Decolonizzare il kitsch

Quella del kitsch è una categoria estetica occidentale da colonizzatori, che non riesce a comprendere i processi di cannibalizzazione ed elaborazione della nostra cultura operati da chi vi è entrato da principio in contatto in qualità di colonizzato.

Franco La Cecla

Il kitsch è una presunzione o una assunzione, ed è la messa in scena di sguardi che spesso non riescono a guardarsi se non allo specchio”.
Quanto qui scritto è una riflessione che mi è venuta in mente leggendo il libro di Valerio Paolo Mosco Il kitsch in architettura (Lettera 22, 2023). Un libro che traccia un percorso del kitsch e lo fa comparando il kitsch del passato a quello attuale. Lo fa con attenzione, ma applicando un’ottica del tutto occidentale. Fatima Bhutto ha scritto un testo che in qualche modo ne esplora l’altra faccia nel suo I nuovi re del mondo (Minimum Fax, 2023). Da poco in Francia Gilles Lipovevetsky e Jean Serroy hanno pubblicato per Seuil un voluminoso studio sul kitsch (Le nouvel age du kitsch, essai sur la civilization du trop). Quanto segue sono delle note che si traducono nell’intento di commentare l’interesse che il tema sta tornando a suscitare. La mia opinione è che “kitsch” sia una espressione valida solo in occidente mentre fuori dai nostri confini probabilmente tale nozione ha ben poco senso.
Dietro al kitsch si annida l’ombra del giudizio. Dire che qualcosa è kitsch significa stigmatizzarla e rapportarla a un orizzonte della normalità, del buon gusto, della misura, della giusta dose. Il kitsch è pacchianeria, mancanza di equilibrio, assenza di rispetto per il contesto, mancanza di coscienza dei giusti accoppiamenti; tutto questo sempre rapportato alla linea di galleggiamento sulla quale fluttua il buon gusto. Giudicare qualcosa kitsch significa avere chiari i parametri degli stili giusti, rispetto ai quali il debordare del kitsch non ha nemmeno la possibilità di essere definito stile. Il barocco, il pop, il brutalismo, il grunge, il punk si sono guadagnati ampiamente un posto negli stili perché non si sono permessi quell’imbarazzo “di inferiorità” che invece il kitsch possiede (quasi) di sua spontanea iniziativa. E qui si apre una finestra che ci fa vedere qualcosa di nuovo.
Nel gioco dei giudizi c’è un gioco tra impero e subordinati, tra chi “fa” la norma e chi non riesce a seguirla, tra la sicurezza di gestire il proprio passato come radice del futuro e l’insicurezza dei nuovi arrivati. C’è il gioco tra coloni e colonizzati, tra cosmopoliti e nativi, tra universalisti e indigeni. Un gioco che con “la modernità in polvere”[1] si è completamente trasformato per diventare gioco di specchi, riflesso di riflessi, come racconta in Mimesis and Alterity[2] il grande antropologo Michael Taussig. A Thaiti, per esempio, a un certo punto i colonizzatori si sono messi a imitare i colonizzati, cadendo nella trappola della prima procedura per cui le indigene (seguite a ruota dagli indigeni) che circondavano con le canoe la nave di Cook volevano a tutti i costi appropriarsi dell’allure dei marinai, fossero scambi sessuali, asce, martelli, cappelli e poi oggetti sempre più rappresentativi: biliardi, carrozze, nomi e cognomi. Ad un certo punto Tahiti si è riempita di indigeni chiamati Washington, Shakespeare, Bentham; allo stesso tempo Cook si è appropriato delle fattezze del dio Lono a tal punto da venir sacrificato come spetta a un dio e cannibalizzato dai locali.[3] In questo gioco di specchi è l’Europa nel suo insieme a presumere di orientalizzarsi, di “nativizzarsi”, di indianizzarsi, fino alle ultime conseguenze delle file di turisti dell’ayahuasca e del “purgatorio”[4] che esso rappresenta. La modernità è già andata in polvere, i ragionamenti della Compagnia delle Indie sfaldano il sistema della madrepatria, ne ridicolizzano le intenzioni civilizzatrici e allo stesso tempo rendono Albione il regno di merci dalla presunta carica salvifica: il tè, le spezie, il tabacco, il caffè, le droghe nel senso più lato. A questo punto cos’è kitsch: l’indiano con la sveglia al collo o il giovane tedesco con la kefia palestinese?
Se questo è il panorama della modernità in polvere e ne segue fedelmente lo scambio ineguale, i capitomboli, il malinteso costante, la presunzione reciproca, la novità sta nella scoperta che questi meccanismi non sono semplici side effects di un processo storico-economico, ma sono invece “agiti”. C’è, ed è questa la scoperta, un metodo ben preciso in questo procedere. Si potrebbe dire, riprendendo il manifesto cannibalista di Osvaldo De Andrade,[5] che i nativi, i subordinati, i colonizzati hanno mangiato, digerito e trasformato l’Europa e l’Occidente. Come il Tupi Guarani che a metà del 1500 spolpa il braccio di una vittima cotta e smembrata e, all’ orrore del marinaio olandese Hans Staden che gli fa osservare che nemmeno gli animali mangiano i loro simili, risponde: “Io sono un giaguaro!”.[6]
Il cannibalismo è una metodologia, un modo di assimilare l’estraneo, tanto più quando è potente ed è arrivato per dominare. Marshall Sahlins ci fa osservare che l’indigeno che si mette la sveglia al collo e le Nike manifesta un metodo ben preciso di ri-significazione dei beni materiali. [7]Capovolgendo il nostro credo materialista che vorrebbe che diventiamo quello che consumiamo, c’è nella mossa cannibalistica l’affermazione della possibilità di trasformare ogni bene e ogni cosa dopo averla digerita. Dalla sape congolese, in cui gli africani delle bidonvilles mettono in scena la propria eleganza firmata con marchi europei in sfilate e concorsi che diventano spettacoli e volano di identità, alla produzione di pellicole nella Bollywood o nella Nollywood o nella periferia di Istanbul c’è lo stesso metodo. Si comincia con il cannibalismo e si finisce con la produzione di qualcosa che solo apparentemente “scimmiotta” gli imperi, ma che in realtà li smembra e li ricompone. A questo metodo non è estraneo il puzzle, il patchwork, l’accostamento di pezzi incongrui, la ripetizione assurda, il prendere le metafore alla lettera, il capovolgimento dei parametri di bellezza e di fascino.  Si potrebbe dire che nulla come il kitsch dei colonizzati o degli ex-colonizzati rammenta l’idea di storia in cui entrano in gioco degli agenti che si muovono tra contesto ed evento, spezzando spesso un apparente fatalismo e una relazione presunta tra struttura e sovrastruttura. Oggi, soprattutto grazie al lavoro di Marshall Sahlins, non siamo più vittime di una lettura meccanicista della storia. Sahlins ha scavalcato il determinismo in cui le scienze umane e la storia erano intrappolate dal dopoguerra e ha elaborato una teoria dell’azione umana in cui assumono rilevanza contesto, località, evento e iniziativa individuale.
Bollywood, una immensa industria cinematografica che affonda l sue radici nelle origini del cinema (il fondatore, Phalke, è un contemporaneo dei fratelli Lumière), fin dall’inizio assimila tecniche, temi e stili del cinema europeo per poi trasformarli in ritmi, musiche danze e storie indiane. È una parabola che si può rintracciare similmente nello sviluppo del jazz afroamericano, nella nascita dell’industria del video in Nigeria, nella trasformazione della TV in strumento di identità curdo o della diaspora iraniana: si tratta della fase post-coloniale in cui quello che avviene è un inaspettato movimento di appropriazione e ri-significazione. Ne parla dall’interno Fatima Bhutto, nipote di Benazir Bhutto e testimone di raccordo tra il mondo del subcontinente indiano e l’Occidente. Nel suo I nuovi re del mondo ci fa capire quanto le grandi produzioni di Bollywood, ma anche i serial turchi e nigeriani, siano ciò che davvero veicolano il discorso che circola nei media mondiali. Di fronte ad esso le produzioni europee o americane appaiono puramente “provinciali”.
Il kitsch è lo sguardo occidentale su tutto questo, il credere di vedere in queste manifestazioni uno scimmiottamento dei subordinati e non il processo di cannibalizzazione e digestione. Spesso all’origine di questo sguardo vi è l’abbaglio del credere che i sottoposti scimmiottino come omaggio ai dominanti, mentre invece in questa operazione risiede il gioco di un voluto malinteso. Spesso in queste produzioni lo sguardo occidentale ravvisa una ingenuità di fondo, travisando l’ironia che scorre sotto a ogni plagio accettato e ribaltato. Bollywood che rifà Matrix o Pretty Woman ricorda agli spettatori che esiste un presunto canone che può essere sempre manipolato e trasformato nel suo contrario.[8] La commedia del re-marriage hollywoodiana[9] diventa la commedia dei matrimoni combinati, così come il ritorno dell’amato dall’aldilà diventa la commedia della reincarnazione.[10]
A questo punto forse avremmo bisogno di un altro termine rispetto al kitsch. A meno che non vogliamo accettare l’ipotesi di un kitsch agito, di un kitsch come metodo e stile, di un processo molto consapevole di trasformazione dell’estraneo. Allora lo sguardo dall’interno può rivelarci molto di più, ma dobbiamo essere disposti a misurarci con parametri diversi. È già uno sguardo di uno sguardo, un giudizio sul giudizio che viene dato dall’Occidente esterno al mondo interno dei nativi e delle ex colonie. A un certo punto anche queste definizioni cadono: non ci sono più ex colonie e popoli nativi, ma soggetti che a ogni buon titolo producono fatti culturali, opere d’arte, sguardi sul mondo. Il kitsch è una presunzione o una assunzione, ed è la messa in scena di sguardi che spesso non riescono a guardarsi se non allo specchio. In questo senso anche la profonda analisi di LIpovetsky e Serroy, che cerca di raccontare il kitsch come lettura del contemporaneo e delle sue manifestazioni nel “troppo”, non fa che percorrere le vie già scadute della lettura del postmodernismo.[11] Il “troppo” sarebbe un effetto del gigantismo dei media e dei social, sarebbe una specie di “stile” della iper-globalizzazione. È probabile che ci sia bisogno di liberarsi del termine o di decolonizzarlo e servirsene proprio per svelare il provincialismo[12] insito in esso. Una operazione che frammenti e ribalti i punti di vista, che includa lo sguardo indigeno e il suo esotismo rovesciato, che tenga conto delle ingenuità creativa del nostro – quella che ha fatto scrivere a Victor Segalen delle magnifiche pagine: l’esotismo è sempre lo specchio di uno specchio.[13] La stessa ingenuità che in fin dei conti ci imbarazza di fronte all’ammirazione che proviamo per il chiasso, i colori squillanti, gli accoppiamenti che ci appaiono assurdi in altre culture. In questi capitomboli ci sono molte occasioni per vedere le cose a testa in giù e molte per prendersi delle buone slogature.

[1] Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, 2001.

[2] Michael Taussig, Mimesis and Alterity. A particular History of the Senses, Routledge, 1993.

[3] Marshall Sahlins, Isole di Storia, Società e Mito nei mari del Sud, Einaudi, 1976.

[4]  Jinny Weiskopf, Yajè, El nuevo Purgatorio, Villegas Editores, Bogotà, 2002.

[5] Osvaldo De Andrade, Manifesto Antropofago, 1928.

[6] Hans Staden, Hans Staden True History, an Account of Cannibal Captivity in Brazil (1525), Duke Un Press, 1965.

[7] Marshall Sahlins, Cosmologie del Capitalismo, Meltemi, 2022.

[9] Stanley Cavell, Alla ricerca della felicità, la commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino, 1999.

[10] Franco La Cecla, Il bacio indiano, viaggio sentimentale a Bollywood, Seganfreddo, 2023.

[11] Charles Jencks, Critical Modernism, where is post-modernism going?, Wiley 2007.

[12] Dipesh Chacrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Milano, 2016.

[13] Victor Segalen, Saggio sull’esotismo, un’estetica del diverso, 1919, ed Scientifiche italiane, 2001.

CREDITI FOTO: Flexfxproductions|Wikimedia Commons



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