Cospito, il carcere duro e lo Stato di diritto

Sono almeno tre le questioni sollevate dal caso dell’anarchico al 41 bis che meritano di essere tenute distinte.

Cinzia Sciuto

La vicenda di Alfredo Cospito – l’anarchico al 41 bis, in sciopero della fame ormai da diverse settimane – solleva molte e assai complesse questioni, sulle quali non è possibile dare un parere tagliato con l’accetta. A voler dipanare il gomitolo di questa complessa vicenda, si individuano almeno tre fili che si intrecciano e che vale la pena distinguere.

Una prima questione è quella della legittimità costituzionale del regime del 41 bis in generale, questione che dunque va oltre Alfredo Cospito nello specifico e sulla quale i pareri sono molto diversi. C’è chi, infatti, ritiene che si tratti di un regime carcerario che viola la nostra Costituzione laddove all’articolo 27 stabilisce che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. E c’è chi, pur riconoscendo che si tratti di un trattamento carcerario estremamente duro e da riservarsi in casi assolutamente eccezionali, ritiene però che il fenomeno mafioso (per il quale originariamente è stato pensato il 41 bis) abbia delle tali peculiarità da rendere indispensabile un trattamento simile per chi rischia di continuare la propria azione criminale da dentro il carcere. È il motivo per cui, per esempio, è stato subito firmato il 41 bis per Matteo Messina Denaro.

Altra e distinta questione è se nello specifico Alfredo Cospito meriti questo regime carcerario. Ricordiamo che l’anarchico è stato condannato per diversi reati: nel 2012 ferì alle gambe Roberto Adinolfi, amministratore delegato della Ansaldo Nucleare, reato per il quale è stato condannato con sentenza definitiva a dieci anni e otto mesi di reclusione; successivamente è stato condannato a 20 anni per diversi attentati, fra cui quello del 2006 alla caserma dei Carabinieri di Fossano, nei pressi di Torino, in cui non ci fu nessun morto né ferito. Il tribunale ritenne però che solo per caso le due esplosioni non provocarono vittime, da qui la condanna così alta. Successivamente la Corte di Cassazione decise di rinviare gli atti alla Corte d’assise d’appello di Torino per un ricalcolo in peggio della pena, accogliendo la richiesta della procura di riqualificare il reato in “strage politica”, il che ha comportato l’innalzamento della pena di Cospito da 20 anni di carcere all’ergastolo senza condizionale. All’anarchico, considerato a capo di un’organizzazione terroristica, è stato poi comminato il carcere duro, quello normalmente riservato appunto ai capimafia. Ora, se nel caso specifico sussistano i presupposti per il 41 bis o meno – ossia se davvero Cospito dal carcere continuava a organizzare e gestire la rete terroristica e a rappresentare una minaccia per lo Stato – è ovviamente una questione su cui solo chi conosce i dettagli del fascicolo può esprimersi con cognizione di causa e spetterà ai giudici stabilire infine se tali presupposti ci sono oppure no, come sostengono gli avvocati di Cospito.

Infine c’è la questione delle condizioni di salute dell’anarchico, considerate allarmanti dal suo medico. Questo è un aspetto che pone questioni di straordinaria complessità etica, politica e filosofica che non è qui la sede per approfondire, ma non c’è alcun dubbio che lo Stato debba garantire la salute psico-fisica delle persone in sua custodia, e dunque nel caso specifico va garantito a Cospito tutta l’assistenza medica necessaria (anche se questo dovesse comportare la momentanea sospensione del regime del carcere duro).

Una vicenda dunque estremamente complessa, che speriamo non venga strumentalizzata né da chi ne vuole fare una bandiera contro il 41 bis in generale (tema che va affrontato separatamente e con grande cognizione di causa sul perché e in quali circostanze il carcere duro è forse indispensabile), né da chi invece vuole che lo Stato mostri a tutti i costi “la faccia dura”. Perché se è vero che uno Stato di diritto non può scendere a patti con chi usa la violenza, altrettanto vero è che uno Stato di diritto non può sacrificare la vita di una persona per dimostrare di non piegarsi ai ricatti.

 

Foto ANSA/LUCA ZENNARO



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