Dieci anni senza la non-diva Mariangela Melato

In ricordo di un’attrice di grande talento che è parte della storia del cinema italiano.

Mario Sesti

“Io sono un’attrice non una diva. A volte mi rendo conto che esagero nel senso opposto. Per esempio, se incontro una mia compagna con la quale ho lavorato in teatro dieci anni fa, esagero nel mostrarle simpatia, tenerezza, amicizia, perché non voglio che pensi che sono una diva e già in quel momento non sono più me stessa”. Non era una diva la Melato?

Forse non era neanche una donna: né mariti, né figli, né fidanzati “da tenere per mano”. A dieci anni dalla sua morte, che ricorrono in queste ore, anche la sua apparenza corporea appare di dubbia classificazione zoologica: gli occhi distanti, l’ovale affilato come una scultura di Brancusi (nuda posò per Piero Manzoni), la silhouette stilizzata come un logo grafico. E la velocità elettrica del ritmo delle sue battute? È davvero esistita la Melato nel cinema italiano visto che non c’è niente, ma proprio niente che le somigli?

Certo che è esistita come ricorda bene anche chi sia stato semplicemente sfiorato dalla sintesi folgorante di sensualità e arroganza, comicità e dolore abissale, biondo platino e sopracciglia d’inchiostro, le gambe che misurano il mondo come compassi e gli occhi che scannerizzano lo spazio come una creatura di intelligenza artificiale: hanno generato soprassalti unici alle platee dei suoi 70 film oltre alla materia prima di cui registi come Sergio Citti (Casotto), Salce (Basta guardarla), Monicelli (Caro Michele), Petri (La classe operaia va in paradiso) e naturalmente la Wertmuller (Film d’amore e d’anarchia – che dispone forse del suo personaggio più struggente, una prostituta innamorata di un aspirante killer di Mussolini – e Travolti da un insolito destino) non avrebbero potuto mai fare a meno.  Hollywood non è mai riuscita a reclutarla ma Madonna si è messa a studiare sul serio (senza grande profitto, purtroppo) per rifarla nel remake americano di Travolti.

L’abbiamo vista tutti al cinema (e chi non l’ha fatto, peggio per lui, perché insieme alla Vitti è stata la più brava attrice italiana dopo la fine degli anni ’60, punto), meno a teatro dove ha lavorato con i giganti (Fo, Ronconi, Visconti) ma ancor meno sono stati   quelli più privilegiati che hanno goduto dei suoi leggendari provini, del suo perfezionismo austriaco (era figlia di un triestino che si era fatto anche Dachau). Scrisse uno dei più autorevoli studiosi del palcoscenico di quegli anni, Ugo Volli: “A vederla provare le scene in cui, pian piano, vien fuori il suo segreto, fa già molta impressione: glaciale e furiosa, seduttiva e annoiata, ansiosa e indifferente, come un animale mezzo pitone e mezzo leopardo, ma sempre assolutamente femminile”. E che femminilità: una dinamica aberrante che passa dalla fragilità più crepitante a urla che sbranano.

Non era una diva, non era una donna come ce ne erano allora (ma francamente non c’è niente di comparabile oggi in tutto lo show business, in tutti gli schermi grandi e piccolissimi dai quali non riusciamo a staccarci per tutto il giorno: niente di niente), l’anello mancante tra una Jean Harlow disegnata da Klee e una venusiana creata dalla Pixar. Quando fanno capoccetta con Giannini, riccioluto e abbronzato, non potrebbero essere il prodotto di un effetto digitale?

Nel 2006 io e Carlo Verdone, che curavamo un festival a Siena, le chiedemmo di poterle fare omaggio con una retrospettiva. Lei declinò con fermezza. Non era ancora finita la sua carriera. Non le sembrava il caso. La Melato non era una diva.

 

Foto: Facebook | associazione Mariangela Melato 



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