Democrazia e educazione economica: una proposta concreta

Le questioni di carattere economico e finanziario dominano sempre di più la nostra discussione pubblica. Eppure, quanti cittadini italiani hanno le conoscenze per orientarsi con consapevolezza e senso critico fra questi temi? Partendo da una riflessione di Bobbio su “democrazia e tecnocrazia”, una proposta per l’introduzione dell’insegnamento di “Lineamenti di economia e finanza” in tutte le scuole superiori italiane.

Emilio Carnevali

Nel 1975 Norberto Bobbio pubblicava due brevi saggi sulla rivista Mondoperaio sul rapporto fra democrazia e socialismo[1]. Ne seguì un vivacissimo dibattito a cui presero parte un gran numero di autorevoli intellettuali del nostro Paese, spesso vicini – o, come si diceva allora, “organici” – ai due principali partiti della sinistra: il Partito Socialista e il Partito Comunista Italiano.
Quasi cinquant’anni dopo, quel dibattito ci appare allo stesso tempo molto lontano e molto vicino. Lontano, non solo perché molti dei suoi protagonisti sono morti, ma anche perché una sorte simile è toccata a molti dei loro argomenti: e non ci riferiamo qui solo alle idee che sono state travolte da quelle che già allora venivano evocate come le “dure repliche della storia”, ma alle stesse formule, al linguaggio e alle categorie politiche con cui molte di quelle idee erano, per così dire, “confezionate”.

E tuttavia, quel dibattito è allo stesso tempo molto vicino a noi, perché le urgenze dalle quali era stato originato, e che così lucidamente Bobbio aveva esposto nelle sue riflessioni sulla crisi della democrazia occidentale (e sulle sue possibili alternative), sono le stesse che assillano il nostro tempo. Anzi, alcune sfide che la democrazia contemporanea si trova a fronteggiare hanno assunto oggi una forma ancora più insidiosa. Si pensi alla rivoluzione che ha subito il cosiddetto Quarto Potere con l’avvento dei social media: al pericolo della eccessiva concentrazione dei “vettori” del dibattito si è oggi sommato quello di una parallela, esorbitante frammentazione dei “luoghi” del dibattito, ovvero di una sfera pubblica divisa in isole, o camere di eco, non comunicanti fra loro.  Isole in cui qualsiasi affermazione o opinione, anche la più infondata, strampalata e “nociva” (già: ma chi lo decide che è nociva?), può circolare senza freni e trovare immenso consenso.
Ma soffermiamoci sulle tesi originali di Bobbio. Chiunque si interrogasse allora sulla crisi della democrazia doveva fare i conti con quattro paradossi che, secondo l’intellettuale torinese, rendevano il compito di trovare una soluzione a questa crisi estremamente arduo.

Il primo paradosso consiste nel fatto che gli stati diventavano sempre grandi. Man mano che crescono le organizzazioni da cui è regolata la nostra vita collettiva – quella politica, come quella sociale o economica – diventa sempre più difficile per il singolo riuscire ad avere un reale controllo e influenza su di esse.
Il secondo paradosso rimanda al fatto che il processo di progressiva democratizzazione degli stati moderni occidentali è coinciso – e non può non coincidere – con una costante crescita degli apparati burocratici: democratizzazione significa burocratizzazione, dal momento che aumentano sempre di più i compiti di cui uno stato si deve far carico per rispondere alle richieste dei cittadini (sanità, istruzione, etc.). Ma il funzionamento degli apparati burocratici è autocratico per definizione: le direttive dell’amministrazione vanno dall’alto verso il basso, non viceversa. L’efficienza, non il consenso, è il criterio che guida le decisioni in una burocrazia.
Un altro paradosso riguarda la contraddizione fra il “tipo umano” plasmato dalla moderna società di massa e quello necessario al buon funzionamento di un processo democratico. “Industria culturale” (nell’accezione che questa espressione aveva negli anni 70) e “industria politica” tendono a favorire il conformismo, la mobilitazione ispirata da impulsi emotivi e moventi irrazionali, e un più generale senso di “deresponsabilizzazione” degli individui e ottundimento delle loro facoltà critiche.

Non è difficile rendersi conto di quanto paradossi simili siano ancora fra noi, anche se la loro sagoma appare diversa. Per fare solo un esempio, oggi non sono tanto gli stati ad allargarsi; è il potere delle organizzazioni sovranazionali (come quello dell’Unione Europea) a subentrare in quelle che erano le prerogative dei vecchi stati nazionali.
Ma perché è necessario prendere atto di questi paradossi, del loro rinnovato valore? Perché – come diceva molto opportunamente Bobbio – “constatare i fatti senza pregiudizi e senza troppe illusioni è (…) l’unico modo per mettersi nelle condizioni di escogitare rimedi praticabili, non velleitari”.

È dunque nello spirito di dare un modesto contributo all’“escogitare rimedi praticabili” che ci vorremmo qui concentrare su un quarto paradosso esaminato da Bobbio in quegli scritti: quello del difficile rapporto fra democrazia e tecnocrazia. Le società in cui viviamo sono sempre più complesse e i problemi che all’interno di esse vengono generati richiedono sempre più competenze specialistiche per essere gestiti. Ma il principio della competenza fa a pugni con il principio della democrazia. Vale la pena qui riportare per intero le parole di Bobbio a proposito del grande tema della gestione del sistema economico: “chiedere più democrazia vuol dire chiedere l’estensione delle decisioni che sono di competenza di colui che si trova ad essere, per le condizioni obiettive dello sviluppo delle società moderne, sempre più incompetente, il che vale soprattutto nel settore della produzione, proprio nel settore che di fatto si è sottratto sino ad ora, tanto nei paesi a economia capitalista quanto in quelli a economia socialistica, a ogni forma di controllo popolare, e che è quello in cui si vince o si perde la sfida democratica”.

Non mancano nella cronaca degli ultimi due decenni gli esempi di come grandi questioni di carattere economico abbiano avuto un ruolo cruciale nella nostra vita collettiva. E di come il dibattito attorno ad esse abbia dominato una conversazione pubblica non più presidiata dai gates keepers di un tempo (partiti politici, organizzazioni sindacali, grandi organi di stampa, intellettuali “di riferimento”). Si pensi alla crisi finanziaria del 2007-2008, seguita dalla crisi del debito sovrano nei paesi della periferia europea. Oppure alle più recenti vicende legate alla pandemia da Covid 19: una paralisi del sistema produttivo che ha innescato una recessione economica senza precedenti in tempo di pace; seguita da un piano di ripresa a livello europeo anch’esso (quasi) senza precedenti, dato che prevede l’emissione di debito comune; a sua volta seguito dal grande ritorno di un fenomeno che sembra ormai estintosi nelle economie occidentali contemporanee: l’inflazione. Infine, ed è notizia delle ultime settimane, lo spettro di una nuova crisi finanziaria globale originata dal fallimento di alcune banche americane legate al settore high-tech.

Ora, con un po’ di quel sano disincanto che Bobbio raccomandava di avere quando si cerca di capire il funzionamento di corpi politici “reali” (esiste una democrazia “reale” tanto quanto è esistito un socialismo “reale”: in entrambi i casi le loro dinamiche sono molto diverse da quelle descritte nei rispettivi modelli ideali), possiamo domandarci: quanti cittadini italiani hanno le competenze necessarie per capire anche solo il vocabolario usato quando si parla delle questioni appena citate? Quanti sanno che cos’è il prodotto interno lordo, l’inflazione, o la differenza fra il deficit e il debito pubblico? Volendo alzare ulteriormente l’asticella dell’ambizione per un dibattito pubblico realmente partecipato e informato: quanti cittadini hanno una qualche idea – se pur vaga e approssimativa – di come funziona una banca centrale o un mercato azionario? Pochissimi. Per chi volesse avere qualche dato sul livello di alfabetizzazione economica e finanziaria degli italiani rimando ad un mio breve articolo, scritto insieme a Giovanni Carnazza, pubblicato recentemente su lavoce.info. Ciò su cui mi preme soffermarmi ora è l’educazione finanziaria come sfida democratica.

La tensione fra tecnocrazia e democrazia è una caratteristica inevitabile delle nostre società. Il principio democratico non è “assoluto”: ad esempio, anche nelle democrazie più avanzate e mature nessuna forza politica sostiene seriamente la tesi secondo cui il governatore della banca centrale dovrebbe essere direttamente eletto da tutti i cittadini (si badi bene: non sottoposto ad un qualche mandato politico. Direttamente eletto dai cittadini). Ma è una tensione che non può risolversi con il semplice prevalere di un modello tecnocratico a discapito del principio democratico, pena la fine della democrazia stessa. Perché ciò non avvenga è innanzitutto necessario dedicare una qualche attenzione alle condizioni entro cui il dibattito pubblico prende forma e il processo di aggregazione delle domande politiche viene organizzato.
C’è qualche proposta concreta che si può avanzare per uscire dal velleitarismo contro cui protestava – giustamente – Bobbio? Ecco una proposta minimale, ma concreta: l’insegnamento di lineamenti di economia e finanza dovrebbe essere esteso a tutte le scuole superiori, dunque anche a quelle dove attualmente non è parte degli insegnamenti curriculari.

Proposte simili sono state avanzate in passato nel nostro Paese. La tiepidezza – se non addirittura la diffidenza o l’aperta ostilità – con la quale sono state accolte può forse essere spiegata con la difficoltà di tradurre in un programma scolastico quella stessa materia che fuori dall’aula – lo abbiamo appena visto – è al centro delle principali discussioni politiche contemporanee, e come tale è inevitabilmente attraversata dai pregiudizi, le passioni, le ideologie, le “visioni del mondo” degli uomini e le donne del nostro tempo. Ma non è forse questa una buona ragione per non lasciare la formazione economica e finanziaria degli italiani alla dubbia premura di qualche blogger cospirazionista? La storia e la filosofia sono anch’esse “materie incandescenti” da questo punto di vista. Dobbiamo eliminare l’insegnamento della storia del Novecento perché è troppo “divisiva” e non è possibile mettersi d’accordo su come andrebbe insegnata?  O dobbiamo forse eliminare l’insegnamento della filosofia per proteggere i nostri giovani dalle geremiadi di Nietzsche contro la ragione, la morale degli schiavi e la democrazia?  Nel nostro paese vige il principio della libertà di insegnamento, che è tutelato dalla nostra Costituzione (articolo 33) ed è uno dei tanti motivi per cui – fra mille dubbi e preoccupazioni – possiamo ancora coltivare più di qualche fondata speranza sul futuro della nostra democrazia. È quel principio che offrirebbe la cornice generale ad un nuovo insegnamento di economia e finanza, come la offre a tutti gli altri.

C’è poi un altro argomento a cui ha dato recentemente voce un intellettuale sensibile ed equilibrato come Michele Serra commentando su la Repubblica una proposta di legge presentata in parlamento per l’educazione finanziaria nelle scuole. “Ho rispetto del denaro, ma solo perché ho rispetto del lavoro. Non ho rispetto di chi considera i quattrini come la misura del mondo. Quasi tutta la politica, negli ultimi trent’anni, ha rinunciato a parlare d’altro perché parla quasi solo di soldi: come meravigliarsi, poi, se ha perduto tutto o quasi il suo prestigio?”. La riflessione si conclude con la citazione di un verso di una canzone di Giorgio Gaber: “Non insegnate ai bambini/la vostra morale/è così stanca e malata/potrebbe far male”.
Credo che questa volta Serra abbia sbagliato bersaglio. Parlare di soldi significa parlare delle vite delle persone, e inevitabilmente delle loro prospettive di realizzazione e felicità. È ancora una volta la nostra Costituzione che può aiutare ad orientarci quando riconosce gli “ostacoli di ordine economico” come un impedimento al “pieno sviluppo della persona umana” (articolo 3). Insegnare a comprendere questi ostacoli, dovrebbe essere il primo passo per poterli rimuovere.

[1] I due saggi, insieme ad altri tre scritti sullo stesso argomento, sono stati pubblicati nel 1976 da Einaudi in una raccolta intitolata “Quale socialismo?”

 

Foto Flickr | Antongiulio Manieri



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