“Democrazia o capitalismo?”, in ricordo di Gáspár Miklós Tamás

Il 15 gennaio scorso è morto il filosofo e intellettuale ungherese Gáspár Miklós Tamás. Lo ricordiamo ripubblicando il suo articolo "Democrazia o capitalismo?" uscito su MicroMega 7/2015

Gaspar Miklos Tamas

La vulgata dominante in Occidente pone un nesso inscindibile fra democrazia e capitalismo, come se l’uno fosse condizione dell’altra. La cosiddetta sinistra anticapitalista, paradossalmente, in questo si trova perfettamente d’accordo con i sostenitori della ‘democrazia liberale’, fornendo loro un argomento in più per la conservazione dello status quo. Ma è proprio così? C’è spazio per una democrazia che metta in discussione il sistema capitalistico? 

Secondo la tesi trionfante nel mondo, ma soprattutto in Europa, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, anche se non tutti i tipi di capitalismo sono democratici, tutte le versioni di democrazia sono, necessariamente, capitaliste.

Dal momento che nessun sistema politico moderno, e in particolare nessuna variante del «socialismo reale», è stato in grado di trascendere l’orizzonte del capitalismo, non si tratta di una grande scoperta. Poiché tutti i sistemi politici moderni si basano sulla produzione di merci e sul lavoro salariato, governato dal valore e guidato dal bisogno di accumulazione, tutte le democrazie (e le non-democrazie) moderne sono, per definizione, capitaliste.

Quel che va analizzato è se la tesi dominante, cioè che le democrazie liberali, cioè costituzionali – con la tipica separazione dei poteri, Stato di diritto, diritti umani, libertà civili, libere elezioni e plebisciti, sovranità dell’individuo, proprietà privata garantita, pluralismo, laïcité, tolleranza, limiti alla legittima coercizione (habeas corpus) eccetera – sono davvero conciliabili con il capitalismo, e se il capitalismo sia condizione inevitabile di una tale democrazia. Curiosamente una parte della sinistra anticapitalista sembra rafforzare questa impressione sostenendo che le democrazie liberali (anche note come «regimi dello Stato di diritto») sono fatte in modo tale da rendere possibile la supremazia indiscussa del capitale e, spesso, quella della borghesia. In questa prospettiva, la democrazia costituzionale o liberale, o dello Stato di diritto, è lo strumento del capitale, e di conseguenza il rapporto tra capitale e questo tipo di democrazia non è contraddittorio o conflittuale, e dunque loro (la sinistra che diffida del compiacimento liberal-democratico) finiscono per trovarsi d’accordo – anche se ostili – con l’establishment liberale e conservatore.

Ma è proprio così?

Il fatto è che in tutte le modalità storiche di democrazia liberale (costituzionale) ovvero di «governo rappresentativo» senza eccezioni, la gerarchia sociale e culturale e l’oligarchia economica (disuguaglianza), che alla fine coincidono con il dominio di una classe, sono sempre esistiti, e questo significa, naturalmente, che l’entità cui fa riferimento l’idea della libertà è esagerata e che le limitazioni sociali (a volte legali e politiche) che pone all’azione umana (individuale e di gruppo) e alla «libera scelta» vanificano il presupposto che tutti siano ugualmente liberi – che la volontà di ognuno abbia lo stesso impatto sull’azione collettiva – e dunque ne consegue che il capitalismo non permetterebbe il dispiegarsi di una «società libera» come concepita dalla teoria borghese. Ciò che qui più importa è che non sono le «influenze» informali a precludere la realizzazione o il pieno rispetto dei corretti princìpi costituzionali, ma è la natura istituzionale del capitalismo a contraddire i princìpi fondamentali della stessa democrazia borghese. In questo abbiamo molto da imparare da Rousseau e Robespierre.

Ma c’è qualcosa che non funziona in questo quadro.

Perché significherebbe l’accettazione acritica dell’odierna affermazione ideologica, e cioè che il governo rappresentativo, lo Stato di diritto, il riconoscimento della «società civile» e della «Öffentlichkeit» significherebbero la «democrazia». Vale a dire, che la cosiddetta democrazia liberale è la democrazia. Ma questo non è ovvio.

L’espressione «democrazia liberale» vuole sottolineare che l’assetto istituzionale dell’Occidente dopo il 1945 (basato su diverse convenzioni internazionali che garantiscono i diritti umani e i diritti civili) è equivalente alla democrazia, ed offre tanto quanto la democrazia, se non addirittura di più, una condizione conciliabile con la dignità di uomini e donne liberi. E, quel che più conta, dopo le esperienze orribili delle dittature moderne, promette di difenderci dalle interferenze illegittime del governo nella vita privata e garantisce a tutti il regolare processo in caso di conflitto o di pericolo. Il pluralismo, la tolleranza, la libertà di espressione, la separazione di Chiesa e Stato e così via riducono la pressione delle istituzioni sui privati cittadini. È la classica immagine della «libertà negativa», dell’assenza di coercizione. Se non ci sono gruppi preselezionati soggetti a coercizione e altri gruppi esentati dalla stessa, esiste una possibilità concreta di uguaglianza politica. Se le istituzioni devono giustificare le loro azioni che potrebbero limitare la libertà degli individui e dei gruppi – e questa giustificazione deve essere pubblica e aperta alla discussione – allora i conflitti sociali possono essere trasformati in dibattiti pubblici nei quali non è necessariamente la forza a dire l’ultima parola.

Nelle moderne «democrazie liberali», l’equilibrio tra governo e governati è di solito stabilito dalla Costituzione – un quadro giuridico generale e permanente che limita il campo dell’azione politica – e di cui la legge impone il rispetto ai politici. Se viene a mancare anche uno solo degli elementi principali di questo equilibrio delicato, anzi precario, o se è anche solo adombrato il loro ribaltamento, si avverte il pericolo per la libertà e la necessità per lo Stato liberale di essere assistito da organizzazioni non governative – le forze della società civile, l’opinione pubblica, la stampa, i movimenti politici e sociali – per tenerlo all’interno dei confini designati e aiutarlo a resistere alla tentazione di esercitare un potere arbitrario e sottomettere l’interesse pubblico a quello privato. Tale resistenza in armonia con lo spirito della Costituzione è considerata legittima – quindi è falso asserire che la «democrazia liberale» richieda la passività politica. La disobbedienza civile in accordo con lo spirito della Costituzione non solo è ammessa, ma incoraggiata e ammirata.

Quella che viene abitualmente definita «libertà positiva», almeno a partire dal famoso saggio di Sir Isaiah Berlin, appare sempre più come superflua o, meglio, come un mezzo estremo per ristabilire o difendere la «democrazia liberale» minacciata. Non vogliamo parlare dei regimi in cui c’è solo una parvenza di «democrazia liberale», dove non ne vengono sinceramente rispettati i precetti o dove gli abusi del governo ne scherniscono i princìpi fondamentali, per quanto frequenti possano essere tali fenomeni.

Ciò che qui ci preme è stabilire prima di tutto cosa sia la democrazia al di là delle sue diluizioni concettuali contemporanee e poi verificare se la nozione originaria di democrazia, attinta a fonti tradizionali e all’intuizione storica, possa o meno coesistere con il sistema di fatto dominante, il capitalismo o la democrazia «liberale» e «parlamentare», cioè il governo rappresentativo e il costituzionalismo moderno.

Per riassumere l’esperienza storica, potremmo dire che la democrazia significa la supremazia del popolo, cioè della volontà popolare sulle istituzioni.

Da sempre, le élite la fanno coincidere con l’anarchia, o peggio col predominio dell’elemento più vile su quello più degno, con la supremazia degli appetiti animali sull’intelletto, con il caos, il disordine e, infine, con il dispotismo. La mente umana ignorante, in assenza di regole e di autorità, sarà sempre (asseriscono) incapace di affrontare la complessità della cosa pubblica, dalla pubblica amministrazione all’economia e alla guerra. Si è detto, ripetutamente e con grande passione, che il potere popolare è comunque potere, e l’obiettivo dell’ordine liberale è domare e neutralizzare il potere (di qualsiasi tipo) piegandolo alla legge e alla sua esecuzione, sostituendo la violenza con il Testo. Ordini, decreti, statuti, leggi, Costituzioni sono testi, non persone: è linguistica, astrazione semantica e concettuale – precisa, immutabile nel significato, permanente, impermeabile all’improvvisazione capricciosa, affidabile – che sostituisce, o almeno ammorbidisce, la volontà dei governanti. Se le istituzioni, testuali per natura, sono subordinate all’incessante deliberazione collettiva, influenzate da passioni, predilezioni, pregiudizi, allora la libertà non durerà a lungo. Questa è la saggezza antirivoluzionaria secolare che si fonda – a ben vedere – su una visione piuttosto curiosa della società umana.

Non meno curiosa, per il fatto di essere nota seppure non analizzata.

Anche se accettiamo che laddove non esiste struttura – e con struttura la maggior parte delle persone intende gerarchia – non vi è razionalità, e che dunque i gruppi umani non strutturati («masse», «folle», «mostri») siano puramente passionali, dovremo riconoscere che esistono imprese non strutturali e non istituzionali dell’intelletto. Come dice polemicamente Leo Strauss in The Three Waves of Modernity della poesia «non più intesa come imitazione o riproduzione ispirata, ma come creatività» e come è di altre istanze dell’invenzione, compresa quella filosofica. (Ed è proprio Leo Strauss a riconoscere che i più grandi filosofi della politica non sono mai stati ecclesiastici o professori universitari, ma privati individui.) La tesi della ragionevolezza esclusiva delle istituzioni non spiega l’intelletto non mimetico, per non parlare dell’innovazione proveniente, come dire, dall’esterno. Poiché non esiste un fatto isolato della cultura – tutti i fatti culturali sono sociali, hanno bisogno di comprensione e di accoglienza – non si può nemmeno affermare che al di là delle strutture istituzionali non ci siano altro che individui, più o meno isolati.

È certamente possibile concepire sia strutture gerarchiche sia organizzazioni sociali o culturali informali (in entrambi i casi si tratta di modalità e di fenomeni basati sul linguaggio) come istituzioni (la contro-cultura è anch’essa cultura, e le contro-istituzioni sono anch’esse istituzioni), ma in tal caso salta l’esclusività della ragione istituzionale. Negli Stati moderni, i tentativi di riconoscere solo ciò che è formale e istituzionale, individuando la ragione come istituzionale e ciò che è extraistituzionale come passionale, per quanto forti e dominanti sono destinati al fallimento.

Tuttavia, a causa di abitudini mentali fortemente radicate e di luoghi comuni ideologici, la volonté générale è ancora ritenuta nemica della libertà. Ma perché?

Forse per qualcosa di più della solita avversione delle classi alte per le volgari masse. A quanto pare per effetto di un’analisi errata della tragedia del XX secolo. L’ipotesi dominante, la teoria del «totalitarismo», è stata degradata a una dottrina secondo la quale la tirannia nazista e quella stalinista sarebbero in qualche modo l’espressione del sentimento popolare contro il capitalismo liberale, un sentimento animato da invidia e da odio (è assai bizzarra la teoria per cui lo «statalismo», vale a dire l’iper-istituzionalismo coinciderebbe con l’irrazionalismo delle masse e la rabbia anti-istituzionale e la sfida più grande all’idea di uguaglianza, ovvero il razzismo genocida di Stato, affonderebbe le radici nella rabbia egualitaria). In quest’ottica, rivoluzione e controrivoluzione sarebbero, indipendentemente dalla loro finalità e sostanza sociale, espressioni dell’informalità irrazionalista e dunque la dittatura totalitaria sarebbe l’ultima parola del «popolo». (A proposito, se fosse vera la teoria per cui il nazionalsocialismo, per esempio, è stato il risultato di una genuina passione popolare egualitaria, vorrebbe dire che vi è stata di fatto una dominazione ebraica del mondo.)

Ma poi, i difensori della «democrazia liberale» controbatteranno che il controllo popolare delle istituzioni del Rechtsstaat è possibile attraverso elezioni periodiche e simili. Questo, di per sé, può essere vero (anche se in pratica spesso non lo è) fino ad un certo punto – visto che la scelta tra vari rappresentanti della classe dirigente non è gran cosa, dopo tutto – e poter limitare il potere delle élite (e questa élite include burocrati, mandarini, giudici, amministratori, «politici di professione», leader militari e capi dei servizi segreti e altri i cui interessi e le cui idee non coincidono sempre con quelli della grande borghesia) non coincide col potere della gente sulle istituzioni dello Stato. (Vorrei sottolineare che tale potere non significa l’annientamento delle istituzioni dello Stato in quanto tali – la democrazia non è il comunismo – ma solo la loro subordinazione alla volontà popolare.)

Le opinioni antidemocratiche di liberali e conservatori hanno comunque un punto dalla loro e possono essere utili alla sinistra per capire se vuole lasciarsi alle spalle l’alternativa, falsa o comunque improduttiva, tra populismo ed elitarismo. Prendiamo in esame le seguenti tesi, risultato di tale confronto.

1) In una società capitalista non esiste «il popolo» in quanto tale. La società capitalista è costituita dal valore, quindi ogni «comunità politica» deriva da un concetto. Il concetto è primario.

2) Il «popolo» è secondario, come tutto ciò che è empirico – abgeleitet – in una società capitalista.

3) La formazione della volontà popolare – volonté générale – è impossibile, non perché inconcepibile ma perché, anche prima che venga delegata attraverso il sistema rappresentativo, è predeterminata dal regime concettuale del valore.

4) L’astrazione non è solo un artificio intellettuale finalizzato alla conoscenza e alla generalizzazione necessarie per la comprensione, ma anche (o soprattutto) un nesso sociale. Questo legame tra persone e gruppi – in cui l’individualità è inferita dal concetto che è la vera caratteristica attiva della società capitalistica – è formativo per il sistema istituzionale rispecchiato dall’ideologia politica che vede tutto in termini di «individuo» versus qualsiasi altra cosa. 

5) «Concreto» è l’individuo – unico essere «concreto» riconosciuto dalla società borghese in opposizione alla realtà astratta e razionale e concettuale del potere – immaginato come qualcuno o «qualcosa» protetto da e contro questo potere vero/concettuale (come qualcosa di debole che viene difeso contro qualcosa di forte e sostanziale).

6) Nella società capitalista la democrazia è un mito – non un’utopia – in cui la volontà (non istituzionale e non razionale) va trasformata (dalla delega e dalla rappresentazione del potere che la rende indiretta) perché diventi razionale.

7) L’ideologia ufficiale si ferma subito prima di dichiarare la volontà irrazionale per se, in quanto ciò cancellerebbe ogni riferimento alla democrazia – altrimenti quale volontà rappresenterebbe il governo rappresentativo? – ma la descrive come controparte della libertà, intesa come libertà dalla volontà, come ragion pura.

8) Se la democrazia – l’autodeterminazione o l’autonomia popolare – è il mito del capitalismo (la cui sorte dipende dalla sua capacità di essere magicamente trasformato in ragione), quale sarà la sua utopia?

9) Ovviamente, il suo contrario: la trasformazione della ragione in volontà, del valore in capitale.

10) Questo è dunque libertà dal bisogno, non solo dalla povertà, ma anche dal desiderio che – in quanto corporeo, materiale, inarticolato – è la sostanza della volontà, da cui verranno liberati l’essere razionale e il discorso ragionato.

Se l’utopia capitalista è liberazione dal desiderio, un’utopia socialista dovrebbe scatenare il desiderio o stabilirne il dominio?

Non credo.

L’utopia socialista è astratta e razionale almeno quanto la sua controparte capitalista poiché a sua volta postulerebbe la liberazione, ma la liberazione dallo sfruttamento, dalla coercizione e dalla classe.

Non imposizione di qualcosa di pre-esistente (che è il ruolo e la missione del conservatorismo), ma un tentativo di progetto formulato filosoficamente. Come la volonté générale di democraticismo puro, si tratta dell’ipotesi di una verità che infiamma le menti con un processo di educazione (la lotta di classe riassunta dalla teoria rivoluzionaria). Di conseguenza, l’idea della sinistra è, come per la sua controparte borghese, una dottrina di libertà che non significa proteggere l’individuo desiderante e appassionato dalle tempeste del mondo sociale (difesa dei più deboli, soccorso dei bisognosi), ma liberazione dalla condizione ben nota e abituale di servitù e disuguaglianza in nome di qualcosa di inesistente, che è la ragione. Qui sta il pericolo della sovversione di sinistra che deve trovare il coraggio della rottura: rompere con ciò che sembra consueto o «naturale». La destra, anche la destra rivoluzionaria (fascista o altro), propone la rifondazione dell’utopia contraria, una sorta di «ordine naturale», per lo più una versione immaginaria del passato. Come è noto per la sinistra non esiste la natura umana eterna, ma solo la storia, per cui questa soluzione è preclusa. 

Tuttavia, se prendiamo sul serio il progetto liberatorio di razionalità negativa della sinistra, possiamo sostenere che non ci sono istituzioni e gerarchie soprannaturali, il che significa – ancora una volta, se preso sul serio – il trionfo del desiderio, mediato dalla ragione storica. Il desiderio non gerarchico, allontanato dalle patologie di dominio, dovrà ricreare le istituzioni al servizio della volontà morale liberata, non vincolata dal bisogno di dominare masse anonime e quiescenti. Questo incontro di ragione e desiderio, lontano dai codici testuali affermati, dalla stabilità istituzionale e dalla longevità politica della repressione, dovrà guidare l’azione della sinistra – anche se ormai quasi tutto va nella direzione opposta, soprattutto la naturalezza fittizia di «razza», «cultura» e «sesso». Il desiderio soggiogato alla gerarchia – e niente è più artificiale della gerarchia – è la sostanza suicida del fascismo. Combattendolo, combattiamo noi stessi.*

(traduzione di Maria Baiocchi)

* Questo testo è tratto da una conferenza inedita tenuta all’Università di Belgrado (Serbia) il 22 maggio 2015.

 

Foto Facebook | Orban 



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