La Corte suprema alla prova della politica

I giudici della Corte suprema statunitense sono di nomina politica ma rimangono in carica a vita, avendo quindi il potere di incidere sulla vita politica del Paese anche quando la maggioranza che li ha nominati non è più tale. Per questo motivo la legittimità della Corte si fonda sulla sua capacità, dimostrata più volte nella storia, di essere nonostante tutto indipendente dalla politica. La crisi di legittimità di cui soffre oggi mostra però che basta molto poco per incrinare il meccanismo.

Elisabetta Grande

Questo saggio è stato pubblicato sul numero 1/2022 della rivista (“La fine del secolo americano?“). [ACQUISTA LA VERSIONE CARTACEA O DIGITALE]

Mai in tempi recenti la Corte suprema statunitense ha subìto un crollo di popolarità come sta accadendo in questo periodo. Un sondaggio Gallup dei primi di settembre 2021 riporta un’approvazione dell’operato della Corte del solo 40% degli americani (contro il 58% dell’anno precedente): il tasso più basso da quando – 21 anni fa – questo tipo di sondaggio ha cominciato a essere effettuato 1. Una diversa indagine, condotta un mese dopo dall’Annenberg Public Policy Center dell’Università della Pennsylvania, rivela che ben più di 1 americano su 3 prospetta addirittura l’ipotesi di eliminare del tutto la Corte suprema oppure di sottrarle la giurisdizione in relazione ad alcune questioni politicamente calde, quando le sue decisioni siano in contrasto con le prese di posizione del Parlamento. Due anni prima solo il 20% degli americani aveva espresso un parere analogo 2.

La perdita di legittimazione della Supreme Court of the United States (Scotus) non è davvero questione di poco conto, giacché è su di essa che si fonda il suo potere. A differenza, infatti, del potere legislativo della borsa e di quello esecutivo della spada, che trovano fondamento esplicito nella Costituzione federale, il potere della Scotus, quale giudice ultimo delle leggi (e dell’azione dell’esecutivo), è una prerogativa che la stessa Corte si è auto-attribuita a partire dalla nota sentenza Marbury v. Madison del 1803, grazie al genio del suo chief justice, John Marshall.

In nessun luogo della Carta fondamentale è scritto infatti che il potere giudiziario includa quello di disapplicare le leggi, federali o statali, in contrasto con la Costituzione. Fu la nomina di Marbury a giudice federale – nelle more della transizione alla presidenza Jefferson, strenuo antifederalista – da parte dell’allora presidente federalista Adams, a offrire a John Marshall l’occasione per auto-conferirsi una simile prerogativa. Non avendo ricevuto da Madison, sottosegretario di Stato del nuovo presidente Jefferson, la notifica della nomina, Marbury si rivolse a John Marshall – federalista e compagno di partito – e alla sua Corte per ottenere giustizia, convinto che le sue buone ragioni e l’affiliazione alla stessa parte politica non avrebbero potuto che giocare a suo favore. A sorpresa, tuttavia, il chief justice emise una decisione di segno diverso rispetto a quella che Marbury si attendeva, attribuendo però a se stesso e alla sua Corte un potere profondamente pervasivo e fino ad allora inedito: il cosiddetto judicial review, ossia il controllo di costituzionalità delle leggi.

Deludendo Marbury, Marshall riscontrò infatti un contrasto fra la legge federale che attribuiva alla sua Corte il compito di decidere in primo grado il caso e la Costituzione, che viceversa non contemplava tale giurisdizione. Un tale dissidio fra norme non poteva che essere risolto a favore della seconda, la Supreme Law of the Land (Articolo VI, sez. 2), ché altrimenti avrebbe perso il suo carattere di supremazia – sostenne Marshall – laddove il compito di dichiarare illegittima e quindi non applicabile la legge ordinaria in contrasto non poteva che spettare al potere giudiziario, delegato dal popolo costituente a risolvere tutti i casi e le controversie sorte nell’ambito della Costituzione (Articolo III, sez. 2).

La legge federale su cui Marbury aveva basato il ricorso fu dunque proclamata incostituzionale e il giudiziario federale con a capo la Corte suprema, che fino a quel momento era stato «senza paragone il più debole fra i poteri dello Stato» (come aveva scritto Hamilton nei Federalist Papers 3), da allora in poi assunse quel ruolo politico/istituzionale di primissimo piano che oggi conosciamo. Marshall aveva insomma perso una battaglia, ma aveva vinto la guerra, poiché aveva conquistato alla Scotus, controllata per Costituzione da esecutivo e legislativo (che, come accade per tutti i pubblici funzionari federali, ne nominano i membri), il potere di controllarli a sua volta, all’interno di un gioco di checks and balances divenuto reciproco.

Potere in bilico

La storia ci racconta come l’accettazione di quella prerogativa in capo a una Corte che si era in tal modo posta al vertice di una piramide giudiziaria, che presto dal piano federale passò a coinvolgere anche il piano statale, non sia avvenuta senza conflitti, anche pesanti. Quando, poco tempo dopo Marbury v. Madison, la Scotus di John Marshall si auto-attribuì anche il controllo di costituzionalità sulle leggi statali, laddove fosse stato in gioco il rispetto della Costituzione federale, le Corti supreme statali di diversi Stati – esautorate della prerogativa di avere l’ultima parola sulle proprie leggi – e i relativi legislativi reagirono con forza, cercando di negare il potere costituzionale d’appello della Corte suprema. Fu l’autorevolezza dei suoi giudici (allora sei, divenuti poi nove), che non solo parlavano all’unisono (in 35 anni di gestione Marshall le opinioni concorrenti o dissenzienti si possono contare sulle dita di una mano!), ma che soprattutto – non essendosi lasciati influenzare da logiche partitiche – avevano dimostrato di essere dei tecnici e non dei politici, a consentire alla Corte Marshall di consolidare il suo penetrante potere di judicial review.

Quanto la percezione collettiva della sua neutralità politica le fosse indispensabile per mantenere il conquistato potere di controllo di costituzionalità delle leggi, la Scotus lo scoprì molto presto. Fu il caso Dred Scott v. Sandford del 1857 (deciso pochi anni prima dello scoppio della guerra civile da una nuova composizione di giudici diretta dal chief justice Robert Brooke Taney) a darle tutta la misura dell’importanza di non apparire una Corte politica 4. Si trattava nella fattispecie di decidere se Dred Scott, schiavo in Missouri, avesse o meno conquistato la libertà, avendo egli vissuto per un certo periodo di tempo in due Stati che non ammettevano la schiavitù: l’Illinois e il Wisconsin. La questione era politicamente caldissima e per questo motivo per lungo tempo le Corti di tutti i livelli avevano offerto risposte ambigue e tergiversanti al problema. Sotto la pressione del neo-eletto presidente Buchanan, la Scotus intervenne invece pesantemente nel merito, affermando che in forza della Costituzione federale i “negro” non erano cittadini degli Stati Uniti e non lo sarebbero mai stati, ragion per cui Dred Scott non aveva facoltà di adire la Corte. Non contenta di una simile asserzione (che per di più dal punto di vista dell’argomentazione tecnico-giuridica appariva illogica, contraddittoria e infondata), la Corte pensò bene di allargare la sua giurisdizione al di là del petitum, ossia di ciò su cui le era stato chiesto di decidere. Dichiarò, infatti, incostituzionale l’intero Missouri Plan con il quale il Congresso aveva vietato la schiavitù nei territori a nord-ovest. L’ovvia presa di posizione politica della Scotus, goffamente presentata come tecnica, scatenò una reazione negativa dell’opinione pubblica senza uguali. E se da un canto quella pronuncia infiammò il conflitto civile da cui poi uscì vittoriosa la visione opposta rispetto a quella fatta propria dalla Corte (sugellata nel 1865 dal XIII emendamento), dall’altro le costò la disobbedienza immediata dei legislatori e delle Corti supreme degli Stati del Nord, che tennero in completo non cale la sua pronuncia. La sua reputazione era infatti andata distrutta e ce ne avrebbe messo di tempo prima di riconquistarla.

La lezione di Dred Scott v. Sandford

Dred Scott, ricordata come «la più disastrosa decisione costituzionale del XIX secolo» 5 o addirittura «di sempre» 6, aveva dunque evidenziato quella che più tardi, nel 1962, un professore della Yale Law School, Alexander Bickel, definì la «counter-majoritarian difficulty» (difficoltà contro-maggioritaria) 7. In forza di quale principio – si era domandato Bickel – nove giudici nominati in via indiretta dal presidente degli Stati Uniti con il consenso del Senato sono legittimati a invalidare le leggi emanate dai parlamentari, eletti invece in via diretta, che rappresentano il volere della maggioranza dei cittadini? È la caratteristica di tecnici del diritto, il cui patrimonio sapienziale permette di scoprire il vero significato del testo costituzionale, a dare loro l’investitura necessaria a dichiarare invalide le leggi dei Parlamenti statali e federale. In quanto depositari della volontà del popolo costituente – è questo il principio che giustifica la loro autorità – essi interpretano il testo dei padri fondatori, dando voce alla maggioranza qualificata degli americani che l’hanno ratificato, operando così come mero tramite delle loro intenzioni. Solo attraverso un’immagine di assoluta neutralità politica della Corte, che sia percepita dall’opinione pubblica come bocca della Carta costituzionale voluta dal popolo statunitense, è insomma possibile superare la «counter-majoritarian difficulty» su cui Bickel si interrogava.

In Dred Scott v. Sandford la Corte suprema aveva mostrato un volto assai più politico che tecnico-giuridico e per questo aveva perso la sua legittimazione. Ciò a sua volta aveva compromesso il rispetto della sua decisione da parte degli attori istituzionali che da essa avrebbero dovuto sentirsi vincolati. Senza la spada dell’esecutivo o la borsa del legislativo, la forza della Scotus passa solo per la sua legittimazione tecnica: è questa la lezione che Dred Scott v. Sandford aveva impartito alla Corte suprema, la quale per lungo tempo ha saputo farne tesoro.

Per mantenere credibilità come Corte tecnica la Scotus ha imparato innanzitutto ad argomentare le proprie decisioni secondo logiche giuridiche stringenti, che non lascino spazio a considerazioni politiche, bensì facciano rigorosamente riferimento al testo, all’intenzione del costituente, alla letteratura accademica, ai propri precedenti, ma anche – discostandosi da un’impostazione originalista – a quei valori contemporanei condivisi che consentono alla Corte di interpretare evolutivamente il dettato costituzionale in sintonia con il sentimento collettivo. Ha poi usato estrema cautela nel decidere questioni politicamente calde, che ha affrontato al momento opportuno 8, maturati i tempi, avendo cura di non forzare la mano per evitare accuse di eccessivo judicial activism. All’epoca di Brown v. Board of Education (la rivoluzionaria decisione che nel 1954 desegregò le scuole del Sud del Paese, la cui non facile implementazione comportò scontri, addirittura armati, fra federazione e Stati del Sud) per mantenere la propria legittimazione la Scotus aveva per esempio potuto contare sul clima di solidarietà sociale che si respirava nel trentennio glorioso, oltre che sull’unanimità dei consensi al suo interno, nonché sull’autorevolezza tecnica del suo chief justice Earl Warren; il quale, una volta divenuto giudice, aveva chiaramente messo da parte il proprio passato politico di governatore repubblicano della California. In quel periodo però la Corte suprema aveva anche accuratamente evitato di spingersi troppo in là in fatto di eguaglianza razziale, aspettando ben 13 anni prima di dichiarare incostituzionali, nel 1967, con Loving v. Virginia, le leggi che vietavano i matrimoni interrazziali.

A conferma dell’apprendimento della lezione impartitale dalle disastrose conseguenze di Dred Scott v. Sandford e della sensibilità da allora in poi mostrata nei confronti dei limiti provenienti dall’opinione pubblica maggioritaria, sta poi l’atteggiamento assunto dalla Corte nei confronti della pena di morte. Nel 1972, con il caso Furman v. Georgia, la Scotus aveva dichiarato contraria all’VIII emendamento della Costituzione la pena capitale, in quanto sanzione crudele e inusuale («cruel and unusual punishment») in base ai mutati standard morali («evolving standard of decency»), mettendosi in tal modo al passo con ciò che stava avvenendo in Europa. Solo cinque mesi dopo, però, la Florida aveva già reintrodotto la pena di morte e nel giro di pochi anni ben 37 Stati, sui 40 che la prevedevano prima di Furman v. Georgia, la ripristinarono. Di fronte a ciò la Corte suprema, prendendo atto della volontà della stragrande maggioranza degli americani, fece marcia indietro e –rispettando l’interpretazione degli «evolving standard of decency» data dai legislatori statali – nel 1976, con la decisione Gregg v. Georgia, si pronunciò per la sopravvivenza (sia pur con alcuni limiti) della pena di morte 9.

Gli esempi che nel corso del tempo testimoniano l’adoperarsi della Corte per non ricadere nell’errore di sostituirsi platealmente al legislatore nelle questioni socio-politicamente calde in antitesi all’opinione dominante, ma al contrario di apparirne la voce, sono tanti. Si pensi ancora alla sua attesa del momento opportuno (che si concretizzò solo nel 2003) per dichiarare incostituzionali tutte le cosiddette «sodomy laws», che punivano i rapporti sessuali non convenzionali e quindi soprattutto i rapporti gay. Solo dopo che le leggi o le decisioni delle Corti supreme statali (fra cui proprio quella della Georgia) di ben 12 Stati presero posizione a favore della legalità dei rapporti omosessuali (cosa che aveva portato a 36 il numero di quelli che a partire dal 1962 li avevano depenalizzati), con Lawrence v. Texas la Scotus rovesciò finalmente Bowers v. Hardwick, la decisione con cui nel 1986 aveva dichiarato costituzionalmente legittima la sanzione penale prevista dalla «sodomy law» georgiana. La volata verso la costituzionalizzazione del «same sex marriage», con Obergefell v. Hodges nel 2015, fu poi agevolata da una serie di circostanze, fra cui certamente l’avvenuta legalizzazione del matrimonio fra persone dello stesso sesso in 14 Stati nel giro di pochissimo tempo, al di fuori di qualsiasi costrizione da parte del giudiziario federale. Se infatti le Corti supreme statali di Massachusetts, Connecticut e Iowa, già a partire dal 2004, avevano dichiarato incostituzionali le leggi dei rispettivi Stati che vietavano il matrimonio gay, a cominciare dal Vermont nel 2009 via via (tramite referendum popolare o meno) i legislatori di altri 11 Stati lo avevano esplicitamente legalizzato, con una notevolissima accelerazione fra il 2012 e il 2014. Fin dal 2011, d’altronde, era diventata maggioritaria l’opinione pubblica favorevole al matrimonio fra persone dello stesso sesso 10, seguendo un’accelerazione dei consensi a partire dal 2009 11.

Il “vizio” di origine: la nomina politica dei supremi giudici

Presentarsi come tecnici, e non come politici, per superare la «difficoltà contro-maggioritaria» e giustificare così la propria autorità a porre nel nulla in via definitiva l’operato del legislatore (sia esso statale o federale) significa, però, per i giudici della Corte suprema anche e soprattutto sormontare il proprio “vizio” di origine: quello di essere stati nominati dal presidente in carica con il consenso della maggioranza dei senatori. Affinché giudici politicamente designati possano davvero operare come tecnici occorre innanzitutto che sia data loro la possibilità di spezzare il cordone ombelicale che li lega alla parte politica che li ha scelti. A questo fine la sezione 1 dell’art. III della Costituzione conferisce a tutti i giudici federali il diritto di mantenere carica e stipendio a vita («during good behaviour»). È la garanzia che in quella veste essi potranno prendere posizioni diverse rispetto a quelle del presidente e dei senatori che li hanno nominati e confermati, perché non soltanto nessuno potrà mai mandarli via, ma soprattutto perché delle decisioni prese non dovranno mai rispondere politicamente, come capiterebbe invece se l’incarico fosse conferito a tempo determinato, giacché la loro successiva carriera potrebbe risultarne compromessa.

A conferma della bontà della scelta del costituente stanno i tanti casi di giudici della Corte suprema la cui linea interpretativa della Costituzione si è discostata radicalmente o parzialmente da quella del presidente che li aveva nominati e della relativa parte politica. Si è già detto di John Marshall e dell’autorevolezza che gli derivò come giudice tecnico dall’aver (con Marbury v. Madison) dato una lettura alla Costituzione in contrasto con gli interessi del suo partito. Sotto questo profilo nessuno più di Earl Warren ha saputo mostrare quanto radicale possa essere la trasformazione da politico a tecnico di chi diviene membro della Corte suprema. Provenendo dalle fila del Partito repubblicano e nominato da Eisenhower, egli diede le interpretazioni più progressiste alla Carta fondamentale della storia statunitense, non solo in tema di eguaglianza razziale, ma anche di giusto processo, convincendo spesso della loro bontà l’intera Corte. Anche Harry Blackmun è noto per essere stato uno dei giudici più liberal della storia della Corte, nonostante fosse stato nominato da Nixon. Si pensi d’altronde ai tanti altri casi nel passato in cui supremi giudici, pur scelti da presidenti repubblicani, hanno poi assunto posizioni liberali e progressiste, come Paul Stevens o David Souter, o si sono collocati a metà strada, a volte votando con i liberali a volte con i conservatori, come per esempio Sandra O’Connor o Anthony Kennedy.

All’immagine di neutralità tecnica – per quanto di designazione politica – dei supremi giudici ha poi sempre contribuito (oltre al divieto di esprimere pubblicamente la propria opinione politica) anche la conferma largamente bipartisan da parte del Senato che, fino a tempi recenti, ne ha caratterizzato la nomina. La convergenza dei due partiti sugli stessi nomi ha, infatti, esaltato le qualità tecniche degli investiti della carica e il loro prestigio come giuristi, scongiurando così agli occhi della pubblica opinione una loro possibile interpretazione di tipo politico della Carta costituzionale. Sarebbe certamente troppo dispendioso in termini di spazio ricordare quante volte nel passato i giudici hanno ottenuto un ampio consenso da parte del Senato. Solo per fare qualche esempio, fra i supremi giudici più recenti si possono ricordare Anthony Kennedy (confermato con 97 voti a 0), Ruth Bader Ginsburg (96 a 3), Antonin Scalia (98 a 2), Sandra O’Connor (99 a 0), Paul Stevens (98 a 0), o David Souter (90 a 9), al di là che a nominarli fosse un presidente repubblicano (come nel caso di tutti coloro che ho indicato salvo Ruth Bader Ginsburg) o meno 12.

Senza contare l’attenzione istituzionale mostrata da presidenti come Eisenhower che, dovendo designare alla fine del suo primo mandato un nuovo giudice, lo fece attraverso il recess appointment (nomina temporanea in un momento di pausa del Senato, poi confermata da quest’ultimo all’unanimità l’anno successivo) di William Brennan, uno dei giudici più progressisti della storia americana, scegliendolo appositamente fra le fila dei liberal, giacché in precedenza aveva scelto due giudici repubblicani.

Partita decisiva

Quest’ultimo episodio ci porta direttamente al tempo presente di un presidente (il meno istituzionale della storia statunitense) che, dimostrando scarsissimo interesse per la credibilità dell’organo giurisdizionale supremo degli Stati Uniti, nel giro di pochissimo tempo ne ha affossato la legittimazione.

Si fa com’è ovvio riferimento a Donald Trump il quale (nel settembre del 2020) essendosi trovato in una situazione analoga a quella di Eisenhower, nel nominare alla Corte suprema Amy Coney Barrett in sostituzione di Ruth Bader Ginsburg, non soltanto non ha scelto un giudice liberal pur avendone in precedenza nominati due conservatori (Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh), ma ha addirittura spezzato la regola aurea che richiede non si proceda a nessun nuovo insediamento di giudici supremi laddove si sia a ridosso delle elezioni presidenziali. Quella – fino ad allora – consolidata prassi rispondeva, infatti, al ragionevole principio che siano il presidente e il Senato espressi dal voto popolare a nominare e confermare chi, dopo Marbury v. Madison, può condizionare in maniera incisiva le libertà fondamentali del popolo stesso. Modificare la composizione della Corte suprema significa, infatti, determinare il panorama dei diritti di cui potranno godere i cittadini americani nel prosieguo e la nomina di un giudice da parte del presidente e del Senato uscenti (quest’ultimo per un terzo) non garantisce affatto – a differenza di quel che in tempi normali accadrebbe se essa avvenisse a opera del presidente e del Senato entranti – che la visione dei diritti fondamentali fatta propria dal nuovo giudice coincida con quella della maggioranza degli americani, le cui libertà egli o ella è, tuttavia, chiamato/a a proteggere.

D’altronde già in precedenza quel principio maggioritario, utile a conferire legittimazione democratica alla Corte suprema, era venuto meno nel corso della presidenza Trump. Né quest’ultimo, né – durante tutto il suo mandato – il Senato risultavano infatti espressione della maggioranza popolare 13, della cui prospettiva in relazione ai diritti fondamentali i ben tre giudici da essi nominati non sono perciò risultati portatori.

Il vulnus più serio inferto durante la presidenza Trump alla credibilità della Scotus proviene, però, dalla conferma dei nuovi giudici da parte di un Senato diviso su linee strettamente partitiche come raramente era accaduto prima, l’ultima volta (coincidenza vuole) proprio nel caso di altri due giudici dell’attuale Corte che, con i tre nominati da Trump, formano oggi la maggioranza: Clarence Thomas e Samuel Alito. La polarizzazione politica del tutto inedita, sulla cui scorta quei cinque giudici sono stati confermati 14, unita al loro allineamento – nelle opinioni finora espresse – alle posizioni del partito che li ha investiti della carica, rende oggi assai difficile sormontare il “vizio” politico di origine della Corte suprema cui faceva riferimento Alexander Bickel. Spogliata della sua legittimazione tecnica – rispetto a cui a nulla vale il recente spostamento verso interpretazioni più progressiste del chief justice Roberts, che resta comunque in minoranza – l’odierna Corte suprema, la cui maggioranza si presenta troppo legata al Partito repubblicano, ha in programma di decidere a breve su temi caldissimi: aborto, porto d’armi, separazione fra Stato e Chiesa e «affirmative actions»15, fra gli altri16. Né i supremi giudici sembrano intenzionati a esercitare la provvidenziale capacità di autolimitarsi di cui, come si è detto, si sono tante volte avvalsi nel passato.

Si tratta dei prodromi di una tempesta perfetta, che con ogni probabilità si scatenerebbe qualora i cinque giudici conservatori, dimentichi dei disastrosi effetti seguiti al caso Dred Scott, dovessero pronunciarsi su questioni così delicate in contrasto con il sentimento della maggioranza dei cittadini statunitensi. In tal caso la spada di Damocle della difficoltà contro-maggioritaria cadrebbe definitivamente sulla testa della Scotus che, priva della sua legittimazione tecnica, rischierebbe seriamente di perdere anche il potere che si è auto-conferita circa 220 anni fa. È questo il messaggio che i sondaggi riportati in apertura le hanno inviato e che la Corte farebbe molto bene ad ascoltare, tanto più che già da più parti si sono insistentemente sollevate richieste di ampliare il numero dei suoi membri e/o di ridurne temporalmente il mandato 17. Il semestre in corso è dunque cruciale per la Corte suprema statunitense che, con le questioni politicamente caldissime su cui ha deciso di esprimersi, giocherà una partita decisiva per la propria credibilità.


1 Jeffrey M. Jones, “Approval of U.S. Supreme Court Down to 40%, a New Low”, Gallup, 23 settembre 2021, bit.ly/3CNVAma.

2 “1 in 3 Americans Say They Might Consider Abolishing or Limiting Supreme Court”, Annenberg Public Policy Center of the University of Pennsylvania, 4 ottobre 2021, bit.ly/3oWf7fk.

3 The Federalist Papers n. 78, disponibile al seguente link: bit.ly/3xef8PF.

4 Sul caso si veda per tutti l’enciclopedia Britannica al seguente link: bit.ly/3DKc9Ri.

5 Robert H. Bork, The Tempting of America: The Political Seduction of the Law, The Free Press, 1990, p. 28

6 Christopher L. Eisgruber, Dred Again: Originalism’s Forgotten Past, Constitutional Commentary, vol. 10, 1993.

7 Alexander Bickel, The Least Dangerous Branch. The Supreme Court at the Bar of Politics, Yale University Press, 1962.

8 Dal 1925 la Scotus ha infatti discrezionalità – divenuta poi assoluta dal 1988 – in relazione ai casi su cui intende esprimersi: si veda Ugo Mattei, Common Law. Il diritto anglo-americano, Utet, 1992, p. 197 e ss.

9 Sul tema, fra i molti, si veda Franklin Zimring, La pena di morte. Le contraddizioni del sistema americano, Il Mulino, 2009; David Garland, Peculiar Institution. America’s Death Penalty in an Age of Abolition, The Belknap Press of Harvard University Press, 2010; Paolo Passaglia, La condanna di una pena. I percorsi verso l’abolizione della pena di morte, Olschki, 2021.

10 Justin McCarthy, “Record-High 70% in U.S. Support Same-Sex Marriage”, Gallup, 8 giugno 2021, bit.ly/32lC1Ff.

11 Nate Silver, “Opinion on Same-Sex Marriage Appears to Shift at Accelerated Pace”, FiveThirtyEight, 12 agosto 2010, 53eig.ht/3r1IdN2.

12 Maggiori informazioni sul sito del Senato: bit.ly/3r4ZxAO.

13 È noto come Trump sia stato eletto nonostante avesse ottenuto più di tre milioni di voti in meno rispetto a Hillary Clinton e il Senato fosse controllato dai repubblicani, che cumulativamente rappresentavano meno di metà del Paese. Sul punto, per un approfondimento, mi permetto di rinviare al mio “Amy Coney Barrett nel dilemma democratico”, Questione Giustizia, 27 ottobre 2020, bit.ly/3CKa5rj.

14 Amy Coney Barrett è stata confermata con 52 voti favorevoli e 48 contrari, Brett Kavanaugh con 50 contro 48 e Neil Gorsuch con 54 contro 45. Ugualmente con pochissimi voti dei senatori democratici furono investiti della carica a giudice supremo anche gli altri due giudici che oggi costituiscono la maggioranza conservatrice, ossia Samuel Alito (58 a 42) e Clarence Thomas (52 a 48).

15 Si tratta delle cosiddette azioni positive, che consentono alle minoranze di recuperare almeno in parte il gap causato dalle discriminazioni passate, dando loro un qualche minimo vantaggio, in questo caso nelle ammissioni all’università. Ridotta nel tempo la possibilità di far uso delle affirmative actions per accedere all’istruzione universitaria la Scotus potrebbe oggi dichiararle incostituzionali tout court.

16 Nina Totenberg, “The Supreme Court’s conservatives cook up a stew of abortion, guns, religion and more”, Npr, 4 ottobre 2021, n.pr/3r404mn.

17 Sul punto per tutti si veda il saggio di Daniel Epps e Ganesh Sitaraman, “The Future Of Supreme Court Reform”, 134 Harvard Law Review Forum 98, 30 maggio 2021, bit.ly/3HFqwsu; e, per le recenti proposte della commissione nominata da Biden: Charlie Savage, “Biden’s Supreme Court Commission Shows Interest in Term Limits for Justices”, The New York Times, 18 novembre 2021, nyti.ms/30RqHjq.

CREDIT FOTO EPA/SHAWN THEW


“La fine del secolo americano?”. È uscito il nuovo numero di MicroMega (1/2022)



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