Un decalogo contro la Mala università

Le dieci proposte dell'associazione “Trasparenza e Merito" per cambiare l'università italiana. Pubblichiamo un estratto dal volume “Mala università: Privilegi baronali, cattiva gestione, concorsi truccati. I casi e le storie” di Giambattista Scirè (Chiarelettere).

Giambattista Scirè

[…] Di fronte al documentato scempio dell’istituzione universitaria che diventa prassi e regola quotidiana, davanti a questa vera e propria emergenza costituzionale dell’università, la domanda sorge spontanea: davvero la Mala università è una malattia, un cancro, del tutto inestirpabile dal tessuto connettivo della società italiana? Davvero questo sistema di potere protetto da più fronti è così invincibile? […]

La risposta è no. Se credessi il contrario, non avrei mai denunciato un concorso «truccato», non avrei mai dato vita a un’associazione per contrastare questi abusi e non avrei mai scritto questo libro. Non mi piacciono le battaglie alla don Chisciotte, contro i mulini a vento. Mi piace incidere nella realtà. Quando facevo lo storico per mestiere, pensavo di poter fare la mia parte in una storiografia che fosse strumento di analisi del passato per capire l’oggi. Strada facendo ho scoperto che non era affatto così. Oggi credo di essere molto più utile alla società con la battaglia che ho intrapreso.

Ciò che serve all’università italiana, per tagliare i ponti con questi metodi che l’hanno portata alla deriva, molto semplicemente, è un sistema di incentivi e disincentivi, di premi e di sanzioni, in modo tale che sia nell’interesse degli individui che ne fanno parte, i docenti onesti, e più in generale in quello di tutti i cittadini, fare buona ricerca e buona didattica, innalzando il livello scientifico e culturale complessivo, ed evitando comportamenti corrotti, che alla lunga penalizzano tutta la collettività e avvantaggiano solo i «delinquenti». Si tratta di mettere in atto, nel contempo, una rivoluzione della mentalità e una riforma delle regole, che agiscano sul doppio fronte della governance, cioè quello della selezione della direzione, del la guida e dell’azione di controllo degli atenei, e quello del reclutamento del personale. Sono due elementi strettamente connessi, che si condizionano a vicenda. Occorre intervenire, drasticamente, su entrambi gli aspetti. Ma come?

Attraverso alcune semplici ed efficaci proposte che rappresentano le soluzioni di Tra-Me per cambiare l’università. Un decalogo. [1]

Uno. Modificare in senso democratico, secondo il principio «una testa un voto», le norme che oggi regolano l’elezione del rettore e seguono procedure feudali e oligarchiche, cioè basate sul meccanismo del «voto ponderato» che sancisce il diritto di voto con prevalenza per i docenti ordinari, gli strutturati e i baroni, con il risultato di penalizzare invece fortemente i ricercatori, i precari, il personale tecnico-amministrativo e gli studenti (che di fatto sono l’asse portante della vita universitaria).

Due. Programmare il fabbisogno e impostare la «pianta organica» dei vari atenei sulla base di reali e comprovate esigenze didattiche e di ricerca nei diversi settori scientifici (a partire dal numero di studenti che seguono i rispettivi corsi), in modo da rendere ogni università competitiva e all’avanguardia rispetto a parametri territoriali, nazionali e internazionali, evitando sprechi di risorse per chiamate predeterminate.

Tre. Eliminare tutte le figure precarie e istituire un ruolo unico della docenza universitaria, senza differenziazione tra ordinari e associati che, pur svolgendo le stesse mansioni, hanno una retribuzione diversa, il che fa aumentare la possibilità di scambio di favori e corruzione negli avanzamenti di carriera, in forma di concorso ad personam.

Quattro. Cancellare i concorsi locali in cui proliferano clientele, favoritismi e corruzione. Nel caso di mantenimento forzato dei concorsi locali, vietare la partecipazione in commissioni ai docenti dell’ateneo che bandisce la procedura. Incentivare la partecipazione al concorso da parte di candidati esterni. Vietare che il commissario sia in conflitto di interessi per ragioni più ampie di quanto previsto, come nel caso di collaborazione assidua con il candidato che deve valutare. Imporre un minimo di tre candidati partecipanti al concorso affinché l’esito sia valido, pena l’annullamento.

Cinque. Istituire un concorso nazionale con commissioni interamente sorteggiate (sul totale dei docenti e non solo tra quelli che si rendono disponibili) e formate almeno da sette-dieci membri per settore. Predisporre criteri di valutazione in base a una griglia ministeriale che, fra l’altro, preveda la determinazione per ciascun settore dei punteggi minimo e massimo su titoli e pubblicazioni, in modo da limitare o ridurre il più possibile l’arbitrio delle commissioni. Garantire la massima trasparenza delle procedure prevedendo l’integrale pubblicazione degli atti concorsuali, l’eventuale presentazione di ricorsi, il loro esito e le decisioni assunte dagli organi competenti (autotutela, esecuzione di sentenza eccetera).

Sei. Monitorare costantemente l’attività del docente selezionato con una valutazione ex post della sua produzione scientifica, non affidata a una commissione, ma prevedendo soglie automatiche da superare, secondo parametri e criteri internazionali, e premiare in termini di bonus a livello economico la produttività, sfavorendo invece gli inerti.

Sette. Penalizzare e diminuire i fondi ordinari per gli atenei «viziosi» dove si verificano i contenziosi, con simmetrica premiazione degli atenei «virtuosi», dove non si verificano. Per esempio nella misura del 3-5 per cento in meno agli atenei che non ottemperano alle sentenze, non vigilano sui conflitti di interesse previsti dall’Anac, non sanzionano illogicità di valutazione e non perseguono le procedure irregolari. Non si può demandare il compito di riformare il sistema universitario alla magistratura, ma occorre etica pubblica.

Otto. Prevedere sanzioni severe (multe, sospensioni, procedimenti disciplinari) per i commissari coinvolti in concorsi truccati, che si sono macchiati di irregolarità a livello di giustizia amministrativa, civile, penale e contabile, così che il danno subito non gravi sulla collettività, ma ricada sui diretti responsabili.

Nove. Rendere esplicita la possibilità – già prevista in linea interpretativa – di giungere al commissariamento di quegli atenei che hanno reiteratamente e gravemente violato disposizioni legislative, oltre che per ragioni di deficit finanziario, in modo simile a quanto accade per i Comuni e, in taluni casi, per le Regioni.

Dieci. Premiare il merito significa anche punire il demerito. Coloro che nel corso degli anni si dimostrano incapaci di fare ricerca e non superano i livelli standard e le soglie di qualità della produzione scientifica internazionale, vanno estromessi dall’università, per liberare risorse a giovani più promettenti. […]

La prima cosa da fare, dopo aver compreso nei dettagli come funziona il sistema, è spezzare i legami occulti tra i centri del potere politico e le roccaforti accademiche. Se tra politica e Accademia, come abbiamo dimostrato in questo libro, c’è un legame strettissimo, di reciprocità sulla base dello scambio di favori, e se è vero che quindi la responsabilità di come non funziona, o di come funziona male il sistema universitario italiano è da attribuirsi equanimemente a entrambe le classi, quella docente e quella politica, allora è chiaro che va tagliato il filo conduttore, va chiuso il rubinetto, va spezzata la corda. Se crescono a un ritmo preoccupante master e corsi di specializzazione, come una sorta di spot promozionali, per cercare di attirare studenti quasi fossero utenti, clienti, questo accade perché si tratta di teste di ponte per far transitare soldi pubblici fuori da istituzioni o società pubbliche, e quindi avvantaggiare privati, che possono essere o singoli docenti potenti (i baroni) o gruppi di potere organizzati. Spesso e volentieri criminali.

La responsabilità in questo scambio tra pubblico e privato ricade sulla complicità della classe politica. Al denaro che puntualmente rientra in tasca ai decisori dei finanziamenti in varie forme, come accade proprio nel caso dell’insegnamento remunerato nei master, ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Il meccanismo è sempre uguale, ovunque. Lo sapete che ne esistono alcuni, di questi corsi, retribuiti anche cinquecento euro l’ora? Oppure vogliamo parlare delle cariche di presidenti dei master attribuite sempre a docenti che, guarda caso, sono a loro volta presidenti di compagnie, aziende, fondazioni, assicurazioni, banche eccetera? Ma almeno si trattasse di master e corsi di specializzazione di livello… in realtà spesso accade che si ripropongano, con cifre esorbitanti, sotto il paravento dell’eccellenza, le stesse materie, gli stessi argomenti, le stesse dinamiche trite e ritrite che i medesimi docenti sciorinano nei corsi di laurea tradizionali.

In poche parole, fuffa, per abbindolare gli studenti e le loro famiglie. Tutto questo, ovviamente, gestito con soldi pubblici. Gruppi di potere privati che attraverso l’Accademia e la copertura della politica gestiscono business enormi, soprattutto se parliamo di certi specifici settori scientifico-disciplinari. [2]

Il discorso che è stato fin qui affrontato si muove su un terreno preciso e delimitato da regole e princìpi non solo condivisibili, ma universali. L’etica pubblica, all’università come altrove, è fondamentale ma non è sufficiente, occorre il rispetto della legalità. Una magistratura che indaghi realmente e che giunga a sentenze, con condanne esemplari e multe salatissime, in tempi non biblici, non basta, serve una precisa azione di modifica legislativa. L’Accademia non può autoriformarsi da sola, ma la spinta propulsiva al cambiamento deve venire dal suo sottosuolo, da quella parte di accademici che ha il coraggio di denunciare gli abusi, e dalle nuove generazioni, dagli studenti. Per ogni decisione di pianificazione, programmazione o reclutamento nell’università deve esserci uno e un solo decisore univoco e responsabile, che paghi in prima persona se le cose non vanno, e che sia elogiato e incensato se le cose funzionano. Ovviamente questo atto di responsabilizzazione accademica non basta, ma occorre che ogni decisore interno sia controllato da un organo esterno, che può essere il ministero o la magistratura, e che sia aperto a contributi esterni (per esempio un pool di esperti del mondo della società civile), nel prendere in considerazione le critiche al fine di formulare la migliore soluzione possibile. Perché l’università non è un mondo autoreferenziale, ma è un bene pubblico, collettivo.

Se si capisce che l’università, in quanto bene pubblico, rappresenta il vero motore per cambiare il futuro del paese, per guardare al progresso e non al declino, allora deve essere chiaro che non conviene a nessuno buttarci dentro combustibile scadente, altrimenti il motore si ferma e restiamo a piedi rispetto alle altre nazioni. Ed è proprio ciò che sta accadendo.

È evidente che la politica – lo abbiamo ormai capito sulla nostra pelle, dopo l’esperienza vissuta – si fa interprete di istanze e richieste della cittadinanza solo se subodora un consenso e la possibilità di accrescerlo. L’istanza di cambiamento e rinnovamento dell’università è essenziale per i cittadini e le famiglie, e quindi per attribuire consensi alla classe politica, perché i danni che si provocano al paese con un sistema di organizzazione e reclutamento universitario carente, truccato, corrotto, sono enormi, devastanti, inestimabili. Se consideriamo poi il legame strettissimo che c’è tra università e sanità, quindi tra fondazioni, policlinici e aziende ospedaliere universitarie, allora l’istanza verso la Politica, intesa con la P maiuscola, si allarga a dismisura e coinvolge tutti gli strati della popolazione, a partire dai pazienti, giovani, adulti e vecchi. Nessuno escluso. Università e sanità ben funzionanti sono un interesse di tutti.

Preso atto di ciò, dunque, occorre diffondere in modo esteso il decalogo di Trasparenza e Merito. Sembra che alcuni media, visto lo spazio concesso alle questioni che abbiamo sollevato da più di tre anni, intendano sostenere, meritoriamente, questa battaglia di civiltà. Occorre, a questo punto, riuscire a coinvolgere quante più persone dentro il mondo accademico, critiche e arrabbiate verso questo sistema di potere che agisce al ribasso e fa danni all’immagine dell’istituzione; e quanti più cittadini e famiglie, quante più associazioni, gruppi, forze politiche, movimenti, in modo da creare un fronte assai vasto e compatto, mantenendo ognuno la sua specificità e le sue prerogative, ma puntando dritti verso l’obiettivo comune. La lotta alla Mala università.

Una volta compreso che un sistema universitario più equo, più democratico, più trasparente, più meritocratico, giova a tutti, mentre da un sistema truccato, corrotto, clientelare, diseguale, traggono vantaggio in pochi, o comunque un ristretto numero di persone rispetto alla maggioranza, occorre convogliare le energie attraverso una spinta dal basso, che porti a uno scatto, a un cambiamento e a una vera e propria rivoluzione culturale. Atteggiamenti di autocommiserazione, rinuncia, pessimismo, rassegnazione non sono utili alla causa. Chi deve essere preoccupato, sfiduciato, chi se ne deve andare dall’università, non sono i meritevoli, i «cervelli in fuga», ma coloro che utilizzano sistematicamente e illegalmente le risorse pubbliche per fare interessi privati.

Il discorso che è stato articolato in questo libro propone ai lettori e, più in generale, alla cittadinanza, una riflessione profonda sulla necessità di cambiamento dell’università italiana e sui suoi presupposti. Ha, dunque, un triplice obiettivo pedagogico.

Anzitutto, poiché dal funzionamento in modo efficace, trasparente, meritocratico (o meno) dell’università passa il futuro del paese, vogliamo suscitare un’acquisizione di consapevolezza da parte dell’opinione pubblica sui danni causati in tutte le sfere sociali, politiche, economiche, culturali dalla Mala università e dai suoi artefici.

Intendiamo, inoltre, proporre una nuova cultura della responsabilizzazione a quei ricercatori e docenti incerti, timidi ma comunque non conniventi con il «sistema di potere», agli studenti che saranno i diretti protagonisti del mondo accademico degli anni a venire, alle famiglie e ai cittadini che sono, in ultima analisi, i soggetti – i pilastri – che tengono in piedi l’istituzione pubblica, anzi il suo asse portante, perché pagano le tasse.

E infine ci proponiamo di incentivare una genuina concorrenza fra atenei, organizzati secondo nuove regole più democratiche e trasparenti, come presupposto imprescindibile per una nuova università.

Il «sistema di potere» che sembra, all’apparenza, indistruttibile, in realtà non lo è. Occorrono lungimiranza, buone iniziative, metodo e pazienza. Perché la rivoluzione che proponiamo è soprattutto etica e culturale, un obiettivo di lungo periodo. Facciamo la rivoluzione, dunque, un passo alla volta. Con lo sguardo rivolto al futuro: verso l’Università, con la U maiuscola, che tutti noi vogliamo.



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