Deputati agli arresti, ovvero le strategie di negazione del voto ai neri in Texas

Mandato di arresto ai 52 democratici che da mesi boicottano la camera bassa del parlamento contro le proposte restrizioni del diritto di voto.

Elisabetta Grande

In Texas il Sergeant at Arms, Michael Black, sta in questi giorni esercitando il suo potere di notificare il mandato di arresto – conferitogli da una House of Representatives senza quorum – ai 52 membri del partito democratico che, per non far passare le proposte restrizioni del diritto di voto, da mesi boicottano la camera bassa del parlamento a maggioranza repubblicana. Dopo le decisioni della Corte Suprema statunitense, la quale – nel 2013 e poi ancora a luglio di quest’anno – ha dato agli Stati del Sud il via libera alla modifica unilaterale delle loro procedure elettorali fuori dai limiti originariamente previsti dal Voting Rights Act del 1965, è questo il sorprendente risultato di un conflitto che tocca il cuore della democrazia statunitense.

Per capire ciò che sta accadendo in Texas occorre ripercorrere brevemente le tappe del diritto di voto negli Stati Uniti. Nonostante l’entrata in vigore, nel 1870, del quindicesimo emendamento a garanzia del suo pieno esercizio “indipendentemente da ragioni di razza, colore o previa condizione di schiavitù”, fino all’entrata in vigore del Voting Rights Act il diritto di votare in molti Stati del Sud rimase sostanzialmente negato ai neri americani. Non solo le intimidazioni e le violenze illegittimamente perpetrate nei loro confronti, ma anche gli esami di conoscenza della lingua inglese (così detti literacy tests), le tasse per accedere ai seggi (le così dette poll taxes, poi vietate nel 1964 dal ventiquattresimo emendamento della Costituzione federale) e i requisiti proprietari (spesso uniti alla grand-father clause, che eliminava quegli ostacoli per chi, inevitabilmente bianco, prima del 1867 avesse avuto un avo con diritto di voto) imposti per legge nei diversi Stati, avevano infatti fino ad allora impedito ai neri l’esercizio di quel diritto. Fu solo con il Voting Rights Act, emanato dal Congresso sotto la spinta delle forti pressioni provenienti dalle massicce proteste organizzate da chi – come Martin Luther King – si spese per la tutela dei Black People fino alla morte, che quegli impedimenti legali furono finalmente eliminati. L’effetto del Voting Rights Act fu straordinario: in quattro anni la percentuale nazionale di popolazione nera registrata al voto passò dal 23 al 61 per cento.

Quel provvedimento legislativo, a tutela della non discriminazione razziale e di censo del diritto di voto, dopo il 1965 fu più volte riconfermato in tutte le sue parti dal Congresso statunitense, che lo rinnovò periodicamente nelle sue differenti sezioni. Nel 2013, tuttavia, una Corte Suprema federale – politicamente divisa 5 a 4 – dichiarò incostituzionale la sezione 4 di quell’atto. Si trattava della sezione relativa all’individuazione degli Stati che risultavano sottoposti all’approvazione del giudiziario federale allorquando avessero voluto modificare le proprie regole elettorali, tanto in maniera minima – come nel caso in cui avessero spostato un seggio – quanto in misura sostanziale – come nel caso in cui avessero ridisegnato le circoscrizioni elettorali. Quegli Stati erano 9, fra cui il Texas e l’Arizona, oltre che l’Alabama, l’Alaska, la Georgia, la Louisiana, il Mississippi, il South Carolina, la Virginia e alcune dozzine di contee e comuni in altri Stati fra cui per esempio Brooklyn, Manhattan e il Bronx. Non fu invece toccata la sezione 5, che stabiliva quali modifiche richiedessero l’approvazione federale, la quale nondimeno – privata della sezione 4 – era dopo di allora destinata a rimanere senza effetti.

A giustificazione della pronuncia di incostituzionalità della sezione 4, il Chief Justice John Roberts scrisse a nome della maggioranza che l’individuazione degli Stati soggetti a controllo appariva eccessivamente risalente nel tempo e che essa non trovava più ragione d’essere nel 2013. Egli mise nero su bianco come il Voting Rights Act fosse stato un pilastro fondamentale nella realizzazione del movimento dei diritti civili, nonchè una “forte medicina” contro “la radicata discriminazione razziale”. Quando fu emanato, egli spiegò, in Mississippi per esempio i neri registrati al voto erano il 6,4 per cento degli aventi diritto e il gap di registrazione fra bianchi e neri era più del 60 per cento. Nell’elezione del 2004, l’ultima prima che il Voting Rights Act fosse riconfermato, la percentuale dei neri registrati in Mississippi aveva però raggiunto il 76 per cento, ossia quasi quattro punti percentuali in più rispetto ai bianchi, e nel 2012, scrisse ancora Roberts, “la partecipazione elettorale degli Afro-Americani ha superato quella dei bianchi in 5 dei 6 Stati originariamente sottoposti ai controlli previsti dalla sezione 5”.

Per quanto, dunque, la Corte Suprema degli Stati Uniti avesse in precedenza ripetutamente confermato la legittimità costituzionale del Voting Rights Act, affermando che la richiesta di controllo preventivo sulle modifiche delle norme elettorali da parte degli Stati che originariamente avevano discriminato i neri d’America aveva sempre rappresentato un efficace strumento di lotta contro il retaggio della loro condotta illegittima, lo svuotamento della sua sezione 4, avvenuta nel 2013, ne comportava tuttavia la sostanziale vanificazione.

Liberi di modificare le loro norme elettorali senza dover prima ottenere l’approvazione del Dipartimento di giustizia o di una corte federale, gli Stati del sud – precedentemente limitati in tal senso – cominciarono ad emanare una serie di legislazioni restrittive del diritto di voto, che possono ora trovare un ostacolo soltanto ex post, qualora impugnate per contrasto, fra l’altro, con la sezione 2 del Voting Rights Act, in quanto discriminatorie.

Nel 2016, proprio per la violazione di quella sezione, un gruppo di elettori chiese – insieme al partito democratico – l’intervento del giudiziario federale contro alcune normative elettorali dell’Arizona varate dopo il 2013, discriminatorie a loro avviso nei confronti dei più deboli e dei neri. Il primo luglio di quest’anno, tuttavia, una Corte Suprema nuovamente politicamente divisa – dopo le nomine di Trump questa volta 6 a 3 – ha dato loro torto, dando l’impressione di voler aprire le porte alle tante normative restrittive del diritto di voto che gli Stati hanno già emanato o sono in procinto di emanare. Vista l’alta affluenza registrata, soprattutto fra i neri, nell’ultima tornata elettorale, secondo uno studio del Brennan Center for Justice solo nel 2021 ben 33 Stati hanno, infatti, già introdotto più di 165 disegni di legge volti a limitare l’accesso al voto. D’altronde già nel 2019 il Leadership Conference Education Fund aveva reso pubblica un’analisi da cui risultava che, dopo la pronuncia del 2013 della Corte Suprema, 757 contee – prima di allora coperte dalla sezione 5 del Voting Rights Act avevano chiuso ben 1688 postazioni elettorali, penalizzando soprattutto gli elettori neri, più vecchi e diversamente abili.

È dunque l’atteggiamento apparentemente permissivo della Corte Suprema federale nei confronti delle nuove normative statali limitative del diritto di voto dei cittadini americani – in particolare di alcuni fra loro – già approvate o in procinto di esserlo, a convincere i deputati democratici del Texas che l’unica strada percorribile per tutelare i deboli e le minoranze texane sia la reazione più dura possibile contro i disegni di legge presentati alla House of Representatives: il boicottaggio dell’organo di rappresentanza. Quei deputati non possono, infatti, neppure contare sul varo di due leggi federali – il “For the People Act” e il più riduttivo “John Lewis Voting Rights Advancement Act” – che tali normative statali impedirebbero, dato il rifiuto del Presidente Biden di spingere per il superamento della regola del filibuster in Senato, che prevede che almeno 60 senatori votino a favore affinché esse siano approvate.

La partita che si gioca oggi in Texas è davvero pesante. È la democrazia stessa ad essere in ballo: tanto per via della possibile emanazione di una normativa che restringe il più fondamentale dei diritti che in essa trova casa, quanto a causa del provocato stallo del lavoro della Camera e quindi del processo attraverso cui essa si esprime. L’intervento dalla Corte Suprema del Texas, interamente repubblicana, ha poi buttato ulteriore benzina sul fuoco della partita in corso. Dichiarando legittimo, il 10 agosto scorso, un ordine della Camera che affidasse al Sergeant at Arms il compito di arrestare i parlamentari democratici ostruzionisti che si trovano nello Stato e non si presentano alla Camera, ha fatto partire una caccia all’uomo ordinata da una parte dei rappresentanti contro l’altra, con tanto di fuga di alcuni fra questi ultimi a Washington D.C.. Il gioco si fa così sempre più duro. Più che una partita di democrazia sembra, però, un conflitto condotto con armi da fuoco da vecchio far west.

(credit foto EPA/JIM LO SCALZO)



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