Contro l’idolatria di Pasolini

Tutti i motivi per i quali lo scrittore di "Ragazzi di vita", di cui ricorre il centenario della nascita, non può essere considerato un progressista.

Alessandro Carrera

In un lungo e approfondito saggio contenuto nel numero di MicroMega in uscita il 10 marzo, Alessandro Carrera ripercorre la parabola artistica di Pier Paolo Pasolini, evidenziando tutti i motivi per cui possiamo dire che lo scrittore di Ragazzi di vita di progressista non avesse proprio nulla. Ne pubblichiamo un estratto.

«Pubblico difficile ieri sera, vero?» mi disse un mio studente entrando in classe. Era il 19 ottobre 2013 e il giorno prima, all’auditorium del Museum of Fine Arts di Houston, avevo presentato il Salò di Pasolini in un’occasione particolare. Erano passati trent’anni dalla prima proiezione cittadina, e la curatrice della programmazione cinematografica del museo aveva pensato bene di invitare, oltre a me, i protagonisti di quella che era stata una serata a suo modo memorabile per la storia dei diritti gay nella quarta città degli Stati Uniti. Il 18 ottobre 1982 la proiezione di Salò al River Oaks Theater venne interrotta da schiamazzi, urla di disapprovazione, minacce al personale del cinema e vere e proprie risse tra il pubblico. Qualcuno chiamò la polizia, che fece chiudere il cinema. Il gestore venne denunciato per oscenità e ulteriori proiezioni di Salò vennero proibite. Ne seguì un processo, seguitissimo in città e altrove, che in nome del Primo Emendamento della Costituzione si concluse però con un’assoluzione piena. Al Museum of Fine Arts, per ricordare quei fatti, dopo il film sarebbero intervenuti per un dibattito conclusivo il gestore del River Oaks Theater, un critico, un attivista per i diritti gay e l’avvocato che a suo tempo aveva difeso il cinema e il diritto di proiettare Salò.

[…] Mi preoccupava la reazione che avrebbe avuto il pubblico generico, che di quello scandalo del 18 ottobre 1982 ne sapeva quanto me e che si sarebbe trovato di fronte a un film ancora, diciamo così, problematico. Come avrebbero reagito gli houstoniani, anche quelli del 2013, al “girone della merda”? Qui non siamo mica a Parigi, pensavo, questo è il Texas.

[…] Mi furono sufficienti pochi minuti per accorgermi che i timori di una nuova rissa in platea erano del tutto infondati. Il film piaceva, piaceva molto, sentivo anche parecchie risate. […]

Alla fine del film, non appena seduto al tavolo insieme agli altri, il conduttore del dibattito mi chiese di raccontare la morte di Pasolini. La domanda mi arrivò inattesa e per nulla gradita. Era l’ultima cosa di cui volevo parlare, ma in quell’occasione non mi potevo sottrarre. Dissi che purtroppo Pasolini conduceva uno stile di vita piuttosto pericoloso che lo esponeva al rischio di contatti con la malavita che girava intorno al mondo della prostituzione maschile, e insomma riassunsi come meglio potevo quello che sappiamo tutti, ma ero preoccupato soprattutto di non offendere, tra i presenti, l’avvocato e l’attivista per i diritti gay, perché avevo già capito, primo, che per loro Pasolini era un martire; secondo, che non erano lì per meditare sulla tragedia di Pasolini, ma per celebrare una vittoria della loro giovinezza che aveva spianato la strada ad altre vittorie. E buona parte del pubblico era con loro, non con me.

Le ostilità iniziarono quando un’anziana signora in ultima fila si alzò in piedi e gridò: «Come può dire questo? Pasolini era un grande cattolico!».

Era perlomeno singolare che Pasolini venisse iscritto al registro dei grandi cattolici al termine della proiezione di Salò; a meno che le due ragazze che mangiano un piatto di prodotto intestinale dicendosi tra loro che stanno facendo un fioretto alla Madonna non rappresentino una qualche sublimità dell’abiezione. Be’, si poteva argomentare che fossero le uniche vere mistiche del film, e volendo stare al gioco ne poteva uscire una discussione a suo modo interessante, se non fosse che io mi sentivo addosso la totale disapprovazione degli altri partecipanti al dibattito. Ero venuto a guastargli la festa, e più lo capivo più mi irritavo e mi veniva voglia di rincarare la dose, di dirgli guardate che Pasolini era un uomo complicato, non era quel santo progressista che voi vi immaginate, purtroppo non potete leggere le sue scorribande da corsaro perché in inglese non sono tradotte ma dovete sapere che faceva caso a sé, che negli ultimi tempi aveva sviluppato una vera e propria eterofobia, le coppiette di ragazzi e ragazze che si scambiavano effusioni per la strada, o che soltanto camminavano mano nella mano, gli causavano una vera e propria repulsione, per lui erano solo schiavi della sessualità neocapitalista, era pure contrario al diritto all’aborto e non so se l’avreste mai visto a manifestare in favore del matrimonio gay. Ma c’erano un paio di parole che a nessun costo volevo usare – parole che lo avrebbero appunto identificato come ben altro che un gay tutto casa e famiglia – e non perché mi avrebbero attirato ulteriori ire – anzi, avrebbero zittito tutti – ma perché sarebbe stato un colpo sotto la cintura, un ricorso disperato, un ridurre una figura di enorme complessità a un caso clinico, come se una classificazione alla Krafft-Ebing fosse in grado di spiegare o peggio di liquidare l’evento-Pasolini – perché un evento lo è stato, e di importanza colossale.

Ma diciamo che un punto solo fu quello che mi vinse, vale a dire quando un ragazzo dalle prime file, chiaramente deluso dalla mia mancata santificazione di Pasolini, mi chiese a bruciapelo: «Ma cosa mi dice della corruzione dei giovani italiani negli anni Settanta, quella che Pasolini ha denunciato?».

Capite adesso che danni ha causato Pasolini, non solo nella psiche italiana, ma ahimè in quella americana, e di conseguenza mondiale. «La corruzione dei giovani italiani negli anni Settanta? Ma stiamo scherzando?». Così gli risposi, e subito dopo mi dispiacque, e mi dispiace ancora adesso, perché non era colpa sua se pensava che Pasolini avesse rappresentato realisticamente “i giovani italiani”, posto che un’entità così giornalisticamente nebulosa possa mai essere “rappresentata”. «Guardi che Pasolini non è l’Italia», gli dissi a mo’ di scusa. «Quando lei ha visto un film di Pasolini, ha visto un film di Pasolini e basta; ha esplorato una zona della sua psiche, che è un luogo molto interessante, ma non ha molto a che fare con la “realtà”, o diciamo meglio con l’allegoria di una nazione». Negli anni Settanta eravamo ancora con le pezze al culo, altro che corruzione…

[…] Pasolini è ormai più un Paese a sé che un artista italiano; è un’intera antropologia racchiusa in una sola persona. Lo possiamo ammirare o detestare (sono colpevole di entrambe le cose) ma non ce ne possiamo liberare, è sempre lì che ci aspetta, pronto a spiegarci chi siamo, a incasellarci nel suo sistema di descrizioni (“tu sei un proletario”, “tu sei un piccolo-borghese”, “tu sei un democristiano neocapitalista”, “tu sei un sottoproletario riformista”) o di descrizioni di descrizioni («Alle coppie che si amano», dice in Comizi d’amore, «auguro di sviluppare la coscienza del loro amore»). Oh, per favore, piantala con questo tono da curato di campagna e lascia vivere la gente. Non avrei una simile reazione con nessun altro, s’intende, ma nessun altro è Pasolini. Vorrei solo che chi lo ammira senza detestarlo si rendesse conto delle contraddizioni in cui si cade se lo si vuole difendere quando in nessun modo è difendibile. […].

[L’estratto qui pubblicato corrisponde al 16% del testo integrale pubblicato in MicroMega 2/2022]

Credit foto: Roma, murale dedicato a Pier Paolo Pasolini. ANSA © Matteo Nardone/Pacific Press via ZUMA Press Wire



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