La Lezione della memoria, anche per il Quirinale

Mauro Barberis

La Settimana della Memoria, che inizia oggi e culmina con il Giorno della Memoria, venerdì 28 gennaio, serve a due scopi. Il primo è ricordare i nostri morti: un rito, certo, ma uno dei pochi che distinguono gli umani dalle bestie. Quelli che ancora fingono di stupirsi – perché mai insistere a rievocare cose accadute ottant’anni fa? – o sono in malafede oppure s’illudono che il passato non ritorni. Non è così. Hitler, oggi, spopolerebbe sui social: benché “spopolare”, nel suo caso, suoni vagamente sinistro. La retorica di Mussolini, limata qua e là dallo spin doctor di turno, farebbe ancora la sua bella figura. E non parliamo dei baffoni di Stalin: bucherebbero il video.

Sapete qual è l’unica ragione che ci preserva dal ritorno di quel passato? La Memoria. Sinché dura il ricordo dei deportati, dei torturati, degli sterminati, saremo immunizzati dall’orrore: un minuto dopo, non lo saremo più. Ad esempio, quest’anno corre l’ottantesimo anniversario della conferenza di Wannsee dove, in una villa elegante con vista sul lago, quindici-gerarchi-quindici, nelle loro uniformi impeccabili, ratificarono in circa un’ora e mezza la Soluzione Finale del Problema Ebraico: altro che le maratone notturne del nostro Consiglio dei Ministri. Adolf Eichmann teneva il verbale, come il segretario di un’assemblea di condominio.

Deborah Lipstadt, la storica che nel 2000 svergognò in tribunale il negazionista David Irving, ha mostrato che la decisione era stata già presa, da Hitler e dalla cupola del regime. Un’altra storica del nazifascismo, Heidemarie Uhl, ha rintracciato gli annunci dello sterminio in micro-eventi precedenti: una requisizione di beni qua, un pogrom là. David Bidussa, ieri al Ducale, ci ha raccontato che il regime avrebbe potuto limitarsi a deportare gli ebrei a est ma, dopo l’intervento americano che rendeva improbabile la vittoria nazista, decise di puntare sulla Soluzione Finale: nell’indifferenza totale dei tedeschi, ma anche degli italiani, come ci ha ricordato Liliana Segre.

Il Giorno e la Settimana della Memoria, in effetti, servono anche a un secondo scopo, che quanto più la Shoah si allontanerà, tanto più diventerà preponderante. Si tratta di monitorare continuamente, giorno dopo giorno, anno dopo anno, il progresso o il regresso della nostra coscienza civile. I volenterosi carnefici di Hitler – tutti i tedeschi, ma in prospettiva tutti gli umani – potevano fingere di non vedere. Noi no. Le condizioni della comunicazione sono così cambiate che le varie Auschwitz grandi e piccole, in giro per il mondo, ormai accadono sotto i nostri occhi.

Sappiamo tutto: l’internamento dei tossicodipendenti in Afghanistan, le torture nelle carceri russe, o l’incivile sovraffollamento delle nostre, denunciato dalle varie aperture dell’anno giudiziario. Quando le violenze, le sopraffazioni, gli stupri ci sfiorano, com’è accaduto per lo scandalo di Primavalle, torniamo volenterosi carnefici pure noi: non vediamo, non sentiamo, non sappiamo. Preferiamo appassionarci alle telenovele, come l’elezione del Presidente della Repubblica che quest’anno, per una strana coincidenza, càpita proprio nella Settimana della Memoria.

Viene da proporre un test inedito, fra i tanti già proposti, per scegliere il prossimo Presidente. Non la pregiudiziale antifascista, per carità: roba da Prima Repubblica, ormai. Molto meno: una conoscenza elementare della storia; la capacità di mostrare sensibilità morale; l’attenzione costante per i diritti umani.



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