Di fronte alla guerra, rivolgiamoci al femminismo

Il pensiero femminista ci fornisce gli strumenti per riconoscere la violenza, assumerla e quindi disinnescarla.

Paola Rivetti

Il no war femminista è l’unica possibilità
Il pensiero femminista ha con grande attenzione esaminato la guerra e il militarismo. Viene subito in mente il lavoro di celebri pensatrici, accademiche e attiviste come Cynthia Enloe, J. Ann Tickner, Chandra Mohanty, Nadje Al-Ali. È ad esso che dovremmo rivolgerci in questi giorni per riflettere su quali strumenti il femminismo e gli studi di genere ci forniscono per capire il presente e la guerra, e per costruire una posizione politica che ci aiuti a uscire dall’aut aut ‘con la NATO o con Putin’.

Questa è infatti solo l’ultima declinazione di una dicotomia che abbiamo visto presentarsi e ripresentarsi in molte forme. Durante la ripresa di Kabul da parte dei Talebani, nell’agosto 2021, essa era ‘con i Talebani o con gli Stati Uniti’. Cambiano gli attori, cambia il paese, ma non la sostanza: ciò che queste dicotomie operano indipendentemente dalla latitudine è l’invisibilizzazione di qualsiasi altro agente, gruppo sociale o attore a parte i governi, gli eserciti, gli uomini che sono in guerra.

Il femminismo ci aiuta ad allargare la visuale e a porre al centro del nostro ragionamento una constatazione banale: non sempre le popolazioni sono rappresentate dai governanti e non sempre i governanti rappresentano gli interessi delle popolazioni. È la retorica della guerra, del patriottismo, dell’emergenza nazionale che ci permette di dimenticarcene.

In un celebre scritto intitolato ‘Transnational Feminist Practices Against War’, pubblicato nel 2002 all’indomani dell’invasione dell’Afghanistan, le autrici Paola Bacchetta, Tina Campt, Inderpal Grewal, Caren Kaplan, Minoo Moallem, Jennifer Terry spiegano che le guerre, con il loro corollario di nazionalismo e militarizzazione della società civile, rafforzano le gerarchie di genere e le aspettative che il genere, soprattutto nella sua concezione binaria, porta con sé. Vent’anni dopo, dalle piazze dove protestano contro l’invasione dell’Ucraina, le femministe russe del Feminist Anti-War Resistance ce lo ripetono: nella militarizzazione e nella guerra non c’è liberazione ma costrizione, e la decisione dell’Europa fornire aiuto militare agli ucraini è preoccupante in questo senso. Alle donne ridotte a madri sofferenti e poco altro corrispondono uomini-soldati-eroi, che sacrificano il loro ruolo di padri e mariti per difendere la patria e, per estensione, le ‘loro’ donne e i bambini che ‘lasciano indietro’. La guerra rafforza l’aspettativa che le donne e gli uomini si comportino e che siano in un certo modo. La guerra restringe anche il campo di agibilità politica, ovvero la libertà di criticare il governo per le scelte fatte senza essere sanzionate, o silenziate, in quanto ‘nemiche della nazione’.

Tuttavia, il ‘no war’ femminista, occorre precisare, non si basa su un generale rifiuto della violenza in quanto immorale e sbagliata sempre e comunque. Si tratta del rifiuto della violenza di stato e di quella militare, concentrata nelle mani di chi ha già potere. Angela Davis ci ha spiegato che ci sono altri tipi di violenza, come l’autodifesa femminista, che agita in un contesto di critica al patriarcato ci aiuta a diventare autonome e a uscire da una mentalità carceraria e militarista. ‘El estado no me cuidas, me cuidan mis amigas’ lo hanno ripetuto le femministe nelle piazze latino-americane ed europee per dirci esattamente questo, ovvero che il femminismo è il solo movimento oggi in grado di fornire gli strumenti per riconoscere la violenza, assumerla e quindi disinnescarla nella sua funzione ancillare rispetto allo stato e alle altre istituzioni al servizio del patriarcato (gli eserciti, la famiglia, il binarismo di genere, la patria).

L’analisi dell’esistente

Nel loro intervento, Paola Bacchetta, Tina Campt, Inderpal Grewal, Caren Kaplan, Minoo Moallem e Jennifer Terry ci offrono delle indicazioni preziose su come l’esistente vada letto da una prospettiva femminista e radicalmente no war. Ci chiedono innanzitutto di osservare come gli effetti del nazionalismo si articolino sia lungo ‘la linea del genere’, sia lungo quella del colore, e di identificare quali sentimenti provati da quali persone sono presentati e narrati come legittimi e quali, invece, sono esclusi dalla sfera della legittimità.

Fare ciò non significa, solamente, osservare come la guerra incaselli più del solito gli uomini e le donne in identità e ruoli tradizionali. Questo lo abbiamo visto nelle immagini e rappresentazioni dell’invasione russa, narrata dai media come ‘una guerra ai bambini ucraini’ e attraverso la disperazione testimoniata dalle donne ucraine in Italia dove lavorano, spesso e significativamente da una prospettiva femminista, come badanti e nel settore della cura. Lo abbiamo anche visto nei video degli uomini che si separano dalle famiglie in fuga per restare a combattere in Ucraina, o attraverso la militarizzazione dell’immagine dello stesso Zelensky, ritratto sempre in tuta mimetica e circondato da ‘fratelli in armi’ mentre esorta volontari e soldati.

Oltre a questo, si tratta anche di cogliere il trattamento differenziale che viene riservato a popoli che da anni vivono in teatri di guerra o in territori occupati. I siriani hanno fin da subito espresso solidarietà agli ucraini: anche loro conoscono le armi russe anche se per loro non altrettanto è stato fatto da organizzazioni intergovernative come l’UE. Sono stati i palestinesi a sottolineare l’incoerenza di un’Europa che sanziona la Russia per aver invaso e tentato di cambiare la demografia delle aree del Donetsk e Luhansk attraverso la ‘passaportizzazione’ della popolazione, mentre criminalizza chi chiede di fare lo stesso con lo stato di Israele per le medesime violazioni del diritto internazionale in materia di occupazione militare e alterazione degli equilibri demografici dei Territori Occupati attraverso la costruzione di colonie – cosa grave almeno quanto la ‘passaportizzazione’. Si tratta di cogliere il trattamento differenziale riservato al soldato Vitaly Skakun Volodymyrovych, che in altri contesti sarebbe stato additato come un pericoloso kamikaze, anche quando, come Volodymyrovych, gli obiettivi delle azioni suicide sono militari e non civili. Si tratta di cogliere le enormi differenze tra la rappresentazione dei volontari ucraini – uomini e donne che, indipendentemente dalla loro età, si impegnano per la difesa della patria – e quella riservata a palestinesi, iracheni o siriani che fanno lo stesso ma vengono rappresentati come deviati da una propaganda violenta e pericolosa, sempre ‘islamista’ e ‘terrorista’, sempre motivati da un sentimento di odio irrazionale e, soprattutto, pre-politico. La Brigata Internazionale dei volontari in partenza per l’Ucraina viene applaudita, mentre chi è andata a combattere contro l’Isis in Siria e in Rojava viene posta sotto sorveglianza speciale, come Maria Edgarda Marcucci. La lista sarebbe lunga. Non si tratta di delegittimare la resistenza degli ucraini in un esercizio di benaltrismo, ma di interrogarsi su cosa la guerra permette per poterla rifiutare in modo più radicale e in tutte le sue forme, anche quelle meno visibili.

Riprendendo le riflessioni su razzializzazione e legittimità proposte da Bacchetta, Campt, Grewal, Kaplan, Moallem e Terry, appare chiaro come vent’anni di ‘guerra al terrore’ abbiano preparato il campo all’opera di delegittimazione di cui sopra. I musulmani non capirebbero il concetto di Stato-nazione, di modernità, di democrazia, ci è stato detto e ripetuto da giornalisti, analisti e accademici. Si tratta di pregiudizi razzisti che alcuni giornalisti ci hanno riproposto in questi giorni. Charlie D’Agata (CBS), Peter Dobbie (Al Jazeera), Lucy Watson (ITV) e Kelly Cobiella (NBC) parlano di rifugiati ‘cristiani, bianchi’, ‘diversi – col dovuto rispetto – da afghani e iracheni’, ‘europei, nostri vicini’, la cui resistenza è legittima perché ‘qualitativamente diversi’ (bianchi, cristiani, europei) da siriani, afghani, yemeniti.

La linea del colore di chi cerca aiuto, in queste drammatiche ore, si vede anche nel passaggio verso Polonia, Romania, Slovacchia che viene negato alle persone razzializzate. Mentre (per adesso) gli ucraini in fuga sono giustamente accolti, da mesi al confine tra Polonia, Bielorussia e Ucraina l’esercito polacco è impiegato per impedire che adulti e bambini siriani, egiziani, iraniani, yemeniti, somali entrino in Polonia e facciano domanda di asilo in suolo europeo, un diritto che le convenzioni internazionali, invece, garantiscono loro. È importante capire come la differenziazione tra profughi meritevoli, veri, legittimi e non, che include la retorica salvianiana ma si articola anche nel linguaggio della rispettabilità democratica e liberale delle istituzioni come la stiamo sentendo in questi giorni di sostegno all’Ucraina, si sia andata costruendo e fortificando grazie a due decenni e più di islamofobia e razzismo.

Il no war femminista è la sola possibilità teorica e pratica per scardinare l’imperativo morale di schierarsi in difesa dell’esistente senza margini di critica. Esso serve ad attivare la creatività politica necessaria a immaginarci senza bisogno di un esercito e di confini – che è in realtà la condizione che la maggioranza di noi già vive e che, grazie al femminismo, possiamo riconoscere e impegnarci a costruire.

CREDIT FOTO: ARRESTI A SAN PIETROBURGO DURANTE UNA MANIFESTAZIONE PER LA PACE – EPA/ANATOLY MALTSEV



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