Critica delle forme di vita

È appena uscito “Critica delle forme di vita” di Rahel Jaeggi (Mimesis). Nel libro si affrontano i problemi dati dalla possibilità di criticare le forme di vita in cui siamo immersi senza assumere un punto di vista paternalistico o censorio. Per gentile concessione dei curatori e dell’editore, ne pubblichiamo un estratto composto dalla “Prefazione” e da alcuni brani dell’“Introduzione”.

Rahel Jaeggi

La teoria critica della società ha invece come oggetto gli uomini in quanto produttori di tutte le loro forme di vita storiche. […] Ciò che ogni volta è dato, non dipende solo dalla natura, ma anche da quello che l’uomo è in grado di fare di essa. – Max Horkheimer

Le elezioni al Bundestag, la cerimonia delle Olimpiadi, l’azione di un commando di tiratori scelti, la prima mondiale in un grande teatro, sono considerati eventi pubblici. Fatti di straordinario rilievo pubblico, come l’educazione dei figli, il lavoro in fabbrica, il consumo televisivo all’interno delle mura domestiche, passano come privati. Le reali esperienze sociali degli esseri umani, prodotte nella vita quotidiana e nella produzione, sono trasversali rispetto a questa divisione. – Oskar Negt e Alexander Kluge

Si possono criticare le forme di vita? Si può affermare che esse, in quanto forme di vita, siano buone, riuscite o addirittura razionali? A partire da Kant, si dà per scontato che la felicità o la buona vita, al contrario della vita moralmente giusta, non si lascino definire filosoficamente. E con John Rawls e Jürgen Habermas – forse le due posizioni più influenti della filosofia politica attuale – viene proposto, in riferimento all’irriducibile pluralismo etico delle società moderne, di astenersi dalla discussione filosofica sul contenuto etico delle forme di vita. In questo modo la filosofia si ritrae dalla questione socratica su “come si debba vivere”, limitandosi al problema di come, alla luce della molteplicità di concezioni reciprocamente incompatibili della buona vita, si possa garantire una giusta convivenza in cui diverse forme di vita esistano le une accanto alle altre. L’ordine politico dello Stato costituzionale liberale si presenta perciò come il tentativo di organizzare questa convivenza in maniera neutrale rispetto alle forme di vita. Tuttavia, se non si tratta più di realizzare la giusta forma di vita condivisa, ma di garantire che la coesistenza tra diverse forme di vita sia quanto più possibile scevra da conflitti, le domande sul modo in cui vadano condotte le nostre vite vengono spostate nell’ambito delle preferenze private. Come sulle questioni di gusto, quindi, anche sulle forme di vita non si può più discutere. Le forme di vita divengono un inaccessibile black box e al massimo se ne possono criticare con ragione gli effetti.

Di fatto esistono ragioni evidenti per una posizione di questo genere. Non solo è legittimo dubitare che si possa facilmente raggiungere un accordo tra individui che hanno visioni del mondo e convinzioni etiche fondamentalmente diverse. Inoltre, il desiderio di non “farsi prescrivere” da legislatori (filosofici) della morale il modo in cui progettare la propria esistenza, è una delle componenti imprescindibili della nostra autocoscienza moderna. Perciò può sembrare che il black box liberale sia una delle condizioni di possibilità dell’autodeterminazione moderna e che essa crei per prima lo spazio libero in cui diversi modi di vita possano svilupparsi (o mantenersi) indisturbati.

La presente ricerca prende le mosse dall’ipotesi che in questo assunto ci sia qualcosa di sbagliato, che anzi, per certi versi, le cose stiano esattamente all’opposto. Se abbandoniamo la costituzione interna delle nostre pratiche sociali e forme di vita a una “oscurità extrafilosofica”, secondo l’espressione del filosofo canadese Charles Taylor, corriamo il rischio di accettarle indebitamente come date. In questo modo dichiareremmo frettolosamente come una irrimediabile questione di identità personale qualcosa che possiede “pubblica rilevanza”, sottraendo all’argomentazione razionale aree tematiche che non dovrebbero essere tenute fuori dalla sfera d’influenza dell’autodeterminazione democratica collettiva. Forse l’onere della prova dovrebbe essere invertito: non si può eliminare facilmente dai processi decisionali individuali o collettivi l’interrogativo etico su “come si deve vivere”. A questo interrogativo in qualsiasi formazione sociale è sempre stata data risposta, implicitamente o esplicitamente. Ciò vale anche per la forma di organizzazione sociale che ha adottato il pluralismo delle forme di vita. Ma allora la domanda sulla possibilità di una critica delle forme di vita è, in un certo senso, mal posta. È proprio alla luce, e non malgrado, la situazione delle società moderne – intese come “l’immane potenza che tutto divora” (Hegel) – che la valutazione delle forme di vita non può essere relegata in una riserva di preferenze particolari e di legami ineluttabili.

Ciò diventa particolarmente evidente in situazioni sociali di conflitto e di rivolgimento. Così si verificano circostanze in cui le innovazioni tecnologiche – si pensi all’ingegneria genetica – mettono improvvisamente in questione principi etici fino a quel momento indiscussi. Ma anche il confronto con altre forme di vita può dar luogo a conflitti, crisi e sconvolgimenti della comprensione che abbiamo di noi stessi, in cui i contenuti e gli orientamenti fondamentali delle nostre forme di vita e anche di quelle estranee vengono passati al vaglio e le pratiche sociali consolidate divengono oggetto di discussione. Non occorre pensare necessariamente ai conflitti spesso ipostatizzati in modo erroneo come “scontri di civiltà” né alle crisi dei fondamenti dei nostri sistemi di riferimento morale. Anche discussioni del tutto ordinarie sulla progettazione dello spazio urbano[1], sulle misure di assistenza pubblica all’infanzia[2], sulla cessione al mercato di beni come la salute, l’istruzione e l’abitazione, o sulla cognizione che abbiamo della nostra come di una società fondata sul lavoro, possono essere intese come conflitti sull’integrità e il carattere specifico delle forme di vita.

Una critica delle forme di vita non ha a che fare quindi con questioni “di contorno” sulla buona vita (nel senso di una filosofia di lusso concernente l’arte di vivere), che valga la pena porsi dopo che i problemi fondamentali dell’organizzazione sociale siano stati risolti. Riguarda la costituzione interna di quelle istituzioni e di quelle connessioni sovra-individuali che conferiscono una forma alle nostre vite e all’interno delle quali sorgono in primo luogo le nostre possibilità di azione e progettazione. Se però il progetto della modernità, la pretesa degli individui di “vivere la propria vita”, non consiste solo nella libertà dalle interferenze degli altri, allora questa è la tesi qui sostenuta – la riflessione pubblica e filosofica sulle forme di vita, più che un intervento problematico su questioni residuali dell’identità individuale o collettiva che non devono essere messe in discussione, è la condizione della possibilità di trasformare le proprie condizioni di vita e appropriarsene. La critica delle forme di vita, o meglio: la teoria critica della critica delle forme di vita, come intendo qui concepirla, non va perciò intesa come discorso in favore di una ricaduta nel paternalismo premoderno, ma piuttosto come esame di ciò che può essere interpretato, nella linea tradizionale della teoria critica, come fermento di processi di emancipazione individuale e collettiva.

Una simile prospettiva si differenzia dalla temuta “dittatura etica” anche per il fatto di essere parte di una ricerca il cui punto di partenza non è l’insistenza sull’unica forma di vita giusta, ma piuttosto la comprensione delle molteplici carenze delle nostre come delle altrui forme di vita. Come afferma Hilary Putnam: “Il nostro problema non è quello di dover scegliere tra un numero predefinito di ‘modi di vita ottimi’; il nostro problema è che non ne conosciamo neanche uno[3]. Ma se non conosciamo una sola “forma di vita buona”, dovremmo innanzitutto svilupparla in processi in cui l’idea di “identità immutabili” e le “concezioni del bene” a essa associate si dissolvono. Il confine tra “interno” ed “esterno” di una forma di vita, su cui si basano per certi aspetti le idee della sua immutabilità, diventa così permeabile, come il “noi” collettivo cui facciamo ricorso. Anche la differenza tra conflitti interculturali e intraculturali perde in larga misura importanza. Se si cerca di contrastare la separazione tra interno ed esterno nella prospettiva qui adottata, tra la discussione – interculturale – sui matrimoni combinati e quella – intraculturale – sui matrimoni gay, non ci sarà una differenza categoriale, ma si tratterà al massimo di una questione di sensibilità al contesto specifico. In questo senso, le forme di vita non sono solo oggetti, ma anche il risultato di conflitti.

Il punto di partenza della mia ricerca è l’assunzione che non solo possiamo criticare le forme di vita, ma che dovremmo criticarle (e quindi anche noi stessi nella nostra condotta di vita) e che, implicitamente o esplicitamente, già lo facciamo sempre. Valutare e criticare – e ciò vale particolarmente per le cosiddette “società post-tradizionali” sono parte di ciò che comporta condividere una forma di vita e (al tempo stesso) confrontarsi con altre. L’assunto che indagherò nella presente ricerca è quindi che le forme di vita si possono discutere e che può essere fatto a ragione. Le forme di vita implicano pretese di validità che non si possono “mettere tra parentesi” senza conseguenze, anche se qui non si tratta di ragioni definitive (e in questo senso cogenti). Ciò di cui si tratta, quindi, tramite la questione della loro criticabilità, è anche la specifica razionalità delle forme di vita.

L’oggetto del mio libro è dunque il problema della possibilità di una critica delle forme di vita. Il suo scopo è elaborare e difendere in base ad argomenti una certa concezione della critica, non di fornire la diagnosi di una forma di vita specifica.

Non è un caso che io affronti la questione della riuscita delle forme di vita nella prospettiva della critica. Non intendo occuparmi di progettare in astratto il concetto generale di una forma di vita giusta, a mio avviso questo genere di progetti etici onnicomprensivi non è né auspicabile né fecondo. Piuttosto mi concentrerò, in senso negativo, sugli specifici fallimenti delle forme di vita, sulle crisi che esse attraversano e sui problemi cui possono andare incontro: sugli aspetti quindi in cui “qualcosa non funziona” in esse e in cui si espongono perciò alla critica.

Inoltre, il fatto che qui mi occupi della struttura e della dinamica delle forme di vita (prendendo di conseguenza sul serio il concetto stesso di forma di vita adottato nella discussione), invece di affrontare il problema dal punto di vista della giustificabilità dei valori etici, non è motivato solo dall’uso del linguaggio nell’ambito di una speciale discussione filosofica[4]. La prospettiva del successo delle forme di vita – intese, secondo la mia proposta, come insiemi di pratiche sociali – consente di sviluppare criteri di valutazione che seguano le condizioni normative del successo di queste pratiche.

Il momento della disfunzione o crisi si rivelerà un movente importante di ciò che nel mio progetto sarà definito “critica”. Se la critica delle forme di vita, come intendo qui concepirla, comincia dove sorgono problemi, crisi o conflitti, allora non è condotta da una prospettiva esterna autoritaria ma è, si potrebbe dire, il fermento di un processo in cui critica e autocritica sono reciprocamente intrecciate. La critica a cui tendo, perciò, per delineare i poli rispettivamente contrapposti, non dev’essere né “eticamente astensionista” né paternalistica; non adotta un atteggiamento relativistico sulle pretese di validità delle forme di vita, ma nonostante ciò non deve avere conseguenze antipluralistiche. E alla fine si vedrà che è proprio il fatto che le forme di vita possono essere intese come processi di apprendimento che si sviluppano storicamente e sono dotati di pretese normative a fornirci la chiave per la loro valutazione.

La struttura della mia ricerca è semplice: nell’Introduzione la problematica e la mia impostazione sono sviluppati in contrasto con la posizione opposta, ovvero con le diverse varianti della “astensione etica”. Quindi la Prima parte pone il problema di cosa costituisce una forma di vita, intesa come un insieme di pratiche sociali. La Seconda parte elabora la normatività specifica delle forme di vita e presenta un concetto di forme di vita come insieme di strategie per la risoluzione di problemi. La Terza parte si occupa di forme di critica e sviluppa il concetto di una versione “forte” di critica immanente ispirata dalla critica dell’ideologia. Infine, nella Quarta parte, viene elaborata l’idea di un processo di apprendimento sociale normativo. Così, il problema di quando una forma di vita sia deficitaria o riuscita diventa quello dei criteri del fallimento o della riuscita di un simile processo, in quanto processo di apprendimento razionale.

Introduzione

La mercificazione come problema delle forme di vita

La specificità di una forma di critica che, in questo senso, mira al contenuto intrinseco di una forma di vita, si può forse illustrare al meglio attraverso una delle attuali discussioni già menzionate nella prefazione. La commercializzazione di sfere sempre più ampie di vita, diagnosticata talvolta per le società capitalistiche, è un caso in cui si intersecano diverse dimensioni. Il problema dell’estendersi della logica del mercato a sfere di vita che prima non erano organizzate attraverso il mercato – come ad esempio la sfera della riproduzione umana, ma anche quelle dell’istruzione e della salute – è, per un certo verso, un problema di giustizia. Di solito sono le donne più povere che si fanno assumere come madri surrogate; una salute sottoposta alle logiche di mercato è quasi sempre una salute per due o più classi, così come un sistema educativo organizzato secondo gli imperativi dell’economia di mercato si espone al sospetto di pro- muovere innanzitutto l’auto-riproduzione delle élite.

Il problema della mercificazione solleva d’altra parte anche la questione della “riuscita” di un ordine sociale o del suo “successo” in senso lato. Anche se, in via puramente ipotetica, si potesse correggere il deficit di giustizia delle istituzioni sottoposte al mercato attraverso un’equa distribuzione a livello di base, la cosa non toccherebbe comunque la questione – e tanto meno la risolverebbe se vi siano beni che non dovrebbero essere sottoposti al mercato, a prescindere dalle condizioni di distribuzione. Si tratta in questo caso delle ripercussioni che ha sulla nostra autocomprensione di noi stessi come individui e come società nonché sulla forma e il funzionamento delle nostre pratiche sociali il fatto di intendere determinati beni come merci e di trattarli secondo criteri di efficienza economi- ca. Coloro che intendono il problema in questi termini sottolineano, in un modo o nell’altro, quanto sia inappropriato applicare dei criteri economici ad alcune sfere della vita sociale, sostenendo che la particolare natura di alcuni beni viene stravolta nel momento in cui essi divengono “oggetto di mercimonio” (K. Marx). Ciò che qui è in questione, dunque, è il significato intrinseco delle pratiche in cui prende forma la nostra vita (comune). La discussione investe la diversità qualitativa dei modi in cui ci rapportiamo a noi e alle cose cui attribuiamo valore. Quindi il problema riguarda la costituzione della nostra forma di vita in quanto tale, i beni stessi e non la loro distribuzione entro i confini tracciati da un simile “ordine di apprezzamento” [Wertschätzungsordnung][5].

A questo punto dovrebbe essere chiaro che, dove le forme di vita vengono messe a tema, discusse e criticate in quanto forme di vita, non si tratta solo di stabilire la linea di condotta preferibile all’interno di un quadro dato di scopi per conseguirli, né come vada concepito, all’interno di una cornice prestabilita di orientamenti di valore, il modo più appropriato di realizzarli[6]. Si tratta piuttosto di esaminare quegli scopi stessi, non solo quindi la distribuzione di beni e opportunità di influenza, ma anche la forma che gli stessi beni e le pratiche sociali connesse dovrebbero assumere. Se quindi ciò che viene esaminato non sono solo gli effetti iniqui della mercificazione, ma anche la questione di cosa significhi trattare o meno beni come merci, non solo la distribuzione o la retribuzione appropriata del lavoro ma anche il suo senso, ecco che allora – per ricorrere a un’utile formulazione di George Lohmann – sono i “protovalori” di una forma di vita a diventare oggetto di discussione[7]. A ogni modo, una simile discussione rivela innanzitutto quanto certi modi apparentemente ovvi di stabilire questi “protovalori” siano tutt’altro che ovvi e in che misura siano invece il prodotto di determinate costellazioni (e interessi) storico-sociali. La costituzione interna delle forme di vita diviene quindi oggetto di discussione: la “scatola nera” viene aperta.

La critica delle forme di vita come riflessione sulle condizioni dell’agire

La critica delle forme di vita non mira, quindi, solo a un dominio diverso, ad esempio da quello della teoria della giustizia, ma adotta al tempo stesso una prospettiva differente: non si limita a esaminare oggetti diversi, ma esamina diversamente gli oggetti. Il modo più produttivo per illustrare cosa significhi criticare le forme di vita in quanto forme di vita, è forse il seguente: la critica delle forme di vita non riguarda solo le nostre azioni, quindi che cosa (dobbiamo) fare, ma anche il quadro di riferimento entro il quale agiamo e ci orientiamo. Così i nostri orientamenti normativi, i concetti attraverso cui comprendiamo noi stessi e l’intero armamentario delle pratiche sociali da cui si generano le nostre possibilità d’azione vengono messi a tema in riferimento alla loro forma e qualità interne.

(…) Naturalmente, i quadri di riferimento così descritti non sempre sono pienamente disponibili e non sempre sono facilmente individuabili. Perciò, anche prendere in esame questi quadri di riferimento in quanto tali, rendendoli in tal modo rilevanti e visibili, non è affatto un problema pratico da poco per una critica delle forme di vita. Esempi di quanto una simile scoperta possa essere produttiva sono i classici movimenti di emancipazione sociale come quello di liberazione femminile. Questi movimenti possono essere definiti proprio dal fatto di mostrare che quei quadri di riferimento non sono ovvi, di privarli del carattere di naturalità e di contestarli in diversi modi. Per poter criticare una forma di vita, dobbiamo in primo luogo vedere che concetti come castità, onore e disciplina (e il repertorio di pratiche e idee a essi associate) non sono affatto evidenti o addirittura naturali, ma parte di determinate forme di vita tradizionali. La disputa sulle forme di vita ha quindi l’effetto di cancellare il carattere di naturalità, privando di legittimazione ciò che è apparentemente ovvio.

NOTE

[1] La sociologia della città di Hans Bardt fornisce un quadro estremamente preciso della misura in cui l’esistenza nella (grande) città è sempre stata intesa come forma di vita e come tale è stata al centro di accesi dibattiti cfr. H.P. Bahrdt, Die moderne Großstadt. Soziologische Überlegungen zum Städte- bau, Springer, Hamburg 1969, in part. il cap. 1, “Kritik der Großstadtkritik”.

[2] Uno dei motivi per cui le recenti discussioni in Germania sulla cura dell’infanzia e sulla parità tra i coniugi su questo aspetto sono state così accese, è che le forme tradizionali di vita – che si manifestano nel ruolo subalterno della donna nel matrimonio e nella maternità a tempo pieno – perdono terreno a favore di altre. In effetti, in questo modo, viene codificato legalmente il cambiamento di forma di vita e l’emergere di un nuovo modello familiare (occupazione di entrambi i coniugi con una corrispondente maggiore necessità di istituzioni extrafamiliari di cura dell’infanzia) dal punto di vista economico, ma anche rispetto al riconoscimento pubblico, anche se ci sono buoni motivi per sostenere che si tratta innanzitutto solo di conseguire la parità con i modelli di vita tradizionali.

[3] H. Putnam, Words and Life, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1995, p. 194 (corsivo mio).

[4] Così Habermas parla ripetutamente (anche se con una certa imprecisione) di forme di vita in rapporto alle questioni qui sollevate. Si parla di forme di vita anche nel contesto del dibattito sul relativismo, anche se già Wittgenstein aveva ampiamente fatto ricorso a questo concetto, messo in circolazione dal best seller di Eduard Spranger Lebensformen (1921). Cfr. il suo Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit, Max Niemeyer, Halle/Saale 1921.

[5]    Cfr. la discussione tra Axel Honneth, Rainer Forst e me “Kolonien der Ökonomie”, in POLAR – Zeitschrift für Politik, Theorie und Alltag, n. 2, 2007, pp. 151-160, cfr. anche il mio articolo “Die Zeit der universellen Käuflichkeit”, in ivi, pp. 145-150. Per la più recente discussione filosofica sui limiti del mercato cfr. E. Anderson, Value in Ethics and Economics, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1993; M.J. Radin, Contested Commodities, Harvard Univer- sity Press, Cambridge Mass. 1996 e il mio articolo di sintesi “Der Markt und sein Preis”, in Deutsche Zeitschrift für Philosophie, vol. 47, n. 6, 1999, pp. 987- 1004. Su questo dibattito ora cfr. anche D. Satz, Why Some Things Should Not Be for Sale. The moral limits of markets, Oxford University Press, Oxford 2010.

[6] Questo è, in un certo senso, l’approccio che Michael Walzer ha in mente con la sua teoria delle sfere di giustizia e con la critica della mercificazione fondata su di essa: trattare determinati beni come se fossero in vendita non rientra nella nostra concezione di noi stessi in quanto comunità. Cfr. M. Walzer, Spheres of Justice. A defense of pluralism and equality, Basic Books, New York 1983; tr. it. di G. Rigamonti, Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 2008. Walzer ha avanzato la corrispondente concezione della critica sociale nel suo Interpretation and Social Criticism, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1987; tr. it. di A. Carrino, Interpretazione e critica sociale, Lavoro, Roma 1990.

[7] Cfr. G. Lohmann, “Zwei Konzeptionen von Gerechtigkeit in Marx’ Kapitalismuskritik”, in E. Angehrn (a cura di), Ethik und Marx. Moralkritik und normative Grundlagen der Marxschen Theorie, Hain Verlag bei Athenäum, Königstein 1986, pp. 174-194. Lohmann fa riferimento qui a Cornelius Castoriadis, “Valore, uguaglianza, giustizia, politica: da Marx ad Aristotele e da Aristotele a noi”, in Id., Les Carrefours du labyrinthe, Éditions du Seuil, Paris 1978; tr. it. di M.G. Conti Bicocchi, F. Lapore, Gli incroci del labirinto, Hopefulmonster, Firenze 1989.

 

(credit foto Anjadescartesfire, CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons)



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