Eravamo tutti afghani

A poco meno di un anno di distanza dal ritorno dei talebani a Kabul, i corridoi umanitari italiani sono ancora fermi a causa della burocrazia.

Valerio Nicolosi

Sembra lontano l’agosto 2021 quando una grande mobilitazione popolare a sostegno dell’Afghanistan, e in particolare delle donne, attraversava tutto il Paese. Gli occhi erano puntati sull’aeroporto di Kabul, guardavamo con apprensione all’evacuazione del personale italiano e di quello afghano che aveva lavorato per il nostro contingente, raccontavamo del sostegno alle associazioni che avevano aiutato le donne nel corso degli anni.

Già in quel momento, però, si vedevano le prime crepe di questa solidarietà, più precisamente lungo i confini esterni dell’Europa dove erano ammassate migliaia di persone provenienti proprio dal paese governato dei talebani che, in modo ipocrita, l’Europa non lasciava entrare, respingendole in Bosnia ed Erzegovina.

Lo scorso novembre il governo italiano ha firmato un protocollo d’intesa con organizzazioni religiose e società civile per attivare dei corridoi umanitari dall’Iran e dal Pakistan dove si sono rifugiati, rispettivamente, circa 800mila e 1,5 milioni di afgani. Numeri altissimi che hanno investito soprattutto le regioni di confine con l’Afghanistan, dove trovano rifugio le persone che scappano dall’emirato degli studenti coranici che ogni giorno si fa sempre più oscurantista, soprattutto nei confronti delle donne.

“Abbiamo già la lista di chi dovrebbe partire con i corridoi umanitari ma per lungaggini burocratiche dell’Italia e dei paesi di partenza non si riesce a sbloccare la situazione” racconta a MicroMega Marta Bernardini, coordinatrice di Mediterranean Hope, programma per migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. “Stiamo aspettando che si sblocchino, vorremmo farli arrivare il prima possibile anche se in teoria abbiamo ancora tempo perché il protocollo è per un anno e sicuramente verrà prorogato, soprattutto se dovessero continuare questi problemi” aggiunge la responsabile di Mediterranean Hope.

Dopo le esperienze dal Libano e dal Corno d’Africa, dove erano state le organizzazioni religiose a organizzare e sostenere i corridoi umanitari, nel caso dell’Afghanistan e della Libia c’è un impegno anche del governo oltre che della società civile. In questo caso sono 1.200 le persone che dovrebbero essere portate in Italia ma che, secondo l’ARCI, tra i firmatari del protocollo, al momento sono bloccate per l’assenza nei consolati italiani di uno strumento per prendere le impronte digitali dal costo di qualche migliaio di euro.

Oltre a una vita sospesa e all’assenza di una prospettiva, il rischio che corrono le persone in attesa dei corridoi umanitari è quello di essere rimpatriati in Afghanistan per la scadenza dei visti, spesso turistici, che gli hanno consentito di passare la frontiera. “Stiamo verificando che non scadano per chi è in lista o di rinnovare quelli in scadenza, c’è molta attenzione su questo” chiosa Bernardini.

Il protocollo nei mesi scorsi è stato esteso anche a Turchia e Bosnia, due paesi importanti per la rotta balcanica, da dove transitano ogni anno decine di migliaia di persone, moltissime delle quali in fuga proprio dall’Afghanistan. Questo addendum al protocollo può sbloccare una situazione cronica creata dall’Europa con l’accordo del marzo 2016 con la Turchia, che ha percepito già 9 miliardi di euro da Bruxelles per bloccare i migranti, e dalla gestione esterna della frontiera europea da parte della polizia croata che in questi anni si è resa protagonista di costanti violazioni dei diritti umani e di respingimenti illegali proprio in Bosnia, dove stazionano migliaia di migranti in attesa di provare a intraprendere il percorso a piedi fino a Trieste cercando di non essere fermati dalle autorità di Zagabria.

In questo momento in cui l’attenzione è sull’esodo ucraino dovuto alla guerra, è importante non dimenticarci delle altre crisi, delle quali siamo spesso anche responsabili, e lasciare aperti canali umanitari per dare la possibilità di una vita al sicuro in Europa, senza dover vivere in strada per anni in attesa di passare una frontiera alla volta senza essere respinti.

Foto Sam Tarling / Oxfam /Ansa



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