Del “concorso esterno”. Il buio oltre il diritto e la lingua italiana

Il ministro Nordio ha prima dichiarato: "Sarebbe necessario 'rimodulare' il concorso esterno in associazione mafiosa.” Poi, al Corriere della Sera: “Il concorso esterno in associazione mafiosa non fa parte del programma di governo”. Parliamo, allora, di questa fattispecie di reato.

Giuseppe Panissidi

Roma 2023. Trent’anni dopo.
Da un’intervista del ministro della giustizia al Corriere della Sera giunge la lieta novella. Il “concorso esterno in associazione mafiosa non fa parte del programma di governo”. Dunque, “non è in discussione”, assicura con lodevole prontezza Alfredo Mantovano, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
Se non che, le valutazioni ‘esplicative’ dell’inquieto Guardasigilli rivelano, anzi svelano, una forma mentis limpida ed elevata, ben coniugata con la sua postura istituzionale, e fieramente consonante con l’”immagine dello Sato” propria di Silvio Berlusconi. Non possono, dunque, passare sotto silenzio, quale mirabile saggio di scienza giuridica di un ex magistrato, unita a un’intrigante conoscenza dell’idioma patrio e foriera di “magnifiche sorti e progressive”.
La fattispecie incriminatrice del “concorso esterno” sarebbe “un ossimoro”, ovvero una figura retorica distinta dall’accostamento di concetti contrari, poiché “anche chi non è organico alla mafia, se ne agevola il compito, è mafioso a tutti gli effetti”.
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Il solerte dott. Nordio, insomma, auspica un “aggravamento” della normativa attuale, che reputa “evanescente”, al pari dell’abuso d’ufficio e dell’imputazione coattiva, in specie se quest’ultima riguarda il suo sodale sottosegretario Delmastro.
Ecco, infine, con quanta semplicità, acume a parte, il coniglio salta fuori dal prolifero cilindro dell’ex magistrato. Delle due, l’una. O si è organicamente mafiosi, oppure ogni ipotesi di “concorso esterno” appare inconcepibile sotto il profilo logico-giuridico. E… linguistico. In alternativa, si sconta un destino di… evanescenza! Indistinzione e inafferrabilità. Con buona pace degli incongrui Falcone e Borsellino. Parce sepultis.
Com’è universalmente noto, con le debite eccezioni, il “concorso” di più persone nel reato, in qualsiasi reato, costituisce una previsione nevralgica e ineludibile di tutti gli ordinamenti giuridici democratici, significando la “partecipazione/cooperazione” plurale in attività antigiuridiche, dunque contrarie all’ordinamento sociale vigente.

Vediamo.
Quando una retta si dice “esterna”, vedi caso, a una circonferenza? Quando non ha con essa punti reali comuni. a parti o elementi disposti, più o meno simmetricamente, in posizione laterale rispetto al corpo o all’asse centrale.
Di converso, “organico” è ciò riguarda la struttura interna di qualche cosa o che agisce profondamente in e su di essa. Che, insomma, appartiene all’organizzazione di quella cosa, alla sua composizione e ordinamento.
Rispetto al tema che occupa, organico a una determinata consorteria mafiosa è un soggetto il cui comportamento e la cui attività siano intimamente integrati e funzionali ai “princìpi” e all’“ideologia”, per usare termini nobili, del gruppo.
L’abc del diritto penale, fin dall’epoca romana antica, contempla il reato quale prodotto di un “insieme”, la risultante delle azioni e delle volontà che lo hanno prodotto. Ne discende, in punto di diritto e giustizia, che ai concorrenti, interni o esterni, in quanto consapevoli di questo convergere di ogni minimo atto al loro delitto, si applichi una sanzione.

Anche il compartecipe risponde della qualità che la condizione personale del suo compagno di azione imprime al delitto, perché l’azione del socio riceve l’impronta e il titolo della criminosità dal fatto commesso dall’autore principale, purché sia commesso con scienza (e coscienza!) del fine delittuoso perseguito dall’agente, e purché sia funzionale al raggiungimento dell’intento delittuoso. Siffatta partecipazione secondaria o indiretta al reato, o “complicità”, non si estrinseca mediante cooperazione concomitante negli atti consumativi del delitto, ma con altri supporti di assistenza non immediata e non diretta allo lo svolgersi del fatto. Per l’appunto: esterna.
In questa specie di “concorso”, la dottrina classica vede una minore gravità che nella “correità”, ravvisando la maggior forza criminosa del delitto in coloro che, direttamente e personalmente, s’impegnarono nella violazione della legge. La materiale correità, infatti, si si manifesta nell’esecuzione effettuale del reato, allorquando più persone concorrono tra loro nell’eseguire insieme il fatto consumativo del reato. Perciò, si chiamano esecutori o coautori. Nei casi più frequenti di concorso, invece, i colpevoli, anziché concentrare la loro azione nell’atto consumativo, si distribuiscono i compiti, in modo che, mentre gli uni compiono l’atto costitutivo del reato, gli altri prestano l’opera loro così da renderlo possibile. In breve, contribuiscono agli scopi dei primi, pur senza costituire parte integrante e organica della congrega. Un ex magistrato non può ignorare che, non di rado, oltre al ladro, l’esecutore materiale del reato, c’è anche il mandante, il palo o il ricettatore!

Come, in riferimento al caso Delmastro, non può glissare sul dettaglio – quisquilie – che il pubblico ministero è, sì, il “monopolista dell’azione penale”, ma non il “monocrate”, posto che l’azione è costituzionalmente obbligatoria. Il pm, infatti, è titolare di un potere/dovere. Ancora. E il giudice non gli si “sostituisce”, secondo il travisamento di soyGiorgia, né incrina la titolarità del pm, visto che non può formulare l’imputazione, ma assolve il proprio obbligo speculare di sorveglianza sul corretto esercizio dell’azione e di correzione di ogni rinuncia all’azione ritenuta ingiustificata.
Certamente, ora il Paese attende con malcelata trepidazione la riforma costituzionale concernente la separazione delle carriere dei magistrati e la connessa panacea dei mali che lo affliggono: il principio di discrezionalità dell’azione. La via maestra per scongiurare altri casi Delmastro, e potere impartire agli uffici di procura più consone direttive come una “scala di priorità”, ad esempio in materia di evanescenza, abuso e segreto d’ufficio e, soprattutto, concorso esterno. Come si conviene in uno Stato di diritto.
E la terra finalmente, dopo venticinque secoli, sarà nuovamente… piatta.

Tornando al nostro tema, e con buona pace del ministro, il concorde insegnamento della Giurisprudenza di legittimità, nella categoria giuridica del concorso differenzia la “correità”, partecipazione ossia al fatto “consumativo” del reato, dalla “complicità”, partecipazione indiretta, mediante ausilio secondario, nell’attività fiancheggiatrice del delitto, anche a delitto consumato.  Pertanto, il concorso/complicità, ovvero la partecipazione di più persone, può concretarsi anche in un’alleanza momentanea e contingente, allo scopo di unire attitudini e forze per sopraffare la resistenza opposta dall’ordinamento sociale, in determinate circostanze e con reciproca convenienza. Vagamente aberrante l’idea di fare un’eccezione al sistema giuridico proprio e solo per la mafia…
È del tutto evidente, viceversa, che le (a dir poco) bizzarre idee del Guardasigilli condurrebbero alla creazione di “compartimenti stagni”, veri e propri setti divisori netti – nel contesto della separazione delle carriere anche la divaricazione tra mafia e non-mafia – a sciagurato vantaggio di quanti, essenzialmente “politici” di mestiere, ancorché organicamente (e ufficialmente) estranei ai sodalizi mafiosi con l’etichetta, contribuiscono fattivamente agli scopi e agli obiettivi dell’anti-Stato, a nulla rilevando se solo occasionalmente. Di quell’anti-Stato responsabile degli eccidi che hanno insanguinato il suolo patrio. E della patria cara a soyGiorgia, benché scambiata con il nazionalismo dei patrioti di Vox, suoi diletti amici.

Nondimeno, è doveroso riconoscere alla “signora del riscatto” la tempestiva conversione a un barlume di ragionevolezza, ora che si è dovuta impegnare con il capo dello Stato sulla riconsiderazione dell’intento di abolire il delitto di abuso d’ufficio, sconfessando il suo imperturbabile ministro. Forse, però, una più perspicua e razionale rimodulazione è necessaria e sufficiente, come avevamo auspicato su questa piattaforma, anche per la soddisfazione del boni virtutis amor del ministro, causa per esso lui di indicibili sofferenze, ogniqualvolta un pubblico funzionario infedele, fuori dalle ipotesi di corruzione, sfugga anche alla sanzione prevista dall’attuale norma relativa all’abuso d’ufficio, un reato “residuale”, secondo una delle giaculatorie predilette e recitate dal ministro.
Invero, nel Belpaese, la sola “evanescenza” sembra quella del diritto, sempre più terra straniera, e del destino pubblico dei martiri della Giustizia, cerimonie di Stato a parte. Al riguardo, garantismo… cercasi.

Foto Governo italiano, Presidenza del consiglio dei ministri  



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