L’apocalisse di Cronenberg: “Crimes of the Future” (2022)

Esplorazione filosofica del corpo come realtà ultima, l’ultimo film del geniale regista canadese ci immerge in un universo da incubo.

Fausto Pellecchia

Mutazione, metafora, analogia
L’ultimo film di David Cronenberg, Crimes of the Future, ci immerge in un universo da incubo nel quale l’umanità esperisce i suoi ultimi soprassalti che sono, forse, le scosse del mondo nuovo che sta per arrivare. A seconda del punto di vista, è un mondo in decomposizione o in rapida metamorfosi.

Cronenberg aveva previsto, prima della proiezione del suo film a Cannes, che molti spettatori avrebbero abbandonato la sala; non soltanto perché per vedere la sua performance cinematografica bisogna avere un cuore ben saldo (o al contrario, distaccato, disincantato, scollegato), ma anche perché, a Cannes, come Cronenberg ha dichiarato, non ci si confronta con un vero pubblico di cinefili, bensì, in gran parte, con personaggi da tappeto rosso, attratti dal glamour del festival e non certo stimolati da un interesse metafisico. Tra questi spettatori scontenti, si possono individuare due categorie, talvolta combinate l’una con l’altra: quelli che si sono ammalati per il film e quelli che hanno trovato il film – e soprattutto il suo regista – propriamente malato.

Cronenberg parte infatti da una doppia constatazione. In primo luogo, si afferma che il mondo è malato. La mutazione è generalizzata: i corpi producono tumori di origine sconosciuta, probabilmente industriale, dei quali nessuno conosce il decorso e l’esito. I bambini nascono già perfettamente adattati a questo nuovo mondo, in grado di ingerire e digerire plastica. Infatti, nella prima scena del film, un bambino su una spiaggia desolata viene ansiosamente ripreso dalla madre che cerca di impedirgli di mangiare i residui degli oggetti semisepolti dalla sabbia. Ma poco dopo lo stesso bambino, seduto da solo in bagno, stacca a morsi un cestino di plastica come fosse una succulenta pietanza. Vi si delinea l’analogia metanarrativa con gli spettatori del film. Gli abitanti del mondo nuovo si dividono in coloro che resistono alla mutazione (la madre) e in quelli che preferiscono immergervisi deliberatamente (il bambino): ci sono, pertanto, spettatori che abbandonano la sala e quelli che accettano di guardare il film fino in fondo.

In secondo luogo, si sostiene che voi spettatori, sia che abbandoniate la sala sia che vi restiate, fate comunque parte di questo mondo e se non siete ancora malati, certamente finirete per esserlo. Non si tratta di una finzione fantascientifica, bensì piuttosto di una metafora della condizione umana, tormentata dalla mortalità e dalla vecchiaia.

Nel 1677, Spinoza nella sua Etica (Parte II, prop.2, scolio) scrive: «Nessuno, infatti, ha sinora determinato che cosa possa il Corpo, cioè l’esperienza sinora non ha insegnato a nessuno che cosa, per le sole leggi della natura considerata solo in quanto corporea, il Corpo possa e che cosa non possa, se non sia determinato dalla Mente». Nel 2022, sembrerebbe che nulla sia cambiato, sicché questa frase calzerebbe come un guanto (ma un guanto rovesciato) al lavoro di Cronenberg in generale e a questo film in particolare, che si presenta come l’ultimo in ogni senso: il documento di un’umanità che sta oltrepassando i limiti della propria specie, avendo varcato il confine che separava l’organico dall’inorganico, il biologico dai suoi sostituti chimico-meccanici.

Crimes of the Future, che solo nel titolo sembra alludere a un plot poliziesco, è in verità un’esplorazione filosofica del corpo come realtà ultima, la sola che tutti noi dobbiamo condividere. Come in Spinoza, «il Corpo per le sole leggi della sua natura, può molte cose che suscitano la meraviglia della sua Mente». (Ibidem). Nel singolare, bizzarro spinozismo del suo programma, il film esplora in maniera sistematica e fino all’estremo le possibilità del corpo, ivi comprese quelle patologiche, e provoca stupore, nel senso etimologico del termine. Folgorazione, disgusto, sublimazione.

La “bellezza interiore” del corpo
Hitchcock, durante le sue conversazioni con Truffaut, diceva di filmare tutte le scene d’amore come fossero scene delittuose e, inversamente, tutte le scene delittuose come scene d’amore. Analogamente, in Cronenberg «la chirurgia è il nuovo sesso» e l’antiquata gestualità del bacio cinematografico si è trasformata in esplorazione anatomica con il bisturi della “bellezza interiore”.

«Quello che c’è di più profondo nell’uomo è la pelle», diceva Paul Valéry. L’imballaggio viene prima, la profondità segue, come l’intendenza. Ciò significa che ogni pelle è destinata a essere penetrata, ritagliata, sottoposta in vita a una indagine autoptica, per rivelare, come in Baudelaire, i fiori organici del male. Jean-Paul Sartre, che per sua stessa ammissione era un profondo conoscitore della bruttezza, già immaginava che, per un anatomista degno di questo nome, bisognava avere degli organi ben fatti, così come ci sono dei bei seni o delle belle natiche: l’interno di un corpo doveva poter essere oggetto di una valutazione estetica al pari del suo involucro esteriore.

Cronenberg ha sempre fatto uso della metafora in forma diretta, proposta come un’esperienza da vivere per procura e anticipata sullo schermo. Il personaggio di Saul Tenser (Viggo Mortensen) rappresenta perciò un body artist, assistito da una chirurga pentita di nome Capriccio (Lea Sydoux) che coltiva con la più grande cura i nuovi organi spontaneamente prodotti dal suo corpo, debitamente inventariati in un ufficio segreto, incaricato di seguire i “nuovi vizi” che, nel linguaggio amministrativo, si potrebbero tradurre con “nuovi crimini” o, in linguaggio biologico, con “nuove funzioni”. Del resto, in Crimes of the Future ogni dettaglio viene esposto con glaciale rigore in un’immagine digitale tutta a fuoco, spesso sovra-illuminata, dove non ci sono ombre né zone grigie. Per questo, infatti, nel disincanto apocalittico che presiede all’archivio di questo “ministero degli interni” (termine da prendere alla lettera) tipico del body-horror, si evita accuratamente di usare parole come “evoluzione”, “mutazione”, “tumori”, “cancro”. Sta qui il nocciolo della sua suprema ironia: che si sia artisti o no, si muore sempre per un eccesso di creatività del proprio corpo.

Un’altra fine, oltre l’eutanasia
Ma davvero il corpo che produce un tumore può essere detto attivo o artistico? Saremmo noi tutti capaci di comporre opere d’arte nostro malgrado? No, questo non basta. Creare non equivale a subire. Come dimostra Spinoza, non c’è gioia se non quando siamo attivi. La questione che pone Cronenberg come uomo e come artista è: come rimanere attivi quando non si sceglie più nulla di ciò che ci accade? Quando il nostro corpo diviene incapace di nutrirsi, di muoversi, di difendersi, quando ha paura di tutto, quando non fa altro che subire: analisi cliniche, ospedalizzazioni, chemioterapie, operazioni chirurgiche. Che si può fare quando si invecchia, cioè quando il nostro corpo comincia a sottrarsi al nostro controllo e a fare ciò che vuole, a fare la guerra con la Mente che pensava di guidarlo o, per parlare come Spinoza, di “determinarlo”?

Non resta altra scelta che l’umorismo. Cronenberg, ateo fin in fondo, propone una conversione dello sguardo. Umorismo radicale, folle, estremo; e se invece di considerarci vittime della nostra realtà organica, invece di subire la morte, noi la rivendicassimo come opera nostra, come il nostro “crimine futuro”? Se, invece di parlare di malattia, approfittassimo dell’esperienza per ammirare ciò di cui è capace il nostro corpo? In questo universo dagli affetti rovesciati, popolato da un arsenale di oggetti macchinici, tra lettini ambulatoriali usciti dal Pasto nudo (1991) di William Burroughs, sarcofaghi artistici e tavole di dissezione autoptica, attrezzate come una navicella spaziale, provenienti da Alien (1979) di Ridley Scott, non c’è vero piacere se non del dolore, proprio perché il dolore soltanto costituisce un autentico evento. Il corpo di Saul Tenser perpetuamente teso non è altro che sofferenza, ma è una sofferenza volontaria in un universo in cui tutto è, al contrario, destinato ad anestetizzare il dolore. Questo cambia tutto. Il corpo ridiventa finalmente soggetto di una prestazione. È meglio o peggio? – domanda l’amante-chirurga al suo deforme body artist quando questi constata che il centro del suo dolore si è incomprensibilmente spostato. Né l’una né l’altra cosa: è puramente “differente”.

Sta qui il genio di Cronenberg: nel proporci, ancora una volta, qualcosa di differente in un mondo malato della sua uniformità, un’esperienza-limite tra individui consenzienti. Non si tratta di torturare lo spettatore entrando in conflitto con le istanze difensive del suo corpo, ma di proporgli un contratto morale unico che potrebbe formularsi così: “Andiamo troppo oltre ma insieme”. Ed è vero che “nessuno ha sinora determinato che cosa possa uno spettatore”.



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