Silicon Valley Bank, Credit Suisse: è in arrivo una nuova crisi finanziaria globale?

Inflazione, tassi in salita e fallimenti bancari: la tempesta perfetta che minaccia l'economia mondiale. Intervista a Emilio Carnevali.

Rita Viola

Quando nei giorni scorsi abbiamo sentito la notizia del fallimento della banca americana Silicon Valley Bank la memoria di tutti noi è andata immediatamente al 2008 e al fallimento della Lehman Brothers, evento che innescò la grave crisi economica finanziaria degli anni successivi. Per capire meglio cosa sta accadendo e cosa dobbiamo aspettarci per il futuro ne abbiamo parlato con Emilio Carnevali, economista della Northumbria University di Newcastle Upon Tyne.

Partiamo dalla ricostruzione dei fatti: cos’è successo alla Silicon Valley Bank?
Volendo cominciare dalla fine, la banca ha subìto quello che in gergo si chiama un bank run, una corsa agli sportelli. Nella sola giornata di giovedì 8 marzo i suoi clienti hanno tentato di portare via dalla banca qualcosa come 42 miliardi di dollari, pari a circa un quarto dei depositi totali. La banca si è trovata nell’impossibilità di trovare la liquidità necessaria a fronteggiare queste richieste ed è stata dichiarata insolvente dalla Federal Deposit Insurance Corporation, l’autorità Usa incaricata di garantire l’assicurazione sui deposi bancari.

Perché si è verificata questa corsa agli sportelli?
La SVB aveva problemi sia dal lato delle passività (in parole semplici, i debiti della banca, fra cui sono da includersi i depositi della clientela) sia dal lato degli attivi (i crediti che la banca può vantare verso soggetti terzi). Per quanto concerne le passività, i suoi clienti erano concentrati soprattutto fra le start-up e i fondi di venture capital del settore tecnologico. Inoltre, negli Stati Uniti il limite per l’assicurazione federale dei depositi è di 250.000 dollari. Secondo alcune stime alla SVB la quota dei depositi non assicurati (perché sopra questa soglia) superava il 90%.  Il grosso afflusso di investimenti e capitali verso le start-up tecnologiche che si è verificato negli anni recenti ha gonfiato i depositi presso la SVB e ha dunque messo a disposizione della banca una enorme liquidità. Una parte consistente di questa liquidità – e qui veniamo al lato degli attivi – è stata investita in obbligazioni e titoli governativi a reddito fisso e contabilizzata in bilancio come “held-to-maturity”. Significa che anche se il loro prezzo scendeva a causa dell’incremento dei tassi varato dalle banche centrali nell’ultimo anno, il loro valore ai fini del bilancio restava quello nominale. La cosa può funzionare perfettamente, a meno che non si è costretti a vendere i titoli prima della loro scadenza, o a utilizzarli come collaterali per ricevere prestiti da soggetti terzi, compresa la banca centrale.

È questo che ha innescato la reazione a catena che ha portato al fallimento?
Sì. Ma c’è da tenere conto di un altro elemento importante di contesto. Negli ultimi tempi le cose per l’intero settore tecnologico non sono andate benissimo. Solo per fare qualche esempio fra i nomi più noti (anche se non coinvolti nella vicenda SVB), dall’inizio dell’anno Meta, la proprietaria di Facebook, ha licenziato 10mila persone, Alphabet, la proprietaria di Google, 12mila, Amazon 18mila, Microsoft 10mila. La situazione non è diversa per le aziende più piccole e le start-up. Quando i depositi alla SVB sono iniziati a diminuire, la banca ha dovuto cominciare a vendere una parte degli attivi di un portafogli che si era svalutato di circa 15 miliardi.  Dopo aver registrato una iniziale perdita di 1,8 miliardi di dollari, ha cercato – senza riuscirci – di raccogliere liquidità sul mercato con l’emissione di nuove azioni. Ma ormai il panico si era diffuso presso i correntisti. Del resto, come detto prima, si trattava di depositi in gran parte non coperti dall’assicurazione federale. Con una metafora possiamo dire che si è diffusa la voce che la barca stava per affondare: una parte dei passeggeri, sapendo che non c’erano scialuppe di salvataggio, ha provato a muoversi per prima e a saltare su un’altra imbarcazione. Quando molti alti passeggeri hanno provato a fare lo stesso, la barca si è sbilanciata ed è affondata molto velocemente.

Dalle notizie che giungono, si tratta di una banca di medie dimensioni. Perché il suo fallimento ha avuto una tale eco?
La SVB era considerata una banca “regionale”, di medie dimensioni. Ci sono altre banche con caratteristiche simili che possono presentare fattori di rischio analoghi, sia dal lato delle attività, con asset fortemente svalutati a causa del recente incremento di tassi, sia dal lato delle passività, con una clientela poco diversificata e una consistente quota di depositi sopra la soglia coperta dall’assicurazione federale. Quando poi parliamo di fenomeni come i bank run, entriamo in un territorio dove non tutti gli elementi possono essere soppesati alla luce di considerazioni “razionali”. In certe condizioni possono subire bank run anche soggetti con fondamentali economici non compromessi: il loro stato di crisi diventa una profezia che si autoavvera.  Oggi poi, con i conti correnti online e i social media, i bank run sono ancora più facili. In ogni caso la SVB e la Signature Bank – l’altra banca fallita in questi giorni – sono state considerate dall’amministrazione Biden sufficientemente grandi per invocare l’eccezione da “rischio sistemico” e garantire anche i depositi sopra i 250.000 dollari che in teoria non dovevano essere garantiti. Questo significa che azionisti e obbligazionisti delle due banche perderanno i loro soldi, ma non i correntisti.

Sembrerebbe dunque una questione “locale”, eppure i suoi effetti si sono visti anche in Europa, fino alla vicenda Credit Suisse.
Per quanto concerne l’Europa, qui la regolamentazione del sistema bancario è più severa che negli Usa. Tuttavia, le notizie provenienti dagli Stati Uniti si sono sommate a fattori di preoccupazione “endogeni”, o più prossimi, come la situazione di Credit Suisse, la seconda banca svizzera. Credit Suisse ha alle spalle anni di scandali e conti in rosso; quindi, i suoi problemi risalgono a ben prima delle recenti turbolenze sui mercati. Le ultime vicende, e i timori di contagio dagli Usa, hanno però accelerato la sua crisi. È notizia di queste ore che la banca verrà acquistata da Ubs, la prima banca svizzera e sua storica rivale.

In molti evocano lo spettro del fallimento della Lehman Brothers, da cui partì poi la grave crisi economica del 2008-2009: il paragone è calzante?
Ci sono diverse, importanti differenze rispetto ad allora. La prima è che oggi forse, e sottolineo forse, riusciamo a capire un pochino meglio cosa sta succedendo di quanto non riuscissimo a fare nel mezzo della tempesta del 2007-2008. La problematicità dei bilanci delle banche coinvolte non è legata a particolari innovazioni finanziarie. La crisi del 2008 è partita dal settore immobiliare. Quando molti mutuatari hanno cominciato ad avere difficoltà con la restituzione dei loro prestiti e il prezzo delle case è cominciato a scendere, è diventato molto difficile capire il valore dei prodotti finanziari che erano stati creati con la cartolarizzazione di questi mutui (spesso ad alto rischio). È per questo motivo che si dovette abbandonare il piano di soccorso predisposto dall’amministrazione Bush, che consisteva nell’acquisto dei titoli “tossici” direttamente dalle banche. L’amministrazione Obama ha dovuto procedere ricapitalizzando direttamente i soggetti più esposti.
Un’altra differenza è che il crack di Lehman Brothers fu un fallimento per così dire “disordinato”. Si volle in qualche modo dare una “lezione” al mercato. Oggi, nel caso delle due banche Usa dichiarate insolventi, non solo i depositi sono stati interamente garantiti dal governo federale, ma la Federal Reserve ha aperto una linea di credito eccezionale per tutte le altre banche a cui sarà possibile accedere con collaterali che saranno valutati “alla pari”. Ciò significa che, per esempio, i titoli di Stato il cui prezzo è calato nell’ultimo anno a causa dell’incremento dei tassi saranno valutati al loro valore nominale. Questo, in teoria, dovrebbe permettere a istituti di credito con problemi simili a quelli di SVB sul lato degli attivi di gestire meglio eventuali crisi di liquidità. C’è infine da notare che lo stesso sistema bancario sta cercando di coordinarsi per arginare la crisi. Nei giorni scorsi un consorzio di banche private, fra cui JPMorgan Chase, Bank of America e Goldman Sachs ha messo su un piano di aiuti da 30 miliardi per un’altra banca regionale in sofferenza, la First Republic Bank. Anche se per il momento l’intervento non è bastato a fermare il crollo del suo titolo in borsa, che venerdì pomeriggio ha perso circa un quarto del valore.
Una differenza che invece non depone a vantaggio della situazione attuale è la situazione dell’alta inflazione e del conseguente aumento dei tassi deciso dalle banche centrali per cercare di riavvicinarsi all’obiettivo del 2%. Vedremo in che modo i banchieri centrali vorranno rivedere la loro strategia alla luce degli eventi recenti. Giovedì scorso Christine Lagarde ha deciso di tirare dritto con il già annunciato aumento di 50 punti base. Ma ha anche lasciato cadere il riferimento ad altri rialzi nell’immediato futuro. Nei prossimi giorni sono attese le decisioni di Fed e Banca d’Inghilterra.

Dopo il fallimento della Lehman Brothers si disse che il mercato finanziario andava regolato: cosa è stato fatto e perché continuano a crearsi situazioni di questo genere? Gli interventi non sono stati sufficienti?
Dopo la crisi del 2007-2008 si è fatto molto per regolare meglio il settore bancario. Purtroppo, in alcuni casi, dopo aver fatto, si è anche disfatto. Negli Usa una tappa fondamentale della ri-regolamentazione post-crisi finanziaria è stata l’approvazione del Dodd-Frank Act nel 2010. Erano gli anni dell’amministrazione Obama, ma è significativo che la legge sia passata con il voto determinante di tre senatori repubblicani. Dopodiché, con la ripresa economica sono ricominciate anche le pressioni per allentare le regole. Si tratta di un ciclo che è stato descritto molto efficacemente tanti anni fa dall’economista americano Hyman Minsky: le crisi sono spesso preparate dall’euforia, l’ottimismo e l’estrema propensione al rischio che caratterizzano i precedenti periodi di espansione.
Nel 2018 l’amministrazione Trump ha approvato una legge che, fra le altre cose, ha elevato da 50 a 250 miliardi di dollari la soglia oltre la quale le istituzioni finanziarie sono classificate come “systemically important”. Uscire da quella categoria, come è accaduto alla Silicon Valley Bank, significa essere sottoposti a regole molto meno stringenti sia rispetto ai requisiti di capitale – che misurano quanto si è in grado di assorbire perdite di esercizio – sia rispetto agli indici di liquidità – che misurano quanto si è in grado di fronteggiare eventuali fughe di investitori a breve termine. Ora negli Usa un mucchio di gente sta trasferendo i propri soldi nelle banche più grandi, perché giudicate più sicure. È un bel paradosso che queste regole, approvate con il dichiarato intento di favorire le banche di dimensioni minori, produrranno una ancor maggiore concentrazione nel settore bancario.   

Foto Flickr | Focal Foto



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