Un’idea di democrazia: normativa o consolatoria?

L’ultimo libro di Salvatore Veca, “Il mosaico della libertà – Perché la democrazia vale” (Bocconi Editori), presenta argomenti obsoleti. Non considera che il problema attuale non è più la lotta della democrazia contro il fascismo ma quella contro il fascismo nella democrazia.

Pierfranco Pellizzetti

«Oggi il termine ‘democrazia’ è come una catasta di mobili nella soffitta di una vecchia casa, che dopo duecentocinquant’anni di ritocchi continui appare sempre più grande»
Robert A. Dahl[1]
«Quando le oasi utopiche si esauriscono si diffonde un deserto di banalità»
Jürgen Habermas[2]

Di cosa si sta parlando?

In questi tempi di montante restaurazione oscurantista può procurarci conforto il «tentativo di render conto, da un punto di vista teorico, della natura e del valore della democrazia ai tempi della sua fragilità, del suo disagio e dell’offensiva aperta da regimi autocratici di differente natura», quale promette l’autore in premessa del suo pamphlet.

Tutto ciò a patto ci sia chiarezza di che cosa si sta parlando. Ossia l’essenza del reggimento liberal-democratico emerso nel corso delle “rivoluzioni borghesi” del lungo Settecento (inglese, americana, francese: 1689-1789). Il singolare paradosso della prima società senza fondamenta, di una convivenza che rinuncia preliminarmente alla risorsa del sacro, per cui – disse una volta Paolo Flores d’Arcais – «la democrazia è come il barone di Münchausen: si regge nel vuoto per il proprio colletto»[3].

Con le parole di Alexis de Tocqueville – grande analista dei primi passi di quella che è la principale invenzione politica dei moderni – l’ordinamento nato “tra le maestose sequoie del New England”: la democrazia rappresentativa.

Per questo balza agli occhi il debito che Veca dichiara nei confronti «dello studioso di teoria sociale e amico Alessandro Pizzorno», stante l’abisso che separa un dichiarato “ermeneuta del sospetto”[4], come quest’ultimo, e un apologeta, quale il nostro autore.

Insomma, non basta certo una spruzzatina di Albert Hirschman, Karl Polanyi o di Luciano Gallino per accreditarsi intemerato critico “alla Pizzorno” del panglossismo propugnatore dell’inevitabile avvento del migliore dei mondi possibili; dichiarando – come si legge nel testo in questione – che «questo libro è un tentativo di rispondere alla domanda elementare: perché la democrazia come fatto politico e istituzionale per noi vale ed è preferibile ad altri assetti e regimi politici e istituzionali?».

Del resto basta controllare che cosa proprio Pizzorno scriveva già quattro decadi fa in materia di fenomenologia della rappresentanza: «il terreno pluralista favorisce il sorgere di nuove identità collettive ma la struttura della rappresentanza tende ad assorbirle e limitarle». Sicché, «ogni volta che il sistema si ristabilizza ci appaiono più insopportabili lo spreco e la perdita di ricchezza umana, quasi gli anelli del feed-back di riequilibrio operassero con maggior durezza e, dissipando sempre più preziose energie, si allontanassero a spirale dal terreno di una democrazia accessibile a tutti. L’orgoglio dell’invenzione politica occidentale, il pluralismo, ci appare destinato ad accrescere il cinismo fra i potenti, la segretezza tra i governanti e l’indifferenza fra i membri della città»[5].

In altre parole, la rappresentanza come marchingegno per tenere a bada l’espressività sociale (il pluralismo); smascheramento critico che ci porta a cogliere l’essenza dell’instaurazione democratica nel suo momento emergente, rappresentato dalla fase americana delle rivoluzioni settecentesche. In qualche misura il suo “cuore di tenebra”. Cioè l’annidarsi nel lato oscuro dell’ethos democratico di una pulsione demofobica; conseguente al fatto che i Padri Fondatori erano espressione di una plutocrazia coloniale che esplorava nuove vie per tenere a bada il popolo attraverso la propria straordinaria capacità di maneggiare carte truccate. Come ha scritto lo storico radicale (suvvia, critico) Howard Zinn, «intorno al 1776, alcuni personaggi eminenti delle colonie inglesi fecero una scoperta che si sarebbe dimostrata enormemente utile per i successivi duecento anni. Capirono che creando una nazione, un simbolo, un’unità di diritto chiamata Stati Uniti, potevano impadronirsi della terra, dei profitti e del potere politico sottraendoli ai favoriti dell’Impero britannico. Nel contempo avrebbero potuto prevenire una serie di rivolte potenziali e creare un consenso, un sostegno popolare intorno al governo di un nuovo gruppo dirigente privilegiato». Sicché, «la Rivoluzione americana, sotto questo profilo, fu un’impresa geniale e i padri fondatori meritano l’omaggio ammirato che è stato loro tributato nel corso dei secoli. Crearono il sistema di controllo più efficace dei tempi moderni e mostrarono alle future generazioni di leader i vantaggi che si ottengono associando il paternalismo al comando». Dalla esemplare ed eloquente Dichiarazione d’Indipendenza di Filadelfia al ben più sordido e invasivo “capitalismo della sorveglianza” a mezzo algoritmi di Google e Facebook.

Nella formulazione paternalisticamente accattivante/mistificante di James Madison, “la creazione di aristocrazie democratiche” («un corpo scelto di cittadini che per la loro saggezza possano meglio individuare il reale interesse del loro paese»[6]). Il tutto all’insegna sbandierata della libertà. Tanto da riproporre l’eterna questione che ci ricorda Pizzorno: «è mai esistita un’era liberale?»[7].

In effetti potremmo dire che sì, un’era liberale c’è stata, a patto di farla coincidere con l’affermazione di un assetto dominante – scaturito a seguito delle rivoluzioni che nel succitato Lungo Settecento hanno liquidato l’Ancien Régime aristocratico – a guida di élites del Terzo Stato che si proclamavano liberali. Nel permanente quanto inconfessato retro-pensiero che si scrive “libertà” ma si legge “proprietà”.

Salvare la democrazia dai suoi cantori rasserenanti (e depistanti)

I ragazzacci della Nouvelle Vague di sessant’anni fa avrebbero definito cinemà de papà l’idea consolatoria di una democrazia che si impone grazie all’idea di giustizia e al principio normativo che «uguale rispetto è la risposta dovuta alla dignità». Da cui la battuta a quattro mani di Ivan Krastev e Stephen Holmes su «persone inesplicabilmente convinte che la democrazia conferisse al popolo il diritto di replica»[8].

Santa ingenuità, declinata nel sistema sociale delle disuguaglianze creato dalla rawlsiana “lotteria delle nascite”, combinata alla braudeliana/wallersteiniana suddivisione del mondo in centri e periferie. Il tutto intersecato da rapporti di forza che determinano la divisione tra chi sta su e chi sta giù, chi comanda e chi obbedisce. Perché – come ci ricorderebbe il vecchio Adam Smith – non dalla benevolenza

Quindi, recependo frammenti di saggezza offerti da personaggi non annoverabili tra le menti volte al bene – il disincantato Machiavelli (“è la disunione ad aver fatto grandi le repubbliche”), il cinico Carl Schmitt (“le categorie del politico sono hostis/amicus”) e l’economista di Pinochet Milton Friedman (“nessun pasto è gratis”) – potremmo ricordare che il vero e solo motore della democrazia è il conflitto sociale. Come diceva – quella sì – una mente volta al bene “la bellezza della lotta”: Luigi Einaudi

Altrimenti non si comprenderebbe l’essenza dell’ideal-tipo popperiano della Open Society, sempre suggestivo seppure ormai passato di moda («oggi per molti cittadini disincantati l’apertura del mondo è più causa di inquietudine che di speranza»[9]): l’idea che il pensiero critico e il conseguente ordinamento democratico sarebbero diretta conseguenza di processi sociali ascensionali – il fenomeno dei cosiddetti “ceti emergenti”, creati dalle ricchezze accumulate tramite le attività mercantili – che in età classica mettevano in discussione le tradizionali gerarchie tribali. Processi di mobilità verticale riscontrabili – appunto – nella Grecia classica, con particolare significanza nel caso ateniese; poi ripresentatisi nell’età comunale in Italia e Fiandra. Con due conseguenze per un’idea disincantata del processo democratico:

1. Sono le dinamiche competitive ad “aprire” la società, non le predicazioni benpensanti, e la democrazia ne riequilibra le rotture (mentre il meccanismo maggioranza-opposizione – il “modello Westminster” – riassorbe le pulsioni distruttive della guerra civile simboleggiandole in una rappresentazione depurata dalla violenza. Spiegava Giorgio Galli a noi ragazzini borsisti del CESES);

2. Il fenomeno è specificamente occidentale, unico terreno storico di coltura dell’individualismo come soggettività socio-economica (le figure del bürger e del citoyen), la cui mancanza ha reso fallimentari anche i recenti esperimenti di democracy building (declassando il testo di Amartya Sen sulle democrazie africane e asiatiche pre-europee quale suo esito saggistico meno felice[10]…).

Di conseguenza, la “fragilità della democrazia” che tanto angustia Veca (e noi con lui) non è altro che la conseguenza delle sue modificazioni strutturali: l’azzeramento del conflitto tramite l’eliminazione degli antagonismi che fungevano da contrappeso ai soggetti dominanti e ne contemperavano le logiche del comando.

Se conveniamo con il sociologo di Berkeley Manuel Castells che, «in ultima analisi, la democrazia risiede nella capacità di contrastare il potere dell’eredità, della ricchezza e dell’influenza personale con il potere della moltitudine»[11].

Eliminazione del contrappeso tanto a livello istituzionale come nell’arena sociale degli interessi contrapposti. Varco spalancato alla migrazione verso la “post-democrazia”, in evoluzione verso la “democratura” (le regole democratiche ridotte a guscio vuoto, involucro di pratiche illiberali di stampo assolutistico).

Nel primo caso si tratta del pensionamento della veneranda tripartizione cara a Montesquieu dei poteri in esecutivo, legislativo e giudiziario, in reciproco controllo; soppiantata dalla composizione postmoderna della nuova triade collusiva: finanziaria, mediatica e governamentale (l’autonomizzazione dei vertici dell’esecutivo).

Sicché, per quanto riguarda l’insostituibile conflitto sociale, le pratiche del dominio si liberano da ogni impiccio praticando logiche saturnine; come l’antica divinità, divorando i propri stessi figli. La strategia perseguita dai ceti egemoni che – secondo la sintesi che ci ha offerto di recente Wolfgang Streeck – «dopo aver distrutto nella seconda metà del Ventesimo secolo la manodopera operaia, ora sta attaccando e annientando anche la classe media – in altre parole, la nuova piccola borghesia, che è il vettore stesso dello stile di vita neocapitalista e neoliberale del ‘lavora sodo e divertiti tanto’, del carrierismo consumistico che può essere considerato il fondamento culturale indispensabile della società del capitalismo contemporaneo»[12]. E in questo caso entra anche in campo la tecnologia – mentre Veca pontifica di “nuove alleanze tra scienza e società democratica” – tramite l’appropriazione in corso da parte dell’Intelligenza Artificiale del lavoro manageriale, impiegatizio, amministrativo ed educativo: le macchine che sostituiscono energie neurali e non più muscolari nel modo di produrre 4.0, in cui il lavoro morto saisit le vif. Insomma, l’informatizzazione farà alle classi medie quanto la meccanizzazione ha procurato ai ceti operai, e in tempi molto più ravvicinati. Con il risultato previsto in pochi decenni di una disoccupazione intellettuale al 50-70%. E – spiace dirlo – se saltano i freni e i denti d’arresto di questa corsa alla pulizia etnica di qualsivoglia riequilibrio in senso egualitario, ci troveremo a dover dare ragione a Luciano Canfora quando afferma che «ha vinto la libertà – nel mondo ricco – con tutte le terribili conseguenze che questo comporta e comporterà per gli altri. La democrazia è rinviata ad altre epoche, e sarà pensata, daccapo, da altri uomini. Forse non più europei»[13]

Salvare il salvabile

«Vi è una certa tendenza a considerare romantiche, idealistiche o addirittura utopiche le affermazioni a favore delle virtù della democrazia. Forse lo sono. La civiltà stessa, scriveva Yeats, è tenuta insieme da una rete di illusioni, e fra queste la democrazia è indubbiamente tra le più seducenti»[14]. Concordo su questo punto con Benjamin Barber: la prospettiva di un’effettiva istaurazione democratica – rettamente intesa – rimane l’unico punto di riferimento plausibile per uscire dall’impasse che soffoca le società dell’Occidente, dopo che l’altro paradigma storicamente mobilitante – il socialismo – è diventato anacronistico nella transizione post-industriale dal capitalismo industrialista alla plutocrazia finanziaria globalizzata.

Una democrazia oggi svuotata attraverso il silenziamento del discorso pubblico.
Dunque, l’ormai ultra-quarantennale sottomissione del Politico all’Economico. Per cui lascia francamente basiti leggere l’appello benpensante di Veca per “un nuovo patto tra economia e società democratica”. Quando la vera condizione per la restaurazione della primazia democratica è la ripresa del controllo sull’economia da parte della politica; intesa nell’accezione erasminana: il dibattito partecipato sulle risposte strategiche alle sfide del proprio tempo. A partire dalla modalità di fuoriuscita dalla prova terribile dell’ultimo biennio pandemico. Sicché, ancora una volta ci si ritrova perplessi innanzi all’ottimismo di maniera riguardo agli effetti del Covid-19 sugli assetti politici, sociali e culturali nell’ipotetico ritorno alla normalità. La pandemia come opportunità di «delineare i fondamenti di un futuro cui corrisponda un’immagine di liberazione e di emancipazione umana che preservi l’eco dei valori del progresso e della giustizia sociale ai tempi di un rinnovato patto tra società, scienza e natura». Un esercizio da anime belle mentre appaiono evidenti le tendenze restaurative. Che appaiono in tutta evidenza dall’osservatorio italiano, dove ci si affida alle cure di un algido banchiere, espressione icastica di quegli ambienti che perseguono la normalizzazione dopo la grande paura (e le temporanee concessioni buonistiche) rappresentata dall’avvento della nuova “peste nera”. Quella retromarcia in atto anche sulla questione energetica, gestita da un tecnico di Palazzo che pretende di far tacere anni di allarmi disperati sull’antropocene praticando tecniche diversive basate ancora una volta sulle guerre tra ultimi: il terrorismo di una riconversione energetica che va rimandata alle calende greche per evitare la distruzione delle industrie e – di conseguenza – dell’occupazione. Si diceva: a tempi lunghi siamo tutti morti…

Intanto la spossatezza, indotta dalle strategie anestetizzanti del potere, raggiunge la sua acme e – ormai – il sentimento che prevale nella pubblica opinione è il fatalismo. La migliore garanzia che tiene bloccata ogni ipotesi di ritorno in funzione del ruolo della politica. In fondo lo scenario che con straordinaria preveggenza delineava Albert Hirschman ben quattro decadi fa: «da questo punto di vista, le azioni terroristiche di pochi che hanno insanguinato diverse democrazie moderne rappresentano il contraltare dell’apatia della maggioranza; sono entrambe reazioni alla limitazione della partecipazione politica imposta dalle istituzioni democratiche»[15]. Quindi – invece di perdere tempo con i rosari dei buoni sentimenti – s’imporrebbe un impegno attivo in politiche che riconquistino alla politica dei cittadini le istituzioni di governo; la priorità d’agenda della riflessione/azione su come può prendere corpo il soggetto sociale in grado di ribaltare i rapporti di forza vigenti. La rifondazione di quella che Roberto Mangabeira Unger definisce in maniera pittoresca “democrazia ad alta energia”; capace attraverso l’aggregazione sociale di sconfiggere il blocco di interessi con cui la Destra ha conquistato il consenso necessario per smantellare l’alleanza newdealistica e welfariana («il successo dei conservatori nel combinare gli interessi economici delle classi più abbienti con l’appello alle convinzioni morali e allo scetticismo della classe operaia di razza bianca»[16]). Noi diremmo la coalizione degli abbienti con gli impauriti. Su cui continuano a scrivere considerazioni interessanti due signore che non hanno timore di definirsi “populiste”: Chantal Mouffe e Nancy Fraser.

Mentre – mi spiace dirlo – risulta abbastanza depistante il conformismo con cui Veca si intruppa dietro Urbinati e gli altri violinisti del luogo comune nella demonizzazione del populismo come sinonimo di demagogia. Quando questa posizione, che dall’Ottocento russo e dal primo Novecento americano è sinonimo di denuncia dell’involuzione etica delle élites del potere, si attualizzò nelle parole d’ordine scandite dalle maree di indignati contro la finanza assassina che nel 2011 occuparono con i loro quartieri le piazze di novecento città dell’Occidente. Mentre la realtà irreale e mistificatoria disegnata dalla critica del populismo pretende di descriverci la contrapposizione tra due schieramenti in campo: da un lato le bande populiste mischiate con la feccia sovranista, suprematista, terrapiattista e altra umanità; fronteggiate – dall’altro – dagli sparuti manipoli dei responsabili schierati a difesa della civiltà liberal-democratica. Quando – in effetti – buona parte di quella civiltà inclusiva ed egualitaria è stata massacrata proprio da chi si mimetizza dietro gli stendardi della responsabilità, protetto da un’incommensurabile potenza mediatica. Dunque, un’operazione denigratoria per screditare un avversario che si intende mettere fuori gioco in quanto minacciante

Appunto: quella del 2011 fu l’ultima mobilitazione dell’indignazione democratica a Occidente. Quella democrazia occidentale che – secondo il mosaico della libertà – non sarebbe «certo monopolio di qualche ‘noi’ occidentale.[…] E questo non ce lo dicono certo i tiranni. Questo ce lo dicono, e lo gridano nelle piazze in giro per il mondo, le loro vittime».

Probabilmente l’ennesimo abbaglio consolatorio. Ad esempio, se non s’inganna il politologo bulgaro Ivan Krastev, presidente del centro di strategie liberali di Sofia, quando ci ricorda che «in Europa orientale, per la generazione della seconda guerra mondiale il comunismo era il ‘dio che ha fallito’. Per la generazione attuale nella regione, il dio che ha fallito è il liberalismo»[17].

Questo per dire che dopo lo scempio che è stato fatto di quella conquista della Saggezza dell’Occidente che chiamiamo democrazia, la pretesa di proporla come valore universale richiede una profonda revisione. Ben di più di un semplice make up.
Semmai il cambio (come prescriveva Keynes) del motorino d’avviamento sinistrato dal laissez faire, dell’albero di trasmissione, dell’intera strumentazione e – soprattutto – del team alla guida.
Visto che il problema attuale non sembra più la lotta della democrazia contro il fascismo ma quella contro il fascismo nella democrazia.

NOTE

[1] R. A. Dahl, I dilemmi della democrazia pluralista, EST, Milano 1996, pag. 12.

[2] J. Habermas, La nuova oscurità, Edizioni Lavoro, Roma 1998, pag. 52.

[3] P. Flores d’Arcais, MicroMega 2/2005

[4] A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano 1993, pag. 22.

[5] A. Pizzorno, “Il sistema pluralistico di rappresentanza” in L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale (a cura di S. Berger), il Mulino, Bologna 1983 pag. 413.

[6] J. Madison, The Federalist No. 10.

[7] A. Pizzorno, Le radici della politica, cit., pag. 232.

[8] I. Krastev e S. Holmes, La rivolta antiliberale, Mondadori, Milano 2020, pag. 133.

[9] Ivi, pag. 4.

[10] A. K. Sen, La democrazia degli altri, Mondadori, Milano 2004.

[11] M. Castells, Comunicazione e Potere, Università Bocconi Editore, Milano 2009, pag. 466.

[12] W. Streeck, Come finirà il capitalismo, Meltemi, Milano 2021, pag. 22.

[13] L. Canfora, La democrazia, Laterza, Roma/Bari 2010, pag. 367.

[14] B. R. Barber, L’impero della paura, Einaudi, Torino 2004, pag. 209.

[15] A. O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, il Mulino, Bologna 1995, pag. 132.

[16] R. M. Unger, Democrazia ad alta energia, Fazi, Roma 2007, pag. 91.

[17] I. Krastev e S. Holmes, La rivolta antiliberale, cit. pag.26

 

(credit foto ANSA/STEFANO PORTA)



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