Debito pubblico e sovranità monetaria: perché l’Italia rischia il default

Che il presidente Draghi dichiari che è il momento di non preoccuparsi del debito pubblico è in parte una buona notizia. Ma finché non recupereremo sovranità monetaria prima o dopo i mercati chiederanno il conto.

Enrico Grazzini

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato nella conferenza stampa del 25 marzo che “questo non è il momento di preoccuparsi per il debito pubblico”. Per alcuni aspetti questa affermazione è più che giusta: l’aumento della spesa pubblica è infatti indispensabile per contrastare l’emergenza sanitaria; e senza fare nuovo debito la povertà, i fallimenti e la disoccupazione dilagherebbero senza limiti e la pesantissima recessione italiana sarebbe ancora più grave. Ma per molti altri aspetti l’affermazione di Draghi è invece pericolosa e  sbagliata: ormai il debito pubblico italiano in euro è arrivato al 160% del prodotto interno lordo ed è molto probabile che senza una svolta decisa di 180 gradi diventi ingestibile. In Italia si sta diffondendo (anche presso gli economisti e i politici più progressisti e illuminati) l’idea illusoria e dannosa che il debito pubblico conti poco perché “tanto la BCE e l’Europa ci proteggeranno” e perché grazie al Next Generation EU da 750 miliardi di euro l’economia europea e italiana riprenderà a correre. È un grave errore. Prima o poi i mercati faranno pagare all’Italia il conto del debito.

Solo qualche tempo fa il presidente del parlamento europeo David Sassoli ha proposto la cancellazione dei debiti in pancia alla BCE, una proposta avanzata anche da diversi economisti, tra cui Thomas Piketty, Gaël Giraud, Leonardo Becchetti e Riccardo Realfonzo, che hanno sottoscritto l’appello “Cancelliamo il debito detenuto dalla Bce e torniamo padroni del nostro destino”. Ma Christine Lagarde e tutto l’establishment dell’Unione Europea, in nome di astratti criteri di legalità europea, hanno fatto e stanno facendo muro all’unica proposta che potrebbe salvare i bilanci dei Paesi più fragili senza danno per nessuno, anzi con grande gratificazione dei mercati. Se infatti i debiti in pancia alla Bce – e che la Bce continua a rifinanziare – venissero definitivamente cancellati gli investitori finanziari verrebbero rassicurati sulla sostenibilità dei debiti pubblici. Se invece non verranno rimossi, l’Italia prima o poi precipiterà definitivamente nella crisi e allora è probabile che sarà costretta a chiedere in ginocchio al famigerato Mes (il cosiddetto fondo salvastati a guida tedesca) di essere “salvata”. La prospettiva che il nostro Paese venga commissariato da Germania, Francia, Olanda e sottoposto a una “cura greca” non è né improbabile né lontana. Quindi il debito conta, anche se Draghi minimizza.

Contro la crisi la presidente della Banca Centrale Europea di Christine Lagarde sta attuando una manovra monetaria espansiva per trilioni di euro e sta prestando soldi alle banche con tassi di interesse pari a zero o addirittura negativi, con la motivazione ufficiale di cercare di portare l’inflazione al 2%, come da suo statuto. La Bce cerca così di contrastare la deriva deflazionistica europea. Il pericolo imminente è però costituito dalla possibile ripresa dell’inflazione globale e quindi dal conseguente aumento dei tassi di interesse. Anche un economista non particolarmente fine può capire che il debito pubblico italiano non sarebbe più sostenibile se la Bce dovesse restringere la base monetaria e aumentare i tassi di interesse per frenare l’inflazione. E l’Europa non ci può salvare neppure con il Next Generation EU, l’ultimo salvagente al quale si sono aggrappati i governi Draghi e quello passato di Giuseppe Conte per non affogare nel mare dei debiti e della crisi. Ma il salvagente europeo, pur prevedendo per l’Italia circa 209 miliardi da investire nei prossimi anni, appare sempre di più floscio e insufficiente

Un recente e accurato studio econometrico intitolato “L’efficacia del Next Generation EU per la ripresa dell’economia italiana” di Rosa Canelli, Giuseppe Fontana, Riccardo Realfonzo, Marco Veronese Passarella apparso su EconomiaePolitica, dimostra che “l’impatto espansivo indotto dal NGEU non sarà sufficiente a stimolare la ripresa dell’economia italiana. Nel dettaglio, si stima che tali misure non porteranno né le finanze pubbliche, né il pil, né l’occupazione ai livelli pre-Covid-19, con conseguenze in termini di insostenibilità del debito sovrano nel lungo termine”.

Peraltro, anche se riuscissimo a raggiungere il livello di pil di prima della crisi già nel 2022, che sarebbe lo scenario migliore, il nostro debito sarebbe certamente molto più elevato del precedente, intorno al 160% e oltre. Saremo sempre esposti al rischio e prima o poi, in un momento impossibile da prevedersi, quando la Bce non potrà o non vorrà più sostenerci, i mercati finanziari ci imporranno la resa dei conti. Allora forse scopriremo (e speriamo che non sia troppo tardi!) il valore strategico e centrale della sovranità monetaria per la sostenibilità dello Stato e della democrazia.

È bene essere chiari: siamo Bce-dipendenti. Senza la Bce il nostro Paese fallirebbe subito. In pratica l’Eurosistema finanzia con trilioni di euro le banche private che nel 2020 hanno coperto buona parte delle nuove emissioni di debito pubblico dell’eurozona, e poi riacquista da queste stesse banche i titoli di debito dei Paesi dell’euro. Con questo meccanismo la Bce aggira il divieto assoluto (assurdo e pazzesco) di finanziare direttamente gli Stati membri, sancito dall’articolo 123 del Trattato Europeo. L’Eurosistema ha accumulato così nel suo bilancio un quinto dei debiti pubblici dell’eurozona. In Italia si tratta di circa 550 mdi su 2600 mdi di debito totale. Ma non è detto che la Bce possa e voglia continuare a garantire il debito italiano facendoci pagare tassi di interesse vicini allo zero: in particolare non potrà più farlo se l’inflazione ripartirà. Cioè paradossalmente se ripartirà l’economia globale. Con la ripresa dell’economia internazionale l’Italia potrebbe incredibilmente fallire.

Infatti inflazione e ripresa economia sono strettamente collegati: l’una spinge l’altra. E dall’inizio dell’anno l’inflazione sembra essere già ripartita a causa principalmente di due fattori: l’accelerazione dell’economia cinese (stima: +8%) e lo stimolo grandioso da 1,9 trilioni di dollari voluto dal nuovo Presidente Joe Biden negli Usa che aumenterà l’inflazione americana di oltre il 3,5% e farà ripartire l’economia Usa (stima +6%). L’economia cinese e quella americana si stanno rilanciando alla grande e stanno trainando l’aumento dei prezzi del petrolio, delle materie prime e dei metalli. Insomma la ripresa dell’inflazione – dopo anni di stasi dei prezzi e dopo la depressione economica del coronavirus – potrebbe finalmente avverarsi.

Non a caso il mercato obbligazionario sta già cominciando ad anticipare la possibile reflazione e l’eventuale conseguente aumento dei tassi di interesse delle banche centrali – Fed in testa –. I mercati obbligazionari mondiali scommettono sull’inflazione: da qualche settimana si assiste alla corsa a vendere i titoli a tasso fisso – come anche i titoli di Stato – che verranno svalutati se i tassi di interesse centrali aumenteranno. I prezzi delle obbligazioni calano e così i rendimenti salgono. Ovvero i debiti costano sempre di più.

Il problema è che l’eurozona non sta uscendo dalla crisi: la Commissione Ue non è stata capace di affrontare le multinazionali del Big Pharma, i vaccini mancano, i lockdown proseguono: così l’economia europea non riparte. Siamo molto indietro rispetto a Usa e Cina. Nell’eurozona il rischio è che aumenti l’inflazione a causa dell’incremento dei costi delle materie prime ma senza un parallelo e proporzionale incremento dell’economia. Se però l’inflazione, bloccata nel 2020 intorno all’1% circa, si avvicinasse alla soglia del 2%, allora la Bce sarebbe comunque costretta a aumentare i tassi di interesse per mantenere il suo stupido impegno istituzionale anti-inflazionistico che si è dato da sempre. Ma questo frenerebbe definitivamente l’economia europea già in ritardo sul piano competitivo rispetto alla Cina e agli Usa.

Allora si verificherebbe la caduta immediata e verticale dei prezzi dei titoli di debito, tra cui quelli italiani; lo spread potrebbe salire a livelli difficilmente sostenibili e l’Italia – con un livello di debito già troppo elevato – potrebbe gettare la spugna.

Quindi l’affermazione di Draghi è falsa: il debito pubblico conta eccome! Il motivo è semplice, anche se Draghi non lo può dire: l’euro è una moneta fondata sulla assoluta libertà dei mercati finanziari e sulla speculazione di mercato. L’Italia e gli Stati dell’euro dipendono dai mercati e dagli investitori finanziari che sono i veri padroni della moneta, e a cui l’Italia versa ogni anno un tributo di decine di miliardi solo per pagare gli interessi sul debito.

Il problema centrale e strategico è che il nostro debito pubblico è denominato in una moneta che non controlliamo cioè l’euro, che è gestito da un organismo che non controlliamo, cioè la Bce. La BCE oggi è generosa – perché altrimenti l’euro si romperebbe – ma domani potrebbe non esserlo. È quindi necessario ricordare una grande verità completamente rimossa dal discorso pubblico: l’euro per noi è una moneta straniera, e noi siamo indebitati in una moneta che non possiamo gestire, un po’ come il dollaro per l’Argentina. Per questo motivo l’Italia  è sempre a rischio.

Al contrario uno Stato con moneta sovrana non potrà mai restare a corto di moneta, al limite ne potrà stampare troppa. Il Giappone per esempio ha un debito pubblico stratosferico pari al 250% del suo pil. Ma nessun finanziere pensa che il Giappone possa fallire: infatti può sempre stampare yen in modo da restituire tutti i debiti. E lo stesso possono fare anche altri Stati più piccoli, come la Corea del Sud o Israele, o la Svezia. Chi ha sovranità monetaria non può mai fallire per i debiti denominati nella propria moneta. Casomai, se una banca centrale stampa troppa moneta, allora essa si svaluta e quindi le importazioni costeranno di più (e le esportazioni di meno). L’Italia invece può fallire proprio perché ha ceduto la sua sovranità monetaria. Spesso anche gli economisti keynesiani e progressisti dimenticano una verità fondamentale: per uno Stato democratico la sovranità monetaria non è una opzione ma un elemento essenziale e indispensabile per gestire la spesa pubblica, orientare lo sviluppo e procurare il benessere della società. Senza sovranità monetaria non c’è democrazia.

Il fallimento dell’Italia non è però un destino fatale e inevitabile: se l’Italia riuscisse a far fruttare bene i 200 miliardi che investirà nei prossimi anni con il Next Generation EU allora l’aumento del pil e dei gettiti fiscali potrebbe superare l’aumento del costo del debito. L’Europa ha inaugurato il NGEU per superare la crisi del coronavirus: ma, di fronte alla terza ondata epidemica che avanza per mancanza di vaccini, il piano da 750 miliardi di euro è diventato “troppo poco è troppo tardi” ed è soggetto a forti condizionalità da parte della Commissione Ue, quindi difficilmente riuscirà a fare ripartire l’economia.

La ricerca prima citata si conclude con l’affermazione che solo “un’espansione del 25% dei fondi del NGEU, interamente finanziati dalla BCE e interamente spesi dal governo italiano potrebbe risollevare l’economia italiana e le finanze pubbliche”. Ma, dal momento che è praticamente impossibile che il NGEU venga rifinanziato per il 25% dalla Ue, occorre ricorrere a misure straordinarie alternative.

Per uscire dalla crisi spaventosa in cui siamo e riacquistare sovranità monetaria senza però uscire dall’euro – l’Italexit provocherebbe infatti una nuova crisi spaventosa – ci sono solo due strade: la cancellazione del debito nella pancia della Bce da parte della Bce stessa, o l’emissione da parte del governo italiano di titoli di sconto fiscale convertibili in euro e la loro distribuzione gratuita presso le famiglie, le imprese e gli enti pubblici. Con i titoli di sconto fiscale recupereremmo di fatto sovranità monetaria senza uscire dall’euro e senza fare nuovo deficit.

In tutti i casi i politici e gli economisti dovrebbero ricordarsi una cosa molto semplice: la sovranità monetaria è di sinistra perché è democrazia. È l’unico strumento che può permetterci effettivamente di uscire dalla crisi sulle nostre gambe senza ricatti e senza subordinarsi a Stati e governi che sono nostri concorrenti. Se le forze democratiche non riusciranno a superare la crisi, toccherà alla destra di Salvini e Meloni governare.

 

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