Oltre la Dad: quale futuro per la didattica digitale nella scuola italiana?

Nonostante le ferite lasciate aperte dall’impreparazione alle attività didattiche in remoto, l’insegnamento deve adeguarsi al cambiamento dei linguaggi e dei comportamenti cognitivi, imparando ad animare gli spazi di un immaginario che si compone anche dentro e attraverso la Rete.

Carlo Scognamiglio

L’anno scolastico 2021/22 è stato finora caratterizzato da due fenomeni assai peculiari, che offrono l’occasione per guardare fino in fondo alcune dinamiche antropologiche innescate dall’impatto della pandemia sulla condizione della scuola italiana.

Il primo aspetto è immediatamente riconducibile all’atteggiamento governativo. Non meramente ministeriale, ma proprio governativo, dal momento che il premier Mario Draghi si è esposto più volte e in modo esplicito su un punto in particolare: una sorta di sistematico respingimento di ogni possibile reintroduzione della DaD, anche in misura parziale, fatta eccezione per i casi estremi di isolamento riconducibili al contagio. Non è difficile ritrovare in Rete dichiarazioni di fonte governativa in cui viene reiterato il refrain: “mai più DaD”.

Da dove deriva questa generale repulsione per qualunque riemersione di attività didattiche in remoto, quando per circa due anni se ne erano celebrate in modo iperbolico le virtù? Il ribaltamento prospettico e propagandistico suscita certamente qualche perplessità. Sicuramente l’esperienza dell’improvvisazione coatta di una didattica a distanza determinata dall’emergenza pandemica ha fatto emergere una serie di criticità profonde, che hanno colto il sistema scolastico, come quello sanitario, del resto, fortemente impreparato. Oltre agli strutturali problemi nazionali relativi al divario digitale, alle deboli connessioni di Rete, a una discutibile gestione dei fondi per la formazione del personale in termini di didattica digitale e una spesso infruttuosa scelta delle figure di animatore digitale nei singoli istituti (nonché una grave lacuna dovuta all’assenza di una piattaforma digitale ministeriale), si sono manifestati in questi due anni gravi problemi di affaticamento psicologico tra gli alunni e tra il personale scolastico. E questo è un primo aspetto del problema. Inoltre, i risultati di apprendimento sono stati salvati in pochi casi, limitatamente a quei contesti nei quali il nucleo familiare di appartenenza ha potuto dare supporto alla DaD e integrare il lavoro scolastico mutilato, che essa ha determinato. Con ciò non si vuole occultare lo straordinario lavoro di autoformazione e motivazione che il personale della scuola, nella sua globalità, ha coralmente attivato in piena pandemia, probabilmente prima e meglio di quanto abbiano fatto i colleghi degli altri paesi europei. Ma c’è una consapevolezza di fondo: i problemi che avevamo ieri, sono ancora tutti sul tavolo, perché poco è stato fatto per risolverli e affrontarli sul serio. Ed è sostanzialmente per questo che si ha paura di ritornare a parlare di DaD.

Se oggi ci trovassimo di fronte a una variante del virus molto più aggressiva e fossimo costretti a tornare in situazione di lockdown (il che, purtroppo, non è impossibile che accada già al rientro dalle festività natalizie), non vivremmo un’esperienza molto diversa di quella della primavera 2020, e – come rivelato da una recente inchiesta di skuola.net – ancora oggi 4 studenti su 10 non sarebbero in grado di seguire in maniera costante e adeguata un’attività didattica sincrona, con un segnale audio-video efficace. Ma non abbiamo bisogno di una simile indagine. Chiunque di noi, collegato online a una delle ormai innumerevoli (e spesso inutili) riunioni di lavoro a distanza, spesso e volentieri incontra problemi analoghi, che certamente non favoriscono concentrazione e motivazione.

Da questo punto di vista, la didattica sincrona è di per sé poco inclusiva, anzi: è tecnicamente escludente, e tendenzialmente classista. La ferita più profonda, dunque, sta nel non aver voluto o saputo sperimentare – in molte realtà scolastiche – modalità di didattica asincrona. La connessione diretta, nelle attività a distanza, dovrebbe essere mantenuta soltanto per pochi momenti e per la cura della relazione, ma in una situazione di emergenza e insegnamento a distanza, gran parte delle attività dovrebbero essere progettate e svolte con una tecnica di lavoro basata sui pochi mezzi e su connessioni deboli. Solo questo approccio potrebbe risultare paritario, accogliente e realmente inclusivo. La tecnologia oggi disponibile consentirebbe comunque un tipo di flessibilità tale da rendere possibile a un singolo docente di restare in linea con uno o pochi studenti, mentre altri svolgono un’azione programmata per un lavoro asincrono. Ma una vera riflessione didattica e pedagogica sulle modalità d’apprendimento secondo questo schema non sono state avviate.

Ecco perché dobbiamo evitare a tutti i costi la DaD, perché anche e soprattutto sul piano didattico eravamo e restiamo impreparati. Sappiamo usare Classroom o Zoom, ma non basta saper suonare gli accordi per fare della buona musica, e testardamente continuiamo a confondere la “didattica digitale” con il know how tecnologico.

Il grande rovello su cui l’insegnamento si è impantanato nell’era del digitale precede la DaD, ma da questa esperienza è stato clamorosamente amplificato, e si può riassumere attraverso la formulazione di un dilemma: posto che – come si può agevolmente dimostrare – l’immersione nella sfera dell’iperconnettività ha modificato e sta modificando il sistema cognitivo, comportamentale, simbolico e complessivamente antropologico di alcuni segmenti della nostra società, e specialmente tra le giovani generazioni, come si deve porre la scuola rispetto a questi cambiamenti? Deve opporre resistenza e tentare di preservare la funzione di elemento forte della trasmissione culturale con gli strumenti consolidati da secoli di sperimentazione didattica, oppure deve adeguarsi al cambiamento dei linguaggi e dei comportamenti cognitivi? Si possono formulare numerosi esempi in proposito. Se i tempi di attenzione si sono ridotti, la didattica deve consentire ai più giovani di costruire strumenti attentivi robusti, in modo da sottrarsi alla frammentazione dei processi cognitivi, oppure deve sfruttare l’iper-stimolazione arricchendo la propria azione con la lezione segmentata e la multimedialità? Se si è indebolita la capacità d’astrazione, bisogna insistere sul libro cartaceo, strumento certamente “forte” nell’esercizio della capacità d’astrazione, o bisogna adeguare la proposta didattica con una valorizzazione dell’iconografia? E inoltre: se il pensiero ondivago tende a sostituire le gerarchizzazioni concettuali, bisogna insistere sulla valorizzazione dei processi logico-deduttivi, oppure cavalcare l’imprevedibile dimensione reticolare dell’apprendimento?

Fin troppo facile la risposta: la verità è che bisogna saper fare entrambe le cose. Diventa indispensabile infatti evitare che un’accelerazione tecnologica così invasiva rispetto all’immaginario, sia completamente dominata dalle logiche di consumo, e quindi sempre superficiale e frenetica. Ma al tempo stesso è indispensabile abitare il mondo dell’iperconnettività per decifrarne i simboli, per muoversi in esso con destrezza. Ecco che quindi la didattica digitale dovrebbe privilegiare tutti quegli strumenti operativi che abbiano in sé due caratteristiche cruciali: l’attitudine ad “aggregare”, a “organizzare” la conoscenza, perché lo studente possa raccogliere in modo significativo e sistematico i saperi attinti dalle fonti più complesse, ma al tempo stesso le attività proposte devono essere potentemente creative. E quindi – accanto all’intramontabile tecnologia del libro cartaceo e all’irrinunciabile canale della voce umana – si potrebbero sostenere attività formative mediate da software come Padlet o Picktochart, ma anche attività di video-making, o realizzazione di podcast, capaci di integrare in modo naturale l’analogico e il digitale.

E qui veniamo al secondo aspetto su cui il 2021 ci ha aperto una finestra interessante. Nella narrazione comune le giovani generazioni avrebbero perso il contatto con la fisicità e, colpevole la DaD, sarebbero completamente catturate dalla dimensione virtuale. Premesso che ormai la separazione tra reale e virtuale appare piuttosto forzata, occorre sottolineare che nell’autunno del 2021 abbiamo assistito a una sorprendente moltiplicazione delle occupazioni degli istituti scolastici, e a una considerevole ripresa del movimento studentesco. Pur avendo destato giustamente la preoccupata e contrariata reazione di docenti, dirigenti e in generale del mondo degli adulti, per l’interruzione del servizio educativo (ma in questa fase anche e soprattutto per i connessi rischi in relazione alla moltiplicazione dei contagi), non si può non registrare una tendenza rinnovata, da diversi anni assopita, alla riconquista di una socialità basata sulla prossimità dei corpi. E questo ci deve ricordare quanto le giovani generazioni abbiano ancora bisogno, e la pretendano, di una relazione di vicinanza, una comunicazione ricca, completa, bidirezionale. Ne manifestavano la necessità nei decenni scorsi, ne tornano a esigere le possibilità oggi, purtroppo mettendo a rischio l’intera collettività, e favorendo in modo sciagurato il diffondersi dei contagi.

La dimensione relazionale è inscindibile dal concetto stesso di rapporto educativo, e su questo la DaD ha lasciato aperte parecchie ferite. Ci sarebbe anche da riflettere su quanta reale prossimità fosse riconoscibile nella didattica-in-presenza dell’era pre-covid. Gli insegnanti sapevano e sanno davvero relazionarsi con gli studenti? Da cosa sono caratterizzate le loro reazioni alle loro condotte? Quali sono i loro “bias”? Uno degli aspetti interessanti che la DaD ha disvelato, è il ribaltamento del rapporto di potere studente-docente. Se lo studente può spegnere la telecamera in qualsiasi momento per sottrarsi a una verifica o a una qualsiasi attività, può addurre come scusa un disturbo nella connessione senza con ciò incorrere in sanzioni: ne ricaverà certamente uno svantaggio in termini di apprendimento, ma come nella dialettica hegeliana del servo-padrone, prenderà coscienza del proprio potere: senza lo studente, non esiste nemmeno l’insegnante. Se lo studente scompare, l’insegnante parla da solo. Perché è interessante questa banale scoperta? Perché durante la DaD gli insegnanti abituati a esercitare un potere basato solo (o quasi) sul “controllo”, hanno perso ogni strumento di lavoro, e sono stati costretti a ripensarsi e a lavorare sugli elementi motivazionali. Non tutti hanno ritenuto di doverlo fare, e alcuni hanno utilizzato in modo ritorsivo la valutazione relativa alla condotta, senza veramente interrogarsi sulle ragioni per le quali uno studente si sottrae al confronto.

Tra le eredità della DaD, c’è dunque anche un ripensamento complessivo delle relazioni nel contesto educativo, che non sono virtualizzate o digitalizzate. Dal mondo studentesco emerge prepotentemente la richiesta di una relazione basata sulla presenza fisica. Al tempo stesso, tutto ciò che i loro corpi mettono in campo, viene sistematicamente fotografato, ripreso e condiviso, in una costruzione parallela di scambi nell’immaginario. E questo è un aspetto interessante, che pure deve orientare la progettazione didattica del futuro (oltre a un’adeguata formazione in merito per gli insegnanti): non è vero che le relazioni digitali non sono relazioni affettive. Non è vero che i rapporti virtuali sono sempre superficiali. È invece innegabile la potenzialità dei social network di diventare un importante moltiplicatore di capitale relazionale. Il problema è che le agenzie educative non li sanno usare in modo intelligente. La prospettiva è dunque duplice: da un lato avremo bisogno di restituire spazi sociali, anche liberati dal controllo dei software ma, oltre a ciò, dovremo imparare – e insegnare – ad animare gli spazi di un immaginario che si compone anche dentro e attraverso la Rete.

 

(credit foto ANSA/ ANDREA FASANI)



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