La crisi del Sudan: cronaca di un golpe annunciato

Il progetto di “transizione democratica” ha evidenziato troppe fragilità. Di fronte alla grave crisi economica e al riemergere di rivalità infracomunitarie hanno avuto spazio le frammentazioni del movimento civile e l’egemonia della componente militare.

Maurizio Delli Santi

Le ultime notizie sul golpe in Sudan annunciano l’avvenuta liberazione del premier Abdalla Hamdok, cui sarebbe stato permesso anche un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano, Antony Blinken. Molto probabilmente le proteste della popolazione, tra cui vi sarebbero già dieci morti e 140 feriti, e le reazioni degli attivisti che hanno aggirato il blocco delle comunicazioni e di internet, hanno indotto il “moderato” generale Abdel Fattah al Burhan a non inasprire la repressione. Il leader militare alla guida del Consiglio sovrano – che dal 2019 gestisce la “coabitazione” con i civili, insieme al Governo fino a ieri retto dall’economista Hamdock – ha tenuto a precisare di essere intervenuto per impedire una guerra civile e ha indicato che presto sarà costituito un governo di tecnici per affrontare la grave crisi economica del paese, mentre sarà rispettata la scadenza di luglio 2023 per le elezioni politiche. Tuttavia, rimangono agli arresti diversi ministri, mentre altri esponenti politici vengono ancora arrestati, fra cui Sediq al Mahdi, leader dell’Umma Party, principale partito politico del Sudan, e Ismail alTaj, leader dell’Associazione dei professionisti sudanesi, altro importante movimento cui si deve la deposizione del despota al Bashir nel 2019.

È altrettanto probabile che sugli intendimenti del generale Al Burhan possano avere fatto presa le reazioni internazionali. L’Unione Africana ha “sospeso” il Sudan, e la Banca mondiale ha bloccato gli aiuti, una misura che più preoccupa i militari che hanno assunto le responsabilità del governo e devono gestire la profonda crisi dell’economia e delle finanze sudanesi. Gli USA hanno già disposto il congelamento di 700 milioni di dollari, e non tarderanno altre misure dall’Ue.

Tuttavia non tutti nelle varie componenti sociali e tribali sudanesi sono schierati contro i “golpisti”. Già agli inizi di ottobre in alcune manifestazioni di piazza una parte della stessa popolazione aveva inneggiato ad un governo di militari per porre fine alla grave crisi economica. Questo sentire ha trovato ora conferma nella notizia che a Port Sudan la tribù dei Beja appoggia i militari e ha rimosso il blocco del porto attuato da settembre.

Gli scenari sono dunque ancora incerti. Gli Usa attualmente propendono per il ripristino delle condizioni della “transizione democratica” con il ritorno dei civili al governo. Ma potrebbero ripensarci, soprattutto se iniziano a temere che il generale Burhan possa trovare aperture dalla Russia e dalla Cina. Mosca, pur condannando la deriva, ha già richiamato la comunità internazionale a non ingerirsi in vicende interne di uno Stato sovrano. La Cina ha un trascorso di grandi intese con il Sudan, e nel 2018, ai tempi di al Bashir, ha cancellato 10 miliardi di dollari di debito. Affinità significative poi si possono ipotizzare con l’Egitto dell’altro generale Al Sisi, e non può escludersi che il sostegno possa venire anche da Arabia Saudita e Qatar, in nome del legame storico che unisce il Sudan all’islam e al mondo arabo.

Ma per poter valutare cosa realmente sta succedendo in Sudan, è necessario riavvolgere il nastro e ripercorrere almeno gli eventi degli ultimi anni.

La crisi che in questi giorni sta vivendo il Sudan è l’epilogo di quella che è stata definita l’ultima delle “primavere arabe”, l’ampio sollevamento popolare che nel 2019 portò alla destituzione del despota Al Bashir, che aveva governato il paese per trent’anni. Il simbolo di quel movimento che faceva sperare nella nascita di una nuova democrazia furono le immagini dei giovani manifestanti che gridavano “Thawra!, “Rivoluzione!” in arabo, attorno ad un pick up da cui guidava i cori la studentessa con la tunica bianca Alaa Salah. Presto emerse il ruolo dei militari islamisti, una componente che nel Sudan, come in varie parti del continente africano, è autoreferenziale, non ha bisogno di legittimazione di autorità politiche, ed è anche invocata talvolta dalla popolazione per ripristinare l’ordine o intervenire nelle diatribe delle tribù locali. Il 3 giugno si arriva aL culmine dello scontro: a Khartoum, i generali fanno sgombrare un sit-in con estrema violenza. Si parla di un centinaio di manifestanti uccisi, con i corpi gettati nel Nilo, decine di donne stuprate, settecento feriti.

Ma in quel periodo, l’estate del 2019, nell’area c’è ancora Unamid, con 4.00 soldati, la missione delle Nazioni Unite e dell’Unione africana per la crisi del Darfur. Paesi arabi come l’Egitto, Arabia Saudita e Qatar temono per l’instabilità regionale e il Sudan ha un profondo legame con il mondo arabo: accanto al colonialismo occidentale, la più importante penetrazione in Africa dei secoli scorsi è dovuta alle genti della penisola araba, che portarono l’islam ma introdussero anche lo schiavismo a danno delle comunità autoctone. Gli Stati Uniti da sempre hanno guardato con attenzione il Sudan, paese da cui Osama Bin Laden aveva consolidato la minaccia jihadista globale durante il suo esilio dorato. Con la mediazione di questi Paesi e il ritiro delle sanzioni di Trump, ad agosto del 2019 nasce il progetto di “transizione democratica” del Sudan, con un sistema di condivisione del potere tra civili e militari: si costituisce da un lato il Consiglio sovrano, presieduto dal generale Abdel Fattah al Burhan, il protagonista dell’attuale golpe, e dall’altro il Governo guidato dall’economista Abdallah Hamdok, oggi arrestato.

L’intesa prevede una turnazione dei civili anche al consiglio sovrano e le elezioni a fine del 2022. Ma il paese soffre di 27 anni di sanzioni statunitensi, ha perso il petrolio del Sud Sudan, indipendente dal 2011, ed ha un debito estero di 70 miliardi di dollari. L’iper-inflazione tocca punti del 400% e in piena pandemia scoppiano le proteste contro l’aumento del prezzo del pane, si assalgono gli uffici pubblici, i militari impongono il coprifuoco in molte aree. Unamid cessa definitivamente le attività, unità paramilitari vengono costituite con i janjawid, i “diavoli a cavallo” che combattevano i ribelli delle comunità nere, e rientrano gli ex-combattenti dalla Libia. Deflagrano scontri intercomunitari per il controllo dell’acqua e dei pascoli, mentre permangono le rivalità mai sopite tra comunità arabe, maggioritarie, e quelle nere.

Non mancano le divisioni e le contrapposizioni interne agli stessi movimenti civili che avevano guidato il rinnovamento, anche nel più importante Ffc, Forces for freedom. Di fronte alla grave crisi economica e ai nuovi conflitti intracomunitari che non sono in grado di gestire, gli esponenti civili ora al governo hanno perso il loro appeal popolare. Per inciso, quando viene annunciata la possibile consegna alla Corte penale internazionale dell’ex presidente Al Bashir per crimini di guerra e genocidio, qualche altro generale, ora al governo, teme conseguenze giudiziarie anche per lui. Un primo tentativo di colpo di mano di alcuni militari vicini ad Al Bashir ai primi di settembre viene sventato sul nascere. Ma i rigurgiti della pericolosa deriva si ripropongono un mese dopo.

Ed eccoci alla cronaca. Quando è il momento della turnazione dei civili alla guida del Consiglio sovrano, il “moderato” generale Al Burhan probabilmente è spinto dalla forte sfiducia popolare nel governo e dalle pressioni della componente militare più dura, quella che fa capo al suo vicepresidente del Consiglio sovrano, il generale Mohamed Dagalo “Hemetti”. È l’uomo forte che comanda le Rapid Support Forces, la milizia della repressione in Darfur, che ora è un elemento centrale, perché su di essa si regge il controllo di gran parte del territorio e la sorveglianza di tremila chilometri di confini, permeabili ai traffici illegali, tra cui quello di esseri umani.

Al Burahan, sostenuto o forse compresso da questo appoggio, non cede il potere, fa arrestare il premier Hamdock con il suo seguito e annuncia che la “rivoluzione” continuerà sotto un governo tecnico, confermando le elezioni del 2023.

Il futuro è ora tutto da tracciare: dipenderà molto da quanto la comunità internazionale non si lascerà sopraffare dalle reciproche diffidenze delle grandi e medie potenze regionali, e sarà invece coesa nel guardare piuttosto al destino sia degli oppositori, attualmente agli arresti in oscure località, sia dei 44 milioni di abitanti ancora soggiogati dalla fame e dallo stato di guerra permanente.

 

(credit foto EPA/MOHAMMED ABU OBAID)



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