo, d) l’obiettivo, tenacemente perseguito da buona parte delle imprese, di disporre – in sostanza – di un ridotto numero “chiuso” di lavoratori stabili e, intorno a loro, una maggioranza di lavoratori temporanei, occasionali, in affitto, ecc.

Il confronto, tra le diverse posizioni, è divenuto sempre più interessante – parallelamente al suo inasprimento – quando, dopo la serie di interventi legislativi succedutisi negli anni, il termine “flessibilità” ha finito con il rappresentare sinonimo di “precarietà”.
Naturalmente, anche questa fase è stata caratterizzata da posizioni differenziate e valutazioni in netto contrasto tra gli interlocutori “di turno”.

A Pietro Ichino, irremovibile sostenitore della tesi secondo la quale l’avvio della precarietà va fatta risalire ai provvedimenti operati dal governo Prodi – attraverso la legge 24 giugno 1997, nr. 196, che, per prima, intervenne nell’operare una delega alle norme in materia di “Intermediazione di manodopera” – corrisponde, ad esempio, la posizione di altrettanto qualificati esperti e “addetti ai lavori” che considerano la legge-delega 14 febbraio 2003, nr. 30 (propedeutica all’emanazione del Decreto legislativo 10 settembre 2003, nr. 276) un novello “vaso di Pandora”; dal quale far discendere lo stato di profondo disagio e precarietà che caratterizza l’attuale mercato del lavoro italiano.

Infatti, mentre l’ex senatore Pd sostiene che la legge 30/2003 – a mio parere, sempre (strumentalmente) richiamata quale legge Biagi (3) – nulla abbia apportato e/o aggiunto, in termini di precarietà, alla condizione dei lavoratori italiani, esistono pareri diametralmente opposti – di qualificati e altrettanto prestigiosi studiosi (4) della materia – secondo i quali, ciò che sostiene il Prof. Ichino non corrisponde al vero. Al riguardo, così si espresse il prof. Luciano Gallino: “A me, sinceramente, sembra senz’alcun dubbio una legge (5) neoliberista, moltiplicare i contratti atipici significa infatti aumentare il costo umano della flessibilità” e ancora: “Ebbene sì, queste nuove norme (6) intorbidano l’intero mercato del lavoro”!
Personalmente e con minore riguardo nei confronti del giuslavorista milanese, ho sempre sostenuto che lo stesso mentisse; con l’aggravante, se possibile, di essere ben consapevole di farlo.

Lo conferma un serrato confronto – tra le nostre diverse posizioni – realizzato, nell’ottobre 2010, grazie alla disponibilità del sito web di “MicroMega”.
C’è, però, anche chi considera un errore di prospettiva fissare il “punto di avvio” della flessibilizzazione e della precarizzazione all’epoca del c.d. “Pacchetto Treu”, nel 1979; così come nel datarlo nel 2003.

Infatti, stando a ciò che riporta Olimpia Capitano (7), dalla lettura de “Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana e Le ombre del fordismo” – ultima opera di Eloisa Betti (docente a contratto di Storia del lavoro all’Università di Bologna) – si evincerebbe che, nel nostro Paese, ci sarebbe stata una “continuità precaria” che avrebbe caratterizzato anche gli anni cinquanta e sessanta, quelli del boom!

Una lettura, quella offerta dalla Betti, secondo la quale la legge 196/1997 avrebbe solo segnato “la normalizzazione politica e culturale di un processo economico e sociale già in atto, mai stato <condizione eccezionale> e che si è mosso e continua a muoversi, differentemente ma con costanza, tra momenti di crescita e di crisi economica”.
E ancora: un percorso alterno che continua a incontrare in maniera particolare le <marginalità sociali>, sempre più segnate dai confini del genere, della generazione e dell’appartenenza etnica”.

Considerazioni, quindi, che dovrebbero condurre a considerare la precarietà un elemento quasi strutturale del mercato del lavoro italiano, che affonda le sue radici in un passato molto più lontano di quanto ritenga lo stesso Ichino.
Stereotipo o figura retorica”, scrive la Betti, “quella dei <garantiti> è un’immagine che ha conosciuto grande fortuna ma non altrettanta diffusione”. Una sorta di illusione ottica, a quanto pare.

Non ritengo sia questa la sede per approfondire l’interessante tesi espressa dalla prof.ssa Betti, né, d’altra parte, voleva essere questo il tema da affrontare. Mi preme solo rilevare che, almeno rispetto a un punto, ne condivido i contenuti: quello che lei indica quale stato di “marginalità sociale” rappresenta – oggi al pari di ieri – la condizione nella quale continuano a ritrovarsi le donne, i giovani e le minoranze etniche.
Ed è proprio relativamente a quest’aspetto della questione che, appena qualche giorno fa, sono stato sollecitato da un articolo pubblicato su “Lavoce.info”.

Contratto di 36 mesi per i giovani, in attesa del Pnrr”, questo il titolo di un articolo firmato da Lucia Valente, un’ancora (relativamente) giovane docente di Diritto del lavoro dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.
L’incipit dell’articolo è dedicato a quanto rilevato dall’Istat attraverso gli indicatori del c.d. “Benessere equo e sostenibile”. Ebbene – in estrema sintesi – dall’ultimo rapporto Bes, emerge che la chiusura di scuole e università ha accentuato le difficoltà di ottenere buona istruzione e buona formazione professionale. Si rileva, in particolare tra i giovani dai 30 ai 34 anni di età, un calo del tasso di istruzione terziario (diploma) e il recupero dell’occupazione avviene solo grazie all’aumento del numero dei contratti a termine di breve o brevissima durata. Si evince, inoltre, un sostanziale sottoutilizzo della forza lavoro, causa la mancata corrispondenza tra i titoli di studio posseduti e le professioni svolte.

Ciò detto, la prof.ssa Valente enumera i capisaldi delle c.d. “Missioni”, previste dal Pnrr e rivolte ai ns. giovani connazionali. Un bel quadro. Di prospettiva e destinato, inevitabilmente, a prevedere lunghi tempi di attuazione.

Cosa fare, quindi – nell’immediato – al fine di favorire l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro?
In questo contesto, nessun “comune mortale” – credo – potrebbe pretendere un viatico miracoloso ma, quanto meno, avrebbe il diritto di essere esentato dall’ascoltare banalità.
Non trovo più efficace eufemismo per definire la soluzione proposta: “Prevedere la stipula, il rinnovo o la proroga, dei contratti a termine con giovani fino ai 30 anni di età, senza obbligo di indicare la causale e per un massimo di 36 mesi”.

Una proposta risibile che, nel denunciare la scarsa conoscenza delle dinamiche del mercato del lavoro – nel quale l’AREL (8) rileva che circa l’85 per cento dei contratti a termine stipulati in Italia, prima e dopo il c.d. <decreto dignità>, ha una durata massima di 12 mesi e la durata media va da 1 a 6 mesi – denota pigrizia intellettuale e, di conseguenza, un approccio ai problemi di tipo assolutamente dilettantistico che, alla carenza di soluzioni e proposte innovative, supplisce con la riproposizione di vecchie formule e antichi cliché.

Infatti, è sin troppo facile prevedere che l’eventuale cancellazione di ogni tipo di “causale”, per la stipula di contratti di lavoro a termine, rappresenterebbe un incentivo alla loro crescita esponenziale; anche laddove oggi ne mancano i presupposti.
Con la conseguenza di un’ulteriore riduzione dei contratti a tempo indeterminato – anche se solo a “tutele crescenti” – e un più o meno corrispondente aumento del numero dei lavoratori precari.
Un quadro, di certo, poco auspicabile.

Tra l’altro, appare evidente che alla prof.ssa Valente sfugge (anche) quanto sia falso l’assunto secondo il quale a maggiore flessibilità (e precarietà, evidentemente) corrisponda un aumento dell’occupazione.
In questo senso, c’è un’ampia letteratura accademica che ha indagato sugli effetti occupazionali prodotti dalle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro.
Sarebbe sufficiente consultare i risultati di un’ampia ricerca – condotta dall’economista Emiliano Brancaccio con Fabiana De Cristofaro e Raffaele Giannetti – pubblicati, qualche anno fa, sulla Review of Political Economy.

È lo stesso Brancaccio a rilevare (9) come dai loro dati si evinca che “il 72 per cento delle analisi empiriche pubblicate tra il 1990 e il 2019 non conferma che la flessibilità crea occupazione, una percentuale che addirittura sale all’88 per cento se osserviamo gli studi tecnicamente più avanzati dell’ultimo decennio”.

Lo stesso autore riporta che già la Banca mondiale nel 2013 riconosceva che “l’impatto della flessibilità del lavoro è inferiore all’intensità che il dibattito suggerirebbe”. Così come il Fondo monetario internazionale, nel 2016, aggiunge Brancaccio, era giunto alla conclusione che “le deregolamentazioni del lavoro non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione”.

E non solo questo. L’autore dell’ampia e documentata ricerca riporta anche che, nello stesso 2016, l’OCSE aveva riconosciuto che “la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro, suggeriscono che esse hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione nel lungo periodo”.
Appare, quindi, evidente che le stesse istituzioni, che per anni hanno predicato l’esigenza della deregulation, oggi ammettono che questa politica non crea posti di lavoro!

Inoltre”, sottolinea Brancaccio, “L’evidenza mostra che i contratti precari rendono i lavoratori più docili, e quindi provocano un calo della quota salari e più in generale un aumento delle disuguaglianze. Anche questo risultato trova conferme in alcuni studi pubblicati dalle principali istituzioni, dal National bureau of economic research al Fondo monetario internazionale”!

L’intervista al noto economista si conclude con una domanda specifica circa l’eventuale abolizione delle “causali” per i contratti a termine. La risposta è lapidaria: “L’idea che le tutele del lavoro rappresentino un ostacolo alla ripresa dell’occupazione non ha adeguate basi scientifiche. Anzi, insistendo con la precarizzazione dei contratti si corre il rischio opposto: una depressione dei salari tale da scatenare una deflazione da debiti”.
Occorrerebbe che qualcuno lo facesse presente a chi ancora insiste nel riproporre soluzioni del tipo “copia e incolla”!

NOTE

1)      Resta una pietra miliare, in questo senso, quanto prodotto dal compianto Luciano Gallino. Da “Il costo umano della flessibilità” a “Il lavoro non è una merce”.

2)      Fonte: Introduzione a “Il costo umano della flessibilità”, pag. 13; Editori Laterza (2001).

3)      Relativamente all’uso strumentale del nome del giuslavorista Marco Biagi, sono lieto di essere in numerosa e qualificata compagnia. Lo stesso Luciano Gallino così si esprimeva: “Dare alla legge il nome di uno studioso assassinato dalle Br è stato un tentativo abbastanza inverecondo di metterla al riparo da qualsiasi critica”.

4)      Da Massimo Roccella (già docente di Diritto del lavoro all’Università degli studi di Torino) a Mauro Gallegati (docente di Macroeconomia presso l’Università Politecnica delle Marche).

5)      Fonte: intervista rilasciata a Davide Orecchio (de “Rassegna.it”); in data 29 aprile 2004.

6)      Fonte: colloquio con Paolo Forcellini (sito web della Flc/Cgil); in data 28 agosto 2004.

7)      Fonte: “Una Repubblica fondata sul precariato: ecco come e quando è nato il lavoro instabile che oggi è diventato la norma”; pubblicato dal sito web de “Il Fatto quotidiano”, in data 26 luglio 2021.

8)      Trattasi dell’Agenzia di ricerche e legislazione; fondata, nel 1976, da Beniamino Andreatta.

9)      Fonte: “La precarietà del lavoro non crea occupazione. Una ricerca sfata il mito della flessibilità”; articolo-intervista a Emiliano Brancaccio, da parte di Pietro Raitano per Altraeconomia.it, dell’8 giugno 2020.

(credit foto ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)



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