Contro il Decreto “Renzi-Lupi”, ovvero perché la casa non è un parcheggio

A Las Vegas, a fronte di stanze di hotel vuoti, durante la pandemia gli homeless sono stati rinchiusi nei parcheggi. In Italia, chi occupa è messo fuori da ogni diritto, dalla sanità all’istruzione, di fatto violando la Costituzione. Un’analisi “giuridica” sul diritto all’abitare e perché i poveri sono visti come un pericolo per le “democrazie” di oggi.

Antonello Ciervo

La Contea di Clark, in Nevada, quella per intenderci che comprende la città di Las Vegas, ha una popolazione di circa 2.2 milioni di abitanti: di questi circa 60 mila (il 3 % dei residenti) è senzatetto. Nel mese di marzo del 2020, in coincidenza con il primo picco della pandemia di Covid, la maggior parte di loro – quelli cioè più “collaborativi” con le forze dell’ordine – è stata trasferita in una grande area adibita a parcheggio, alle spalle di un noto centro commerciale, dove hanno trascorso la quarantena nelle loro tende, mentre la polizia garantiva il distanziamento sociale disegnando delle linee bianche sull’asfalto, creando così degli spazi di circa dieci metri quadrati, delimitati poi da transenne di ferro.

Ovviamente gli agenti non hanno fornito coperte o altri beni di prima necessità alle persone “parcheggiate”, né hanno lasciato numeri di emergenza da chiamare nel caso qualcuno di loro si fosse ammalato. Del resto sarebbe stato completamente inutile: essendo senzatetto, si presumeva fossero anche senza soldi e, quindi, senza copertura sanitaria. Mentre la maggior parte degli homeless della Contea venivano stipati in questa sorta di lazzaretto postmoderno a cielo aperto, sempre a causa del picco pandemico, tutti gli alberghi di Las Vegas venivano chiusi: in totale i posti liberi – meglio, vuoti – nelle camere da letto erano circa 150 mila, più del doppio delle persone senzatetto della Contea di Clark. Ma l’amministrazione comunale, a fronte anche del rifiuto degli imprenditori alberghieri di accoglierli in cambio di un ristoro economico, ha ben pensato che parcheggiarli alle spalle di un centro commerciale fosse la scelta più saggia, o quanto meno quella più conveniente per tutti, anche dal punto di vista del decoro urbano.

Dall’inizio della pandemia di Covid, nella Contea di Clark si sono registrati 238 mila casi di Coronavirus, mentre i morti sono stati oltre 4 mila; nei momenti di picco del contagio – in coincidenza con i mesi di marzo 2020 e gennaio 2021 – le imprese di pompe funebri locali hanno avuto difficoltà a far fronte alle richieste di bare da parte degli abitanti della zona, perché il legno per costruirle scarseggiava. Il Nevada, infatti, è in buona parte desertico e Las Vegas può essere considerata una piccola oasi urbana in una immensa distesa di sabbia. Migliaia di persone senza casa che rischiavano di essere contagiate dal Covid, da un lato, e centinaia di alberghi vuoti senza persone, dall’altro: questa l’istantanea di ciò che è accaduto in Nevada nel corso dell’ultimo anno. E non si è trattato di un errore, dell’incapacità di far fronte ad un’emergenza senza precedenti, ma di una decisione politica meditata e consapevole che forse poteva apparire disumana agli occhi dell’opinione pubblica globale – le foto dei senzatetto sdraiati nel parcheggio, a distanza di sicurezza tra le strisce bianche e le transenne di ferro, ha fatto il giro del mondo – ma che in realtà è stata conveniente per tutti, pubblici amministratori, privati imprenditori e singoli cittadini.

Quelle immagini così perturbanti qui in Italia sono state da subito derubricate a caso da “indignazione social”, archiviate in meno di 24 ore nel dimenticatoio della rete: nonostante il loro enorme impatto mediatico, infatti, le foto provenienti da Las Vegas non hanno avuto la potenza simbolica di placare le polemiche sulla legittimità delle misure di lockdown e sull’impiego degli ormai famigerati Dpcm da parte del Governo, mentre opinionisti e pseudo-intellettuali gridavano alla “dittatura sanitaria” che si sarebbe instaurata nel nostro Paese con la scusa dell’epidemia. Eppure, nessuno, a me pare, si è davvero posto la domanda che, in qualche modo, proveniva da quelle immagini e che ci ha interrogato senza risposta: come si fa a stare in quarantena a casa, se uno la casa non ce l’ha?

Secondo gli ultimi dati ufficiali dell’Istat risalenti al 2015, in Italia vivono circa cinquantamila persone senza tetto, la maggior parte delle quali nelle grandi città (in particolare Milano, Roma e Palermo): meno che in Nevada certo, ma la statistica non risulta aggiornata da un lustro e sembra di poter capire che il numero sia comunque aumentato in questi anni. Certo, è lo 0,1 % della popolazione totale, sicuramente gli homeless qui da noi sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli che vivono nella sola Contea di Clark – e questo dovrebbe far riflettere quanti continuano a considerare gli Stati Uniti come un modello di democrazia – ma questo non dovrebbe assolverci dalle nostre responsabilità, perché nelle emergenze sanitarie i poveri, le persone più fragili, possono davvero trasformarsi in un un vettore incontrollato di contagio per la salute pubblica.

Se la presenza di persone senza casa è maggiore nei centri urbani, allora non deve meravigliare che proprio nelle grandi città siano nati, anche a causa degli effetti della crisi economica del 2007/2008 – scaturita tra l’altro da una bolla immobiliare scoppiata negli Stati Uniti – movimenti organizzati in difesa del diritto all’abitare, le cui rivendicazioni nascono da una constatazione empirica, ossia che ormai nelle metropoli troppe sono le persone senza casa e troppe sono le case senza persone. Del resto qui da noi, con l’affossamento della legge sull’equo canone alla fine degli anni Ottanta, costruire case per poi non affittarle o venderle è stato per gli imprenditori un modo per far schizzare i prezzi degli immobili alle stelle e per drogare un mercato già poco accessibile alle fasce sociali con reddito basso e precario. Ma quando gli effetti della crisi finanziaria sono crollati sul terreno dell’economia reale, anche la speculazione immobiliare è crollata e si sono moltiplicati i fenomeni di occupazione organizzata di grandi palazzi, la maggior parte soprattutto di proprietà pubblica che risultavano da molti decenni inutilizzati, se non addirittura abbandonati a loro stessi.

Ed è così che, una volta calmatesi almeno in apparenza le acque della crisi, la politica è subito corsa ai ripari, non certo per porre un argine alle speculazioni – che sono ricominciate quasi subito –, non certo per porre un limite all’erosione del suolo e alla costruzione di nuovi appartamenti, non certo per sbloccare le graduatorie delle case popolari, ma per tutelare ancora una volta la rendita immobiliare, questa volta da quei movimenti che rivendicavano il diritto di occupare gli immobili vuoti, richiamando le istituzioni pubbliche all’adempimento dei loro inderogabili doveri sociali e a quello che dovrebbe essere il primo compito di una classe dirigente seria e onesta: contrastare le disuguaglianze economiche e sociali, così come prevede la nostra Costituzione. E allora il Governo Renzi nel 2014, con un provvedimento fortemente voluto dall’allora Ministro per le infrastrutture ed i trasporti, Maurizio Lupi, emanava il Decreto legge n. 47, poi convertito nella legge n. 80, che all’art. 5, primo comma, stabilisce che “Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge”.

In sede di conversione, inoltre, il Parlamento introduceva norme ancora più severe, stabilendo che anche le richieste di allaccio della corrente elettrica, del gas, dell’acqua e del telefono dovevano essere considerate nulle, qualora non avessero riportato i dati identificativi del richiedente e il titolo che ne attestasse la proprietà, il regolare possesso o comunque la regolare detenzione dell’immobile. Inoltre, sempre in sede di conversione, il Parlamento stabiliva che coloro che avessero occupato abusivamente alloggi di edilizia residenziale pubblica non avrebbero potuto partecipare alle procedure di assegnazione delle case popolari per i cinque anni successivi alla data di accertamento dell’occupazione abusiva.

Il Decreto “Renzi-Lupi” – lo chiameremo d’ora in poi così, per comodità – ha creato non pochi problemi ai sindaci, soprattutto quelli delle grandi città, nell’applicare la normativa in materia di anagrafe. Se, infatti, da un lato, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha sempre riconosciuto il diritto alla residenza come un diritto soggettivo desumibile dall’art. 16 della Costituzione (si veda, per tutte, la sentenza n. 449/2000), dall’altro, si ritiene che, a differenza del domicilio, la residenza sia semplicemente il luogo di abituale dimora di una persona. Appare evidente, allora, come il “Decreto Renzi-Lupi” si ponga in contrasto con la normativa in materia di anagrafe e con una giurisprudenza ormai consolidata, poiché la ratio legis di questo istituto consiste non nella necessità di certificare la titolarità di un diritto su di un immobile, o addirittura uno status giuridico del cittadino, ma risponde all’esigenza da parte dello Stato e degli enti locali competenti di individuare il luogo in cui un determinato soggetto vive abitualmente.

Non è un caso, quindi, se i Comuni hanno da sempre riconosciuto la residenza anche a persone che vivevano in alloggi di fortuna – roulotte, tende, camper – oppure abusivamente in un immobile, proprio perché l’amministrazione comunale è tenuta a prendere atto soltanto della dimora abituale in cui quotidianamente vive il singolo, non certo a concedere o a riconoscergli uno status giuridico, non avendone tra l’altro il potere. A ciò si aggiunga poi che la stessa normativa anagrafica non contempla limitazioni relative alla condizione abitativa nei confronti di chi dichiara la propria residenza in un determinato luogo, ma prevede soltanto l’obbligo per lo stesso – cittadino o straniero che sia -, di chiedere per sé e per le persone sulle quali esercita la potestà o la tutela l’iscrizione all’anagrafe, imponendo agli uffici competenti la sola verifica della sua presenza sul territorio comunale. Ma si può andare anche oltre e sostenere che l’art. 5 del “Decreto Renzi-Lupi” sia incostituzionale perché, non consentendo l’iscrizione anagrafica a chi occupa un immobile senza un titolo valido o “legale”, determina poi l’esclusione di quella persona dall’accesso ai servizi pubblici essenziali, innanzitutto quelli sanitari, oltre che la possibilità di chiedere un sostegno ai servizi sociali del Comune: del resto, trattandosi di persone che hanno loro malgrado deciso di occupare un immobile, perché vivono in una situazione di necessità o di indigenza economica, l’effetto paradossale di questa norma è di emarginare ulteriormente coloro che avrebbero bisogno più degli altri di un aiuto pubblico per essere reintegrati socialmente.

L’esclusione dall’accesso dei servizi sanitari, in un periodo come quello che stiamo vivendo, rischia di diventare anche un problema di sicurezza, visto che se queste persone si ammalano, avrebbero una difficoltà maggiore ad accedere alle cure mediche di base, diventando così dei potenziali untori, con tutto quello che ne consegue in termini di stigma sociale, se non addirittura di criminalizzazione (volendo dare una lettura rigorosa, ma non del tutto implausibile, delle norme anti-Covid presenti nei famigerati Dpcm).

Del resto, chi non è iscritto all’anagrafe non può neppure ottenere il rilascio della tessera elettorale e quindi di fatto, se cittadino italiano, si vede negato anche l’esercizio dei propri diritti politici e tutto questo soltanto perché avrebbe occupato abusivamente un immobile non di sua proprietà: si tratta, tra l’altro, di un reato molto meno grave di quelli commessi dai colletti bianchi che abusano del loro ruolo pubblico per fare i propri interessi privati (e per questi ultimi potrebbe scattare, al massimo, l’interdizione dai pubblici uffici per un breve periodo di tempo, non certo la perdita dell’elettorato attivo sine die). Siccome sono apparsi sin da subito evidenti gli effetti distorsivi e paradossali che il “Decreto Renzi-Lupi” stava producendo, nel corso del 2017, il Governo ha introdotto al comma 1-quater dell’art. 5 un’eccezione alla regola del divieto di iscrizione anagrafica, stabilendo che “Il sindaco, in presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela, può dare disposizioni in deroga a quanto previsto a[l] comm[a] 1 […], a tutela delle condizioni igienico-sanitarie”.

Ma un’ulteriore crepa al divieto di iscrizione anagrafica si è prodotta più di recente, con la sentenza n. 186/2020 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del c.d. “Decreto Salvini” che qualificava il permesso di soggiorno dei richiedenti asilo come valido documento di identificazione, ma non idoneo ai fini dell’iscrizione anagrafica. Nel dichiarare l’incostituzionalità di questa norma, la Corte ha specificato come la mancata iscrizione anagrafica vada a ledere la pari dignità sociale degli stranieri i quali si sarebbero ritrovati, oltre che privi della residenza, anche esclusi dall’accesso ai servizi pubblici essenziali, non fosse altro che per gli ostacoli di ordine pratico e burocratico connessi alle modalità di richiesta dell’erogazione di questi servizi da parte degli enti locali – che fanno quasi sempre riferimento alla residenza e alla sua certificazione a mezzo dell’anagrafe comunale.

La norma dichiarata incostituzionale dalla Corte e l’art. 5 del “Decreto Renzi-Lupi” hanno la medesima ratio legis e la sentenza n. 186/2020 sembra un utile precedente che potrà essere ripreso dal Giudice delle leggi in futuro per precisare meglio il contenuto costituzionale del diritto alla residenza. Ma in attesa che una questione di legittimità costituzionale del “Decreto Renzi-Lupi” arrivi alla Consulta, cosa potrebbero fare oggi – a normativa vigente e a pandemia dilagante – gli uffici anagrafici e i Sindaci per ripristinare la superiore legalità costituzionale, evitando così che si acuiscano ulteriormente le disuguaglianze sociali? Innanzitutto, se si legge con attenzione l’art. 5, non sembrano in realtà sussistere preclusioni al riconoscimento della residenza presso un immobile occupato: infatti, l’accertamento della occupazione abusiva non è una situazione di fatto, ma di diritto che si verifica soltanto in presenza di una sentenza passata in giudicato che accerti che un determinato immobile è stato occupato sine titulo dal soggetto che richiede al Comune di fissarvi anche la propria residenza.

Prima del passaggio in giudicato della sentenza vale il principio generale di presunzione di non colpevolezza e, dunque, quand’anche la persona fosse notoriamente conosciuta per aver occupato l’immobile per ragioni di necessità, questa inderogabile garanzia costituzionale deve prevalere in termini assoluti e, di conseguenza, l’iscrizione anagrafica dovrebbe essere comunque consentita. Inoltre, sarebbe quanto mai opportuno che i Comuni distinguessero tra immobili occupati di proprietà privata e di proprietà pubblica: in questo secondo caso, infatti, la funzione sociale svolta dalla proprietà pubblica tende a prevalere sulla mera dimensione privatistica del bene, l’occupazione dello stesso sine titulo non risultando lesiva di un diritto soggettivo in senso stretto (in ragione anche del divieto di usucapibilità o di circolazione dei beni pubblici).

In ogni caso, dovrebbe comunque essere valutata caso per caso ogni richiesta di iscrizione anagrafica in immobili occupati, dando atto per iscritto delle ragioni per cui non sarebbe possibile applicare la deroga di cui all’art. 5, comma 1-quater del “Decreto Renzi-Lupi”. In pratica, il Sindaco ovvero il Dirigente dell’ufficio anagrafico, prima di opporre un diniego o di trovare soluzioni alternative (come quella della c.d. “residenza fittizia”, che molte amministrazioni hanno introdotto per provare ad arginare gli effetti paradossali della legge), dovrebbe verificare che il richiedente eserciti una potestà genitoriale, ovvero una tutela nei confronti di soggetti minori o malati che vivono con lui nell’immobile occupato. Inoltre, nel caso in cui si fosse in presenza di persone già prese in carico dai servizi sociali o che comunque presentano problemi di salute documentabili, il Comune non potrebbe negare la residenza: al riguardo sarebbe opportuno stilare un elenco – non tassativo – di quelle categorie di soggetti vulnerabili che potrebbero godere della deroga in questione, così come del resto stabilito dallo stesso Decreto.

In questo particolare momento storico – e comunque finché durerà lo stato di emergenza sanitaria -, sembra un atto dovuto, anche in ragione delle competenze specifiche del Sindaco in materia di tutela della salute pubblica, riconoscere la residenza presso gli immobili occupati a quanti sono senza fissa dimora. Sarebbe questo forse un primo timido segnale per provare ad invertire la rotta delle politiche sociali degli ultimi decenni, prediligendo concretamente le ragioni della solidarietà e del contrasto alle disuguaglianze, rispetto alle logiche egoistiche e proprietarie che hanno provocato i disastri economici e sociali della storia recente, disastri che per molti anni la nostra classe dirigente ha cercato ipocritamente di nascondere, ma che la pandemia ha nuovamente messo al centro del dibattito pubblico.

Quando ritorneranno tempi normali, dovremmo forse finalmente riconoscere che troppi poveri, troppi perdenti nel gioco del libero mercato, sono un pericolo per la democrazia, perché una società non è democratica se le disuguaglianze proliferano in maniera incontrollata e se addirittura si acuiscono in concomitanza di una crisi, economica o sanitaria che sia poco importa. Del resto, come osservava Plutarco circa venti secoli fa, lo squilibro tra ricchi e poveri è la malattia più antica e più fatale di tutte le Repubbliche: una malattia, a quanto pare, da cui ancora non siamo riusciti ad immunizzarci.

 

(Credit Foto: © David Becker/ZUMA Wire)



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