Della dignità del morire

Un documento delle chiese protestanti storiche italiane sul fine vita mostra come anche una prospettiva credente possa situarsi su un terreno laico.

Alessandro Esposito

La questione afferente al Referendum Eutanasia Legale è, per sua stessa natura, estremamente delicata e, parimenti, oltremodo importante per tutto ciò che attiene alla sfera dei diritti inalienabili della persona, circa i quali, lo sappiamo bene, si cerca Oltretevere – e non solo – di affermare un monopolio a suon di veti, travestiti da principî al fine di garantirne l’irreprensibilità ma, ancor prima, l’indiscutibile valenza.

Poiché molti sono gli interventi di ottima qualità a cui si può far riferimento allo scopo di approfondire la questione sotto il profilo giuridico, vorrei limitarmi a illustrare, sia pure per sommi capi, i contenuti di un documento redatto da una Commissione di Studio delle chiese protestanti storiche italiane, intitolato significativamente: «È la fine, per me l’inizio della vita», che ritengo sia in grado di evitare rigidi nonché sterili aut-aut, chiarendo come anche una prospettiva credente possa situarsi su un terreno laico.[1]

Il documento citato chiarisce immediatamente quale sia la prospettiva adottata dai suoi estensori, secondo la quale si ritiene «che il compito principale delle chiese non sia quello di offrire proposte normative, ma quello di contribuire ad avviare un percorso di carattere culturale e spirituale che favorisca una maturazione della consapevolezza collettiva».[2] Lo scopo perseguito è pertanto quello di una riflessione che si avvale di argomentazioni passibili di critica e di rettifica a partire da un confronto aperto con le differenti sensibilità che concorrono alla costruzione di un’etica comune, la quale non può in alcun modo sottostare ai diktat di autoproclamati custodi della morale, poiché, più di ogni altro rischio, «occorre evitare che le Chiese pretendano di estendere la propria prospettiva etica all’intera società»,[3] in maniera, in ultima istanza, arbitraria.

Quello delle determinazioni in ambito etico, difatti, è un crinale lungo il quale è raro riuscire nel compito di articolare una riflessione attenta e delicata: quel che è certo, per chi scrive, è che non è in alcun modo possibile affrontarlo in maniera apodittica, avocando a sé la prerogativa di normare in maniera insindacabile e, quel che è peggio, eludendo la complessità. L’etica, che naturalmente non può prescindere del tutto da presupposti di natura culturale, è in ogni caso un percorso costantemente in fieri, che non può in alcun modo esser fatto discendere in maniera diretta da un sistema di principî determinati a priori in maniera tanto definitiva quanto, in fin dei conti, astratta. Chi intende muoversi sul terreno dell’etica deve sin dal principio essere consapevole della sua indeterminatezza, che va declinata di volta in volta a partire dalla situazione che si è chiamati anzitutto a cogliere e ad ac-cogliere, per poi affrontarla, insieme, con lucidità ed esprit de finesse, come si sarebbe espresso Pascal. Credere che l’etica consista nella pedissequa applicazione di norme universali predeterminate, significa, nella migliore delle ipotesi, illudersi e, nella peggiore, ritenersi depositari di una verità che gli altri devono limitarsi a recepire, senza che sia riservato spazio alcuno al contraddittorio.

Ma il contraddittorio è l’anima di una società democratica, in seno alla quale ciò che conta, ogniqualvolta si discute di questioni nevralgiche, sono la plausibilità e la cogenza delle argomentazioni attraverso cui si suffraga la propria posizione, non certo il presunto lignaggio di chi la sostiene.

C’è un secondo passaggio del documento citato che trovo assai significativo, specie a motivo del fatto che sconfessa un presupposto tacito della retorica perbenista, secondo cui un non meglio precisato «rispetto per la vita in quanto dono» debba determinare ogni decisione in merito al fine vita. Ecco che cosa dice in proposito il nostro testo:

«L’assunzione che la richiesta di essere aiutati a morire possa essere sempre interpretata come un rifiuto del dono di Dio, e di conseguenza del legame con Dio stesso, ci sembra fondata su una ricostruzione unilaterale, e difficilmente giustificabile, della logica del dono. Quest’ultima, infatti, non implica necessariamente che ciò che viene donato sia indisponibile a colui che riceve; implica piuttosto l’idea di un uso grato e responsabile del bene ricevuto».[4]

Ci troviamo, in definitiva, dinanzi a una prospettiva che privilegia due elementi che ritengo possano essere validi sia in prospettiva credente che in ottica non credente o diversamente credente: la responsabilità e la relazione. Ogni vita che si spegne ha difatti intessuto una trama di rapporti che hanno contribuito a donarle senso e contenuto e che rappresenta, con ogni probabilità, l’arazzo variopinto dal quale con più difficoltà si è chiamate e chiamati a prendere congedo: ed è qui che entra in gioco la responsabilità, che è inevitabilmente rimessa alle decisioni del singolo, chiamato, come dice la parola stessa, a rispondere di sé, senza che in questo chicchessia possa sostituirsi a lui, a lei. Ecco perché, prosegue il documento:

«Riteniamo che la richiesta di persone ammalate, che in situazioni di sofferenza estrema esprimano il desiderio di non trascorrere gli ultimi giorni nell’incoscienza indotta dai trattamenti antalgici necessari a lenire un dolore non altrimenti sopportabile, non debba necessariamente essere considerata come l’espressione del desiderio di assolutizzare la propria libertà finita di fronte alla morte (…) Può anche essere la conseguenza del desiderio di disporre in modo responsabile del dono della vita ricevuta (…) [segno] dell’affidamento a un Dio che non chiede un tributo di sofferenza».[5]

Questa libertà responsabile del singolo non è in alcun modo alienabile né rimpiazzabile e abbisogna di un quadro giuridico che la tuteli da indebite ingerenze che intendano limitarne l’esercizio tacciandola, impropriamente, di hybris, per il solo fatto di mirare e condurre alla autodeterminazione della coscienza. Tale autodeterminazione, mi preme ribadire, non è nemica ma sorella e compagna di una fede adulta, che si affianca alla vita, non la giudica e se ne lascia ammaestrare, restando in cerca di quel conoscere mai compiuto che la sapienza ebraica denomina yadah: letteralmente, «toccare con mano». Esplicito, costante monito indirizzato a quanti fanno sia della conoscenza che della vita categorie astratte e per ciò stesso insensibili, sorde a quell’incertezza che rappresenta invece la cifra più autentica e insondabile delle nostre esistenze inesorabilmente sospese, attraversate, talvolta, da un dolore che rende la richiesta di morire espressione di profonda, insindacabile dignità.

[1] Il documento è consultabile sul sito della Chiesa Valdese, all’indirizzo: DOCUMENTO EUTANASIA APRILE 2017 DEFINITIVO 2 (chiesavaldese.org).

[2] Ibidem, p. 15.

[3] Ibidem, p. 12.

[4] Ibidem, p. 10.

[5] Ibidem, p. 10.



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