Viaggio nella cultura del Big Business

L'ultimo libro di Pierfranco Pellizzetti, "Dialogo sopra i massimi sistemi d'impresa", affronta globalizzazione e finanziarizzazione dell'economia attraverso un confronto con alcuni dei più alti esponenti dell'imprenditoria.

Paolo Costa

Nel momento in cui mi accingo a dire qualcosa sull’ultimo lavoro di Pierfranco Pellizzetti – ultimo ancora per quanto? – devo rendere nota a chi legge l’esistenza di un duplice conflitto d’interesse.

Tanto per cominciare, c’è il fatto che a Pellizzetti mi lega un rapporto di sincera amicizia, il quale potrebbe indurmi a formulare un giudizio fin troppo accomodante sul suo libro. Ebbene, garantisco che ciò non accadrà. Mi verrebbe da dire: neppure questa volta accadrà. Le circostanze in cui mi è capitato, nel passato, di esprimere il mio disaccordo rispetto alle analisi di Pellizzetti sono numerose. Così numerose da consentirmi di affrontare il rischio del suddetto conflitto d’interesse con una relativa serenità. Il punto è che la nostra amicizia sembra nutrirsi di ragionati e puntigliosi dissensi sulle rispettive posizioni, più che della volontà di compiacerci l’un l’altro. E ciò la rende un’amicizia autentica, alla quale faticherei a rinunciare.

C’è, in secondo luogo, il rischio dell’autorecensione. Il mio nome figura infatti fra quelli dei «testimoni informati dei fatti», ossia di una serie di persone «posizionate all’interno dell’élite del potere» e per tale motivo chiamate da Pellizzetti a deporre in questa specie di procedimento giudiziario che egli allestisce nei confronti del sistema d’impresa. La sensazione è che l’autore, in veste di inquirente, si aspettasse da me un contributo più deciso nell’ottica di confermare l’impianto accusatorio. Non so se, in questo senso, io l’abbia deluso. Dipendesse da me, avrei assolto l’imputato in quanto reputo la sua condotta del tutto inidonea al raggiungimento del fine criminoso ipotizzato. A mio avviso abbiamo a che fare con il più classico dei reati impossibili.

Il contenuto della sentenza formulata da Pellizzetti è chiaro: il sistema d’impresa è colpevole. Esso è responsabile di alto tradimento nei confronti del compromesso keynesiano-fordista, avendo collaborato all’instaurazione del Pensiero Unico; quel pensiero che si è imposto con la forza di una retorica apparentemente irresistibile, camuffato da «ritrovata normalità», ma che invece ha i connotati di un apparato ideologico e riflette gli interessi della nuova business community globalizzata. In sostanza il sistema d’impresa ha concorso all’affermazione di quell’«ordine post-capitalistico plutocratico» che è emerso in uno spazio socialmente extraterritoriale e che si sta mangiando tutto.

In termini ancora più sintetici: c’è un sistema mondo, c’è una business community che lo governa e c’è una comunicazione che sostiene l’ideologia di tale business community, legittimandone la posizione. L’ideologia rappresenta l’attuale modello, profondamente iniquo, come il modo-naturale-di-essere-del-mondo, acceca gli sfruttati e impedisce loro di riconoscersi come tali. L’obiettivo del libro di Pellizzetti è aggiornare l’analisi degli schemi di pensiero della business community condotta oltre vent’anni fa da Luc Boltansky e Ève Chiappello, esponenti della École des hautes études en sciences sociales di Parigi, secondo i quali il modello di organizzazione d’impresa di fine XX secolo era andato inglobando, adattandoli, diversi elementi della critica libertaria del Sessantotto, inaugurando un «nuovo spirito del capitalismo».

Il Dialogo sopra i massimi sistemi d’impresa (ed. Aragno) – pubblicato nel 2022, ma concepito fra il 2020 e il 2021 – è figlio della pandemia. Lo è, certo, perché affronta una serie di questioni che il Covid-19 ha imposto all’agenda di tutti noi appunto nell’ultimo biennio. Basti pensare all’accelerazione dell’economia digitalizzata, alla rilevanza della logistica e alle nuove fragilità delle filiere lunghe o ai cambiamenti nel modo di intendere il rapporto fra spazio privato e spazio di lavoro. Ma lo è anche e soprattutto per la sua forma, che supera il modello tradizionale della monografia. Il titolo rimanda alla forma del dialogo, cara alla filosofia, e fa il verso in maniera esplicita al Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei. È come se, nel periodo di forzata clausura imposto dalle restrizioni sanitarie in tutto il mondo, Pellizzetti avesse cercato un modo alternativo per portare le persone a parlarsi a distanza. Alternativo – intendo – rispetto alle malinconiche videoconferenze su Zoom che hanno accompagnato quella stagione e che ci hanno fatto conoscere una nuova fatica.

Tuttavia è bene notare una serie di differenze fra il dialogo filosofico, che ha nell’opera di Platone il suo archetipo e il suo interprete più alto, e l’espediente letterario di Pellizzetti. Nel dialogo filosofico, incluso quello di Galileo, due o più personalità si confrontano sulle rispettive posizioni. Dietro ad esse l’autore sembra porsi in modo apparentemente neutrale o addirittura eclissarsi (è possibile che, nel caso di Galileo, tale espediente avesse anche lo scopo di tutelarsi dalle polemiche provenienti dagli ambienti religiosi del suo tempo). La verità del dialogo emerge dallo scambio, è una verità «parlata» e da ricostruire attraverso l’«ascolto» di voci diverse, più che scritta a chiare lettere. Viceversa il Dialogo sopra i massimi sistemi d’impresa formula la sua tesi senza falsi imbarazzi. I sei co-autori sono coinvolti attraverso altrettante lettere, vere scritture d’amicizia dal tono privato e confidenziale, cui rispondono in forma egualmente epistolare.

A Matteo Bonelli, «avvocato d’affari con proiezioni internazionali», Pellizzetti chiede di confutare l’ipotesi che la mano invisibile della tecnologia contribuisca enormemente, oggi, a orientare i desideri dei cittadini, trasformandoli in consumatori innocui e incapaci di autonomia. Ipotesi cui Bonelli fornisce una risposta triste almeno quanto la scienza economica, sostenendo come la tecnica non determini ma renda semmai visibili i nostri desideri, anche quelli meno facili da confessare. Paolo Costa è invece chiamato in causa – suppongo in quanto imprenditore, presumibilmente esperto di nuove tecnologie – a proposito dei cambiamenti che investono l’esperienza del lavoro, dallo smart working alla gig economy, e dice la sua confessando di non rimpiangere il modello organizzativo keynesiano-fordista, ma dichiarandosi semmai interessato a scoprire modi di lavorare più intelligenti, per i singoli e per le imprese, abilitati proprio dalle nuove tecnologie. Il tema della gig economy è poi ripreso nel penultimo capitolo del libro, nel quale però Pellizzetti mi sembra confondere il paradigma dell’impresa digitalizzata con l’idea di plusvalore economico ottenuto dallo sfruttamento dell’utente quantificato, mettendo sullo stesso piano la trasformazione digitale del business di tante imprese manifatturiere con il modello di business di Google o Meta.

Da Antonio Gozzi, presidente di un’impresa attiva nel trading globale di prodotti siderurgici, si sollecita un commento sulla credibilità delle riconversioni industriali green in un contesto regolativo lasco (il vecchio laissez faire). E il commento puntualmente arriva, declinato nell’idea che sì, sia il caso di lasciare fare: perché alla fine la governance dell’impresa preme costantemente per rendere l’impresa stessa più efficiente, e dunque anche più sostenibile. C’è poi la sfida della transizione energetica, rispetto a cui Pellizzetti chiama in causa l’imprenditore Edoardo Garrone. Il quale risponde fornendo un’interessantissima ricostruzione del dibattito sull’industria energetica sostenibile, sviluppato già agli inizi degli anni Settanta, ben prima che l’espressione sostenibilità diventasse uno stucchevole abracadabra. La lettera di Garrone, scritta prima della recente invasione dell’Ucraina, contiene peraltro un passaggio profetico: «se la Russia decidesse di chiudere la valvola del metanodotto che fornisce il gas all’Italia per esercitare una qualche pressione politica o una qualche ritorsione, sarebbe ancora in grado oggi di metterci in ginocchio».

Il quinto interlocutore di Pellizzetti è Umberto Masucci. E qui la discussione si sposta nell’ambito della logistica, settore in cui Masucci opera. La tesi di Pellizzetti è che la logistica è oggi centrale in quanto l’accumulazione di ricchezza non avviene più attraverso l’investimento, ma tramite il presidio dei varchi (gatekeeping), ovvero l’esercizio di una funzione estrattiva esercitata sui flussi virtuali o materiali in transito: il modo di produzione caratterizzato da finanza e logistica, insomma. In questa nuova fase il capitalismo, che forse non dovremmo più definire come tale, perde la proprietà creatrice che Marx le attribuiva, mentre viene meno il monopolio regolativo dello Stato-nazione. Tesi a cui Masucci risponde rivendicando la centralità della logistica con un orgoglio da «umile portuale di prima generazione» e osservando che, al di là delle trasformazioni della logistica su scala globale, il sistema italiano farebbe bene a colmare una serie di ritardi strutturali, magari approfittando del PNRR.

L’ultima lettera è per Giovanni Federico Di Corato, top manager che lavora nel mercato immobiliare. Di Corato dichiara la propria sintonia con la lettura proposta da Pellizzetti riguardo alle trasformazioni che hanno accompagnato la seconda metà del secolo scorso: da un lato la sconfitta politica del blocco sociale che aveva supportato lo sviluppo del sistema di regolazione nei trente glorieuses, dal 1945 al 1973, determinata dal venir meno di contrappesi interni (il lavoro organizzato) ed esterni (il blocco sovietico), dall’altro gli squilibri economici e sociali prodotti dal successivo «quarantennio inglorioso».

A non convincere Di Corato, invece, è l’idea che la disarticolazione del blocco sociale al centro del sistema di regolazione keynesiano-fordista sia stata determinata principalmente, come sostiene Pellizzetti, dall’avvento di un modo di produzione incentrato sui mercati finanziari e sulla logistica. Per Di Corato, semmai, «è stato centrale, quanto inesorabile e ineluttabile, lo sviluppo tecnologico». Quanto alla dimensione finanziaria, essa è stata intrinsecamente connessa a quella reale fin dalla nascita del capitalismo. Perché il capitalismo – sostiene Di Corato – si potrebbe intendere come «un sistema di produzione fondato […] sulla creazione di moneta fiduciaria la cui quantità è fisiologicamente indotta a risultare insufficiente a soddisfare i bisogni degli agenti economici non proprietari dei mezzi di produzione».

C’è un filo rosso con il quale Pellizzetti cerca di tenere insieme i molti temi affrontati nel libro e di richiamare all’ordine le indoli eterogenee dei suoi interlocutori. La chiave sta tutta in una parola: mentalità. Se vogliamo, questo è da sempre il tratto più felice e insieme il cuore del metodo pellizzettiano, fondato sulla caccia all’ideologico quotidiano attraverso l’interpretazione di tracce anche deboli: tic linguistici, scelte stilistiche, modi di atteggiarsi. La mentalità, appunto, di coloro che contribuiscono a costruire le culture egemoni in tutti i tempi e in tutte le situazioni. Come giustamente Pellizzetti insiste nel far notare, la mentalità alimenta la sua produzione comunicativa e se ne nutre. Per questo è decisivo studiare i processi di comunicazione, più ancora dei contenuti, sottesi alle pratiche di dominio.

Ciò che contesto all’amico Pellizzetti è il suo rigido determinismo. Nel suo inesausto tentativo di stanare l’ideologico, rinvenendone le tracce nei discorsi e nei dispositivi sociali, Pellizzetti rifiuta l’idea di eventi casuali e conclusioni preterintenzionali. Tutto avviene secondo una meccanica inesorabile, anche quando si tratta di oggetti culturali, ossia di valori, simboli e discorsi. Nel mondo sociale immaginato da Pellizzetti le cose accadono in una sequenza rigorosa di cause ed effetti. Né possono accadere diversamente, un po’ come non può accadere che oggetto posto sulla superficie terrestre non sia sottoposto a una forza, detta di gravità, la quale lo attira verso il centro della Terra. Non stupisce che Pellizzetti sia critico nei confronti di Max Weber, il quale ha avuto invece il merito di mettere in discussione la «teoria del riflesso», quella per cui la cultura è un banale riflesso della vita sociale. Weber ci ricorda che «Sono gli interessi (materiali e ideali), e non le idee, a dominare immediatamente l’agire dell’uomo. Ma le “concezioni del mondo” create dalle “idee” hanno spesso determinato – come chi aziona uno scambio ferroviario – i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso tale attività» (Sociologia della religione, 1920; trad. it. 1976).



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