Cosa (non) può fare l’Università per la pace a Gaza

Un nutrito gruppo di accademici italiani chiede l’immediato cessate il fuoco a Gaza, il rispetto del diritto internazionale e la tutela della libertà d’informazione e discussione nei nostri atenei, tutti obiettivi condivisibili. Mentre non lo è la richiesta, avanzata nello stesso appello, di boicottare le università israeliane.

Mauro Barberis

C’è molto di condivisibile nell’appello rivolto da un nutrito gruppo di accademici italiani ai ministri degli Esteri e dell’Università, nonché alla Conferenza dei rettori. L’appello chiede l’immediato cessate il fuoco a Gaza, il rispetto del diritto internazionale violato prima da Hamas e poi da Netanyahu, e anche la tutela, negli stessi atenei italiani, della libertà d’informazione e discussione: spesso violata dalla Conferenza e da singoli rettori in nome di un pilatesco pacifismo. Personalmente, però, non l’ho firmato per via del seguente invito: «Chiediamo […] di pronunciarsi con chiarezza sulla necessità da parte dei singoli atenei italiani di procedere con l’interruzione immediata delle collaborazioni con istituzioni universitarie e di ricerca israeliane».
Gli estensori dell’appello hanno chiarito di riferirsi solo alle collaborazioni nel ramo militare: collaborazioni che sollevano evidenti dilemmi morali. Lo raccontano film come Oppenheimer, di Christopher Nolan, e libri come Maniac, di Benjamin Labatut: i maggiori scienziati mondiali non collaborarono a cuor leggero alla progettazione della prima bomba atomica. Di fatto, molte università e industrie italiane d’avanguardia collaborano con le loro omologhe in Israele in progetti bellici. D’altra parte, c’è da chiedersi se interrompere questi rapporti impedirebbe davvero, oggi, la strage di civili consumata dai bombardamenti indiscriminati su Gaza.
Ma le vere ragioni per cui non sottoscriverò mai un appello del genere sono altre due, una di principio e l’altra di opportunità, che riguardano entrambe il ruolo dell’università, non solo qui e oggi ma sempre e comunque. La prima ragione, di principio, riguarda proprio la vocazione dell’Università di spazio aperto al dialogo, vocazione della quale alcuni burocrati della cultura si riempiono la bocca al fine esattamente opposto: impedire una seria discussione su questi temi, per non incorrere nell’accusa di antisemitismo, alquanto inflazionata ultimamente. Ma l’istituzione universitaria, sin dalla sua fondazione a Bologna dopo l’anno Mille, o è aperta al dialogo o non è. Escludere gli atenei israeliani da questo dialogo equivarrebbe a tradire un’autentica vocazione dell’Università.
La seconda ragione, connessa alla prima e apparentemente solo di opportunità, riguarda la posizione dell’università e dei maggiori intellettuali israeliani nei confronti del regime di Benjamin Netanyahu. Università, intellettuali e scienziati israeliani, insieme con gli stessi riservisti dell’esercito, sono oggi in prima fila perché le stragi quotidiane di Gaza non si trasformino in un genocidio strisciante. Se l’Onu, l’Occidente e anche l’Italia vogliono davvero la pace, devono sostenere gli oppositori israeliani raggruppati intorno alle Università, non certo isolarli: proprio come dovrebbero fare con i dissidenti nella Russia di Putin.
Questa seconda ragione, dicevo, è solo apparentemente di opportunità: essa varrebbe, infatti, anche se scienziati e accademici israeliani non fossero schierati contro Netanyahu e la sua escalation militare senza fine, come invece di fatto sono, insieme con la larga maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. Il punto è che nelle democrazie, e in particolare nelle democrazie a rischio come Israele, le università non sono solo istituzioni scientifiche, d’insegnamento e di ricerca, come vogliono farci credere certi burocrati della cultura. Le università sono anche istituzioni politiche, sempre pronte a trasformarsi, in Israele come da noi, in contro-poteri dei governi che attentano al pluralismo, alla democrazia e alla pace.



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