Dioniso dietro le quinte della tragedia

I tragici andrebbero ristudiati assieme a saggi come quello di Davide Susanetti: uno degli insegnamenti della sapienza tragica è che non possiamo restare in superficie, perché nulla è come sembra e la verità aspetta solo di essere scoperchiata.

Marilù Oliva

Davide Susanetti, professore di Letteratura greca all’Università degli Studi di Padova, con L’altrove della tragedia greca. Scene, parole e immagini, edito da Carocci Editore, ci fa entrare nel senso più profondo della tragedia greca attraverso “l’incontro meditante” con una serie di immagini e lessemi che arrivano dai palchi dell’antica Grecia.

Per capire la tragedia greca non si può rinunciare alla complessità della sua portata, perché non si tratta di una notizia attuale di cronaca portata alla ribalta da un titolo sensazionalistico. Di tragedie ne viviamo anche noi quotidianamente, certo, ma forse la differenza coi grandi tragediografi, rispetto alla narrazione, è la nostra abitudine alla banalizzazione del male. Eschilo, Sofocle ed Euripide, invece, nel male si tuffavano, sprofondavano, lo indagavano attraverso i loro personaggi assolutizzati, i quali si potevano esprimere anche con frasi lapidarie ma sempre dense di ulteriori messaggi.

La tragedia è uno spettacolo che trasfigura nel rito e, in quanto tale, non può non incidere sulla forma mentis di chi assiste. Per gli antichi è il compimento di vicende concatenate, dove il male ha avuto una genesi in tempi non sospetti, magari in generazioni precedenti e gli uomini e le donne, talvolta inconsapevoli della sciagura che pende su di loro (penso ad esempio a Edipo), ne vengono risucchiati.

Il dio Dioniso, “colui che giunge da altrove”, “signore di magie e di illusioni”, ne è in qualche modo emblema, nonostante sia un’entità allegra e festosa che apparentemente non dovrebbe avere nulla a che spartire col dramma. Invece proprio lui ci mette con le spalle al muro, ci disvela alcuni aspetti del reale che noi non vorremmo conoscere, il suo sguardo individua e frantuma le nostre rigidità, sconvolge il significato delle parole consegnandole all’esperienza diversa di ciascuno di noi, sovvertendo tutto:

«E insieme all’identità si frangono anche tutte le credenze, le opinioni e le scelte che da tale identità scaturiscono come necessario o inevitabile corollario. Nel compiersi della sventura assoluta o nell’incombere del pericolo, vi è una crepa che non cessa di aprirsi e di approfondirsi fino a ingoiare ogni cosa».

Una disamina attenta e dotta che ci riporta in tempi in cui la comunità della polis si riconosceva nei propri valori, nelle proprie istituzioni e anche nelle proprie rappresentazioni. Concettuali, ma anche fisiche, perché:

«La tragedia non è solo parole, ma anche spettacolo di corpi in cui la sventura si palesa come traccia indelebile e cruda, come distruzione che annienta la figura e la fisicità del vivente».

Edipo si acceca, Giocasta si impicca, Medea commette un infanticidio, prima di togliersi la vita, Ecuba è rasata come vuole la prassi per le schiave, Elena non è più la donna più bella del mondo ma viene duplicata in un simulacro. E gli dei, che si divertivano a confondere gli umani con suadenti illusioni, avevano imbrogliato Paride facendogli credere di essersi condotto a Troia una donna in carne e ossa. Forse anche in virtù di tutto ciò i tragici andrebbero ristudiati assieme a saggi come questo: uno degli insegnamenti della sapienza tragica è che non possiamo restare in superficie, perché nulla è come sembra e la verità aspetta solo di essere scoperchiata.



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