Corruzione, collusione e mancanza di democrazia minano le istituzioni europee

Il caso di evidente corruzione della vicepresidente del Parlamento Europeo, Eva Kaili e dell’europarlamentare Antonio Panzeri, da sempre militante della sinistra storica, addirittura ex segretario CGIL della Camera del Lavoro più importante d’Italia, quella di Milano, deve essere analizzato considerando le vere radici della questione: infatti il caso Kaili-Panzeri-Qatar non è isolato.

Enrico Grazzini

Il problema principale della corruzione nell’europarlamento e nelle istituzioni europee non riguarda tanto le singole persone che commettono reati o la carenza di leggi europee contro le mazzette e le bustarelle o la mancata regolamentazione delle numerosissime e potenti e ricche lobby di Bruxelles (tra cui quella del Qatar): il problema è invece istituzionale e politico e deriva dalla mancanza pressoché assoluta di trasparenza e democrazia degli organi istituzionali europei. Il caso di evidente corruzione della vicepresidente del Parlamento Europeo, Eva Kaili e dell’europarlamentare Antonio Panzeri, da sempre militante della sinistra storica, addirittura ex segretario CGIL della Camera del Lavoro più importante d’Italia, quella di Milano, deve essere analizzato considerando le vere radici della questione: infatti il caso Kaili-Panzeri-Qatar non è isolato.

Lo “scandalo del Qatar” va inserito in un contesto di “corruzione ambientale” favorito dalla concentrazione estrema dei poteri europei in pochi organi burocratici, ristretti e centralizzati, che operano in maniera opaca e in stretta simbiosi con il big business e in assenza di qualsiasi forma di controllo e di partecipazione democratica dal basso. Il legame tra corruzione, business e politica in Europa è stretto e ha fondamenti strutturali. A parte i casi di manifesta corruzione dei singoli, il problema centrale è che tra il big business, gli oligopoli multinazionali, le grandi banche d’affari da una parte e le istituzioni della UE e la Banca Centrale Europea dall’altra esistono legami talmente simbiotici da rendere difficilissima, se non impossibile, la distinzione tra bene pubblico e interesse privato. In questo tipo di sistema collusivo la corruzione è endemica. Nel 1999 a causa dello scandalo Edith Cresson tutta la Commissione Europea presieduta da Jacques Santer fu costretta alle dimissioni. I conflitti tra interesse privato e pubblico sono sotto gli occhi di tutti. Secondo Milena Gabanelli ogni anno a Bruxelles viene spesa la somma enorme di 1,5 miliardi per attività di lobby. Il database delle lobby di Bruxelles conta oltre 12400 iscritti. Circa la metà sono lobbisti che lavorano per aziende e gruppi o che rappresentano associazioni di categoria o professionali, compresi i sindacati. Altri 3.400 di loro rappresentano organizzazioni non governative. Le altre categorie principali includono consulenti, istituti di ricerca, organizzazioni che rappresentano chiese e comunità religiose e quelle che rappresentano autorità locali, regionali o comunali. La Commissione UE rubrica sorprendentemente l’attività di lobbying sotto la voce “democrazia rappresentativa” (sic!). Il fenomeno delle porte girevoli tra le società private e le istituzioni europee è dilagante: le porte sono così aperte da essere spalancate. In molti casi i capi delle lobby vengono messi a fare parte degli organi tecnici della UE e viceversa, i partecipanti agli organi della UE vanno poi a presiedere lobby e società che hanno supervisionato. Naturalmente tutti i meccanismi sono oliati da una enorme quantità di denaro. Il Qatar, al centro del presente scandalo, non è solo e tanto uno stato monarchico ma una potenza finanziaria e energetica di prima grandezza.

I casi di potenziale e concreto conflitto di interesse sono così numerosi e normali che è difficile enumerarli tutti. Occorre riferirsi a siti web come www.corporateeurope.org. Il portoghese José Barroso, per esempio, dal 2004 al 2014 presidente della Commissione europea, è poi diventato presidente non esecutivo della banca d’affari Goldman Sachs. E l’olandese Neelie Kroes. ex commissario per la concorrenza (sic!) dal 2004 al 2014, è stata scoperta come direttore di una società registrata alle Bahamas e non dichiarata mentre era in carica. Inoltre, come scrive Euronews, nel 2015 Neelie Kroes avrebbe cercato di fare pressione sul governo olandese per far “ritirare” la polizia da un’indagine sull’ufficio di Amsterdam di Uber. All’epoca Kroes aveva lasciato la Commissione Europea solo da pochi mesi ed era ancora nel suo “periodo proibito” di 18 mesi per passare ad altre aziende. La Commissione respinse la sua richiesta di autorizzazione ad assumere una posizione ben retribuita nel comitato consultivo di Uber.

Le lobby europee e extraeuropee condizionano giorno dopo giorno tutte le leggi e la politica europea, e quindi pesantemente anche le politiche degli Stati: infatti l’80% delle leggi nazionali sono di diretta emanazione della UE. Il problema della corruzione non dipende però dalle leggi attualmente vigenti: le leggi che impediscono la corruzione ci sono già, magari possono essere perfezionate ma ci sono già. Il problema di fondo è dunque il contesto, il rapporto malato e collusivo tra business e politica.

 

Partiamo da un postulato che credo sia condivisibile per tutti i democratici: le condizioni di base per contrastare la corruzione sono la trasparenza e la democrazia. Solo la partecipazione democratica e meccanismi di controllo dal basso garantiscono che la malapianta della corruzione non attecchisca, non contamini le istituzioni e che gli inevitabili casi di corruzione siano isolati e corretti. La corruzione è inevitabile dove c’è il potere e dove ci sono i soldi: ma è facile combatterla e vincerla se c’è democrazia partecipativa e quindi trasparenza. Lobby significa “corridoio” in inglese: ma non si comprende perché dovrebbero esistere dei corridoi particolari per accedere alle istituzioni e agli uomini politici.

Andando al nocciolo della questione, il problema strutturale che favorisce la corruzione e la collusione tra politica e affari a Bruxelles è che le istituzioni europee non sono democratiche, e che, in quanto istituzioni intergovernative, non possono neppure esserlo. Il problema vero da riconoscere e analizzare è più politico e culturale che giuridico: non concerne neppure il cosiddetto “deficit di democrazia” che, come si diceva in passato, affliggerebbe la UE: il problema è piuttosto la mancanza genetica di democrazia delle istituzioni intergovernative europee che dettano le politiche agli Stati.

La democrazia è il vaccino più efficace contro la corruzione. Ma occorre ricordare che le istituzioni europee sono nate da trattati intergovernativi, e che, in quanto tali, non possono certamente e scientificamente essere definite democratiche né sul piano sostanziale né sul piano formale. Del resto nessun costituzionalista in Europa ha mai preteso o potuto sostenere che l’Unione Europea sia democratica. Né il Consiglio Europeo, che riunisce i 27 capi di governo, che è il vero organo decisionale della UE, né la Commissione Europea sono eletti dai popoli europei. Il Consiglio Europeo riunisce i 27 capi di stato e di governo eletti nei singoli paesi e rispondono ai loro elettori nazionali ma certamente non ai cittadini europei. La Commissione UE è composta da 27 delegati – uno per ogni Stato membro dell’Unione europea, detto Commissario – nominati dai 27 governi, anche se dovrebbero essere “indipendenti” dagli stessi (???). La Banca Centrale Europea è controllata dalle 19 banche centrali, alcune private, altre pubbliche, dei rispettivi Paesi partecipanti, e si fa vanto di essere del tutto indipendente dalla politica e dai governi (che però in pratica nominano l’organo direttivo della banca): quindi per definizione la BCE non è democratica e non vuole esserlo e, peggio ancora, non può essere soggetta ad alcun controllo.

Il Parlamento Europeo è l’unico organo che ha una parvenza di rappresentatività. La maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea elegge i propri deputati con un unico collegio elettorale che copre un intero Stato usando il sistema proporzionale di lista. Esiste tuttavia una grande varietà di procedure elettorali: il metodo di calcolo della quota e della soglia di sbarramento varia da paese a paese. La partecipazione alle elezioni europee è molto limitata. Nel 2019 in Slovacchia hanno votato solo il 27% degli aventi diritto. Nella Repubblica Ceca, Slovenia e in Bulgaria solo il 30% circa. In Lussemburgo e Belgio più dell’80%, in Germania il 61%, in Francia il 50% in Italia il 54%, in Spagna il 64%. La media europea è 50%. I paesi più piccoli sono sovra-rappresentati, quelli più grandi sotto-rappresentati. Il paradiso fiscale del Lussemburgo ha 6 deputati con 120 mila abitanti: uno ogni 20 mila abitanti. La Germania ha 97 deputati, uno ogni 875 mila abitanti. Il Parlamento non può quindi definirsi veramente rappresentativo della volontà popolare. Soprattutto, il Parlamento Europeo non ha diritto di promuovere leggi: ha limitati poteri co-deliberativi insieme alla Commissione europea, e poteri consultivi. In pratica ratifica le decisioni prese dal Consiglio Europeo e promosse dalla Commissione: è poco più di un forum di discussione tra i principali partiti europei, un forum dove ogni nazione cerca soprattutto di fare valere i suoi diritti e i suoi interessi. Tutte le leggi e le iniziative più importanti partono in realtà dai governi tedesco e francese e devono trovare la loro approvazione. Per esempio il governo tedesco si oppone al price cap sull’energia e la Commissione UE si oppone di conseguenza al price cap. In conclusione, si può affermare tranquillamente che l’Unione Europea sia un organismo intergovernativo dove di fatto i governi di Germania e Francia hanno la maggiore voce in capitolo e un sostanziale potere di veto. Questo comporta ovviamente che la democrazia negli altri paesi viene svuotata.

Lo scandalo dell’Unione Europea è ignorato dai mass media, dalla stragrande maggioranza dei politici e degli economisti ma è sotto gli occhi di tutti. Da oltre venti anni i Paesi Europei sono in gran parte governati da istituzioni non soggette a controllo democratico e non elette. L’Europa è spesso celebrata come il baluardo della democrazia e dei diritti umani nel mondo: in effetti, dal momento che “tutto è relativo”, essa appare formalmente molto avanzata sul piano delle libertà, dei diritti sociali e dei diritti umani, anche in confronto all’America di Trump e all’ideologia che sottende il movimento MAGA, Make American Great Again, per non parlare naturalmente di Russia, Cina e India e degli altri paesi in via di sviluppo. Resta comunque il fatto sostanziale che le istituzioni della UE, essendo intergovernative, non sono e non possono essere democratiche.

 

Come sanno tutti gli studiosi e analisti di relazioni internazionali, la mancanza di democrazia non riguarda solo e tanto la UE ma tutte le istituzioni create da accordi tra governi, come per esempio l’ONU, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, o la NATO. Non a caso nessuna istituzione intergovernativa pretende di essere democratica. È già tanto se sono efficaci. Susan Strange, la brillante studiosa che ha fondato l’economia politica internazionale, ci ha spiegato che in tutte le organizzazioni internazionali prevalgono inevitabilmente gli stati più forti: per esempio all’ONU prevalgono i cinque stati vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Nella NATO gli americani sono di gran lunga “più uguali” di tutti gli altri partner. Nella UE prevale la diarchia tedesco-francese. Più le istituzioni intergovernative sono centralizzate e ampie meno sono “democratiche”: più la UE si allarga a est meno “democratica” è. La pretesa del Partito Democratico italiano che l’Europa e la UE siano palestre di democrazia è dunque assurda, mistificante e scientificamente errata.

La democrazia in Europa è (finora) forte perché sono (relativamente) forti le grandi democrazie nazionali, in particolare in Germania, Francia, Italia e Spagna, e non perché l’Unione Europea sia democratica. Anzi: le istituzioni della UE si avvicinano molto al concetto marxiano di “comitato d’affari della borghesia”; in questo caso la borghesia è l’alta finanza e le grandi corporation di origine europea e americana. Per esempio, nel campo strategico della finanza non è un caso che la UE non abbia realizzato una sola vera riforma del sistema finanziario e bancario dopo la grande crisi del 2008: la crisi è costata centinaia di miliardi di salvataggi bancari ai contribuenti europei ma il sistema è rimasto sostanzialmente inalterato. Austerità per le masse, miliardi per le banche.

L’assetto istituzionale non democratico potrebbe essere provvisoriamente giustificato se si procedesse verso gli Stati Uniti d’Europa, ovvero verso una Unione Federale democratica, così come era previsto all’inizio del progetto di Unione Europea dai Padri Fondatori e come era previsto con la formazione dell’eurozona e della moneta unica europea. Ma ormai il progetto di unione federale è completamente abbandonato, nessuno ne discute più e nessuno osa più farne cenno. Nessun politico in Europa, neppure il presidente francese Emmanuel Macron che è il più europeista di tutti, osa più parlare di riforme dell’assetto istituzionale europeo in senso democratico. Mettere insieme 27 (o anche solo 5 o 10) paesi europei è una impresa inattuabile e creare istituzioni democratiche per 27 paesi con lingue, storie, memorie e interessi diversi è una missione impossibile. Al massimo qualche politico accenna a una “maggiore integrazione europea”. Ma l’unione federale è ormai abbandonata da tutti, perfino dai politici italiani che sono i più illusi e che cercano più degli altri di convincere il popolo della sacralità dell’unione europea.

Del resto quello degli Stati Uniti d’Europa era un progetto velleitario fin dall’inizio: è chiaro a tutti che Germania e Francia, per non parlare dell’Olanda, dell’Ungheria, della Polonia, della Svezia, eccetera, eccetera, eccetera non abbandoneranno mai i loro poteri sovrani in nome di una “Europa sovrana” governata non da loro ma da organismi di tipo soprannazionale. Per fare una Europa federale occorrerebbe prima di tutto mettere insieme buona parte delle finanze pubbliche. Ma questo è quanto il governo tedesco legittimamente rifiuta perché non vuole che i suoi cittadini finanzino le aree depresse del mezzogiorno italiano, della Spagna, e le pensioni greche o il deficit pubblico italiano. La Germania ha già problemi a finanziare la parte est del suo Paese e non vuole (legittimamente) altre rogne. I politici nazionalisti tedeschi non lasceranno mai che un organismo sovranazionale, democratico o meno, governi al loro posto.

L’illusione dell’Europa federale è ormai abbracciata solo da pochi illustri accademici, soprattutto italiani, come Sergio Fabbrini, docente di politica e relazioni internazionali alla università LUISS e editorialista del Sole 24 Ore, che da anni invoca pervicacemente la realizzazione di organismi sovranazionali europei sul modello del federalismo presidenziale americano. Pura illusione (a parte il fatto che il presidenzialismo federalista è in forte crisi perfino in America). In Europa si raggiungerebbe già un grande traguardo se si formasse una Confederazione di Stati in grado di promuovere politiche comuni, come il price cap o il fondo per l’energia.

Anche il Trattato di Maastricht, concepito in un periodo di apoteosi del “pensiero unico” e dell’ideologia reaganiana – per cui è bello tutto quello che viene dal mercato, dalla competizione per il massimo profitto individuale, mentre tutto ciò che è pubblico e statale è da rigettare -, è un terreno di cultura più che propizio per la prevalenza degli interessi privati sul bene pubblico. E quindi è un terreno fertile per la corruzione.

Il paradosso italiano è che la destra, che non ama la democrazia, critica la UE e la BCE perché sono “burocratiche” e non democratiche, mentre la sinistra, che in teoria si batte in prima linea per la democrazia, sostiene una UE che non è democratica e che promuove l’austerità – e quindi la disoccupazione – in nome della lotta all’inflazione. Una UE che non riesce neppure ad affrontare i problemi dell’immigrazione, per non parlare dei problemi urgentissimi della sicurezza e della difesa comune europea. Non ci si può dunque meravigliare che la destra vada al potere: vince il populismo se la sinistra collude e sostiene politiche antipopolari e antidemocratiche calate dall’alto, da Bruxelles, da Francoforte o da Berlino.

 

Contro il sovranismo fascistoide bisognerebbe ricordare che la nostra Costituzione afferma che “la sovranità appartiene al popolo” e ovviamente al popolo italiano, non a Bruxelles. Purtroppo a sinistra solo pochissimi intellettuali, come Luciano Gallino, hanno avuto il coraggio e l’intelligenza di denunciare il carattere anti-democratico delle istituzioni europee[1].

Fin quando non verrà deciso di stabilire un fondo comune confederale finanziato da obbligazioni comuni europee – come è stato nel caso, purtroppo unico, del Next Generation EU -, fino a quando non si metterà a fattore comune una parte del debito dei paesi europei per finanziare politiche espansive di piena occupazione, e fino a quando i paradisi fiscali non verranno aboliti e non ci sarà una politica fiscale comune in tutta Europa, l’euro sarà sempre a rischio di crisi e di rottura e i mercati finanziari e le grandi corporations continueranno a essere i veri padroni della moneta unica europea e della UE.

Se si vuole davvero realizzare una maggiore cooperazione europea bisognerebbe riformare radicalmente i trattati e andare nella direzione di una Confederazione di stati nazionali con una moneta non unica ma comune, come era per esempio il Bancor di J. M. Keynes. E comunque occorre riconoscere che gli stati nazionali sono e rimangono l’unico luogo della democrazia possibile.

[1]   Luciano Gallino “Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa”  Einaudi 2013



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