Acemoglu e Brancaccio: “Democrazia a rischio”

Pur partendo da posizioni teoriche diverse i due economisti, in un dibattito organizzato da Fondazione Feltrinelli e Rai-Radio1, concordano sul fatto che la concentrazione del potere economico sta mettendo in serio pericolo le istituzioni democratiche. Acemoglu: “La mobilitazione sociale può cambiare le cose”. Brancaccio: “Il 2% degli azionisti possiede l’80% dei pacchetti di controllo”.

Carlo Clericetti

“Da una ricerca che ho condotto con alcuni colleghi è risultato che i pacchetti di controllo dell’80% del capitale azionario mondiale sono posseduti da meno del 2% di tutti gli azionisti del mondo”. L’economista Emiliano Brancaccio, in un dibattito con Daron Acemoglu del Mit di Boston – uno degli studiosi più citati del mondo – tira fuori l’asso dalla manica a sostegno della sua tesi, che riprende la teoria marxiana, secondo cui i capitali tendono inevitabilmente a convergere sotto il controllo di poche mani. “Una espropriazione di capitalisti da parte di altri capitalisti”, spiega; “O, se vogliamo usare un detto popolare, il pesce grosso mangia quello piccolo”. Anche il Fondo monetario, aggiunge Brancaccio, ha parlato di monopolizzazione dei mercati da parte di poche grandi imprese. Il dibattito è stato organizzato dalla Fondazione Feltrinelli e dalla Rai-Radio1, e moderato da Americo Mancini del giornale radio Rai.

Il fatto più preoccupante, prosegue l’economista, è che questa tendenza è correlata con alcuni indicatori di deterioramento del tessuto democratico. Il rischio è che per questa via si produca una analoga concentrazione del potere politico.

Brancaccio non è il solo ad avere questa preoccupazione. Un altro notissimo studioso, il politologo britannico Colin Crouch, l’inventore del termine “postdemocrazia” (che è anche il titolo di un suo best-seller mondiale), ha dedicato al problema il libro “Il potere dei giganti”, riferendosi appunto alle grandi multinazionali.

“Non c’è dubbio che la democrazia sia sotto assedio e sia a un punto pericoloso”, ha ammesso Acemoglu. “Siamo nella fase della sua maggiore debolezza degli ultimi sessant’anni”. E ha proseguito ponendo un problema epistemologico, cioè di metodo della scienza. In questi contesti non si può parlare di “leggi generali”, non si possono risolvere queste questioni solo guardando a quello che è successo. Dobbiamo pensare al motivo per cui è andata in questo modo e quali erano le alternative. E’ vero che oggi la tecnologia è nelle mani di poche aziende e Google, per esempio, è la più grande che si sia mai vista nella storia dell’uomo. Questo fa dire anche a Jo Stiglitz che “il mercato ha fallito”, e questo è certamente vero se pensiamo a paesi come ad esempio l’Egitto, o al Myammar. A parte che possiamo dire che alcune di queste economie non sono di mercato puro, ma comunque non se ne può trarre la conclusione che allora si possa fare a meno del mercato. “Quello che vediamo è un fallimento delle istituzioni, della regolamentazione: ci sono cose migliori che possiamo fare. Non ci sono leggi generali nel capitalismo, dipende da chi ha il potere, e questo dipende dalle istituzioni. Non è detto che i capitalisti e le grandi aziende siano gli unici attori potenti: ci possono essere anche altri centri di potere, si può sviluppare il welfare, come hanno fatto i paesi scandinavi fin dagli anni ’30 del secolo scorso, certo in modo migliore di quanto il mercato avrebbe potuto fare. Ci sono stati molti fallimenti del mercato, specie nei paesi in via di sviluppo, ma questo non vuol dire che la soluzione sia il non-mercato. Certo i mercati debbono essere inseriti in un quadro di regolamentazione”.

Acemoglu riprende qui la tesi che ha sviluppato nel saggio che gli ha dato una notorietà mondiale, “Perché le nazioni falliscono”, scritto insieme a James Robinson. I due studiosi analizzano la struttura di moltissimi Stati e persino di tribù africane, concludendo che il successo o il fallimento dipendono essenzialmente dalla struttura istituzionale. Il libro si apre con un caso esemplare: quello della città di Nogales, a cavallo tra Stati Uniti e Messico, divisa a metà dal muro del confine. I suoi abitanti “condividono gli stessi antenati, amano lo stesso cibo e la stessa musica. (…) Non c’è differenza nella geografia, nel clima e neppure nelle malattie tipiche dell’area”. Eppure il reddito degli abitanti della metà statunitense è circa il triplo di quello dei loro vicini messicani.

Quindi, sostiene l’economista del Mit, lo Stato deve controllare, non è inevitabile che le aziende diventino troppo potenti; ma è anche necessario un bilanciamento dei poteri, e deve avere un forte ruolo anche la società civile. E’ questa, per inciso, anche la soluzione – piuttosto debole – indicata da Crouch: la mobilitazione della società civile. Se aziende come la Philip Morris o la Exxon-Mobil dichiarano continuamente che faranno dei cambiamenti che distruggerebbero il loro business, ha proseguito Acemoglu, certamente mentono, ma lo fanno perché sentono la pressione dell’opinione pubblica. I cittadini, con il voto, possono controllare i loro governi, che a loro volta possono controllare le imprese: per questo la democrazia ha un’importanza fondamentale.

“Tra noi c’è un disaccordo per quanto riguarda il metodo scientifico – riprende Brancaccio – sull’esistenza o meno di leggi di tendenza del capitalismo. Ma è una divisione trasversale rispetto ad orientamenti politici e teorici diversi. Io penso però che l’esistenza di queste leggi di tendenza sia supportata dalle evidenze. Un esempio: paesi estremamente diversi tra loro per caratteristiche istituzionali, politiche, culturali, hanno fatto registrare nel tempo una convergenza nei processi di precarizzazione del lavoro. Non so se Acemoglu è d’accordo, ma io la definirei una tendenza di carattere generale, che ha cioè contraddistinto la storia del capitalismo nel lungo termine. Per di più si è prodotta indipendentemente dall’avvicendarsi al potere di diverse forze politiche nei diversi paesi. Penso che si possa parlare di leggi generali soprattutto da quando è venuta a mancare una grande alternativa di sistema. Possiamo dire tutto il male possibile dell’Unione Sovietica, considerarla un esperimento fallito. Tuttavia – e su questo anche Mario Monti aveva convenuto nel corso di un nostro dibattito – da quando il capitalismo si è trovato senza rivali, senza una possibile alternativa di sistema, si è mosso verso una uniformizzazione tendenziale, che è andata al di là delle istituzioni dei singoli paesi. Acemoglu, da sempre attento osservatore delle socialdemocrazie, potrà forse convenire con me che persino quelle nordiche da alcuni decenni sono in crisi, e oggi è difficile riconoscere una socialdemocrazia come la intendevamo nel Novecento. Ho il sospetto che questa crisi della socialdemocrazia sia il correlato della crisi del comunismo”.

“Sono d’accordo sul fatto che oggi le socialdemocrazie siano in crisi – è la replica di Acemoglu – e sono in parte d’accordo che questo sia dovuto al crollo dell’Unione Sovietica. Ma penso che le socialdemocrazie siano in crisi perché non hanno generato una nuova agenda. Blair, Clinton, Obama e altri leader hanno aderito tutti all’dea che bisognasse andare verso una globalizzazione non limitata, far funzionare i mercati e magari poi redistribuire, ma questa redistribuzione è stata molto scarsa. Tutti si sono convinti della deregolamentazione, del fatto che non dobbiamo avere paura dei monopoli perché i monopoli portano prezzi più bassi, come Amazon, Microsoft, Google, eccetera. Anche i socialdemocratici si sono convertiti al laissez faire. In quella fase sembrava l’unica scelta possibile, ma oggi abbiamo una comprensione migliore di questi problemi. Io penso che siano necessari molti elementi della socialdemocrazia “vecchio stile”, migliore organizzazione e migliori stipendi per i lavoratori, una rete di sicurezza sociale migliore, redistribuzione. Bisogna dare più potere ai lavoratori, ma anche ai cittadini, in modo che abbiano un ruolo maggiore nella società. È facile? Certamente no, ma io penso che sia possibile. Se invece che nel 2021 fossimo nel 1821, a Manchester o a Londra, vedremmo donne e bambini che lavorano in condizioni orribili, un’aspettativa di vita molto bassa, ambienti insalubri, retribuzioni reali ferme dalla metà del secolo precedente. Ma negli anni successivi ci fu un cambiamento istituzionale, con l’allargamento del diritto di voto, e questo cambiò gli equilibri di potere con un conseguente miglioramento della situazione. Certo, ci furono disordini e i soldati uccisero molte persone. Ma perché a un certo punto si decise di non mandare più soldati a uccidere ancora più persone? Perché i giornali cominciarono a denunciare questa situazione, e man mano la società civile cominciò a giudicare inaccettabile che questo potesse accadere. Dunque, quando si crea una pressione sociale i mercati possono essere incanalati in una direzione diversa e i guadagni possono essere condivisi. Naturalmente tutto questo funziona se la democrazia resiste, e abbiamo detto che è in pericolo”.

Un pericolo che oggi sembra venire soprattutto dai sovranismi, che data l’afasia della sinistra sembrano essere la sola alternativa al neoliberismo dominante. Brancaccio: “Cresciuti dopo la crisi del 2008, in una prima fase hanno raccolta istanze sociali, culturali e politiche molto diversificate, ma negli ultimi tempi hanno assunto decisamente un carattere di destra nazionalista. Dicono di essere molto attente alle istanze nazionali, ma martellano sulla questione dei migranti e non dicono una parola sul controllo dei movimenti internazionali dei capitali. Sembrano essere espressione di quel capitalismo in affanno per il processo di centralizzazione dei capitali che cerca per questo una protezione nazionalistica. Quanto ai miglioramenti nella condizione dei lavoratori, le parole di Acemoglu mi hanno fatto venire in mente la famosa frase del Manifesto del partito comunista: “La storia dell’umanità è storia di lotte di classe”. Ma questi tempi così caotici e tumultuosi fanno maturare il superamento di alcuni tabù. Una parola tabù, per esempio, è “pianificazione”. Ma se guardiamo a come si stanno comportando oggi le banche centrali, beh, operano da market makers, stanno governando il mercato, lo stanno fortemente disciplinando. E decidono – talvolta in modo fortemente discrezionale – cosa acquistare e cosa no, ossia chi deve vivere e chi deve morire. Io vedo in questo comportamento dei prodromi di pianificazione, e un segno di grandissima turbolenza e anche di confusione ideologica, perché se la pianificazione – o almeno qualche sua traccia – comincia ad affiorare persino nel comportamento delle banche centrali, beh, come dicono i cinesi, questi sono tempi interessanti”.



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