Dillo in un altro modo. Religione, immagini e libertà d’espressione

Emanuela Marmo

Alcune settimane fa, alla Batley Grammar School nel West Yorkshire, nord dell’Inghilterra, manifestanti hanno chiesto il licenziamento di un insegnante: si era servito delle vignette di Charlie Hebdo per condurre una lezione sul rapporto tra religione e libertà d’espressione. Molti studenti musulmani dell’istituto si sono ribellati, ritenendo blasfema qualsiasi rappresentazione di Maometto.

La scuola ha sospeso il docente e chiesto scusa. Esponenti politici e della stampa britannici hanno criticato il provvedimento perché le religioni non possono dettare condizioni alle istituzioni laiche. Altri hanno sostenuto che si stiano diffondendo atteggiamenti islamofobici o, ancora, che si debba trattare il tema della libertà d’espressione con modalità tali da non istigare i sentimenti religiosi.

Le questioni insorgono spesso attorno a “immagini”.

Indago il rapporto credenti-immagine sacra riferendomi a studiosi di diversa aria geografica e formazione.

Saba Mahmood è stata professoressa di antropologia alla Berkeley (Università della California). Riguardo ai cartoons danesi, ad esempio, disse che la “blasfemia” è un atto razionale, consapevole di infrangere una legge; tale consapevolezza spesso manca, quindi è opportuno parlare di “sentimento di offesa morale”: importunare il legame che vincola un musulmano al profeta significa infliggere una ferita emotiva. Mahmood affermò che è inutile analizzare il processo comunicativo delle immagini: i laici non comprendono che esse, in quanto tali, sono esseri animati, che agiscono sul mondo a prescindere dalle intenzioni dell’artista e dall’interpretazione.

Il caso della Batley Grammar School ci mette di fronte all’ennesimo caso in cui, senza nulla concedere al contesto e allo scopo, la libertà di espressione risulta lesiva di una contrapposta misura che vanta validità prioritarie.

Non posso non notare che credenti di diverso rito affermano che è generalmente doveroso tutelare il sentimento di fede, in quanto la tradizione religiosa rappresenta la storia di una civiltà.

Proprio perché lo sviluppo di una religione è rilevante e influente nella storia di un popolo, ciò non comporta – appunto – che simboli trasbordati dal loro perimetro di specifico utilizzo siano significativi al di là del culto? Gli strumenti dell’arte, allora, non sono particolarmente idonei a mantenere la tradizione e l’emancipazione, seppure in conflitto, su piani che non siano mutuamente repressivi?

Ho in mente esempi molto chiari. Il primo è Daniele Fabbri, un comico che ha rielaborato e si è liberato dall’educazione cattolica attraverso la satira. Non esistono tribunali che possono dirimere controversie di questo tipo. Sono percorsi etici, politici, psicologici soggettivi, per quanto comuni.

Penso anche ad Abel Azcona. L’artista ha sublimato una dolorosa vicenda personale nella performance. Rivivendo gli abusi subiti da bambino in ambito ecclesiastico, ha realizzato un’opera dal titolo Amen: compone la scritta “pedofilia” con ostie da lui stesso ricevute, partecipando a un preciso numero di messe in chiese appartenenti al suo quartiere di infanzia. Il numero di ostie corrisponde ai casi di pedofilia che coinvolgevano membri del clero denunciati nell’anno di realizzazione dell’opera. Azcona è finito sotto processo ben sette volte a causa di quest’opera, ritenuta lesiva del sentimento religioso.

Anche soffermandoci sull’utilizzo di ostie consacrate quale materiale artistico, scelta che mette in discussione il sacro e che al tempo stesso rende sacro l’urlo di dolore, come mai i credenti non si sono schierati dalla sua parte? Il sacrificio di ostie, in fondo, non è la maniera più spirituale per dare senso alla croce, date le ingiustizie perpetrate alla sua ombra?

Tuttavia, la libertà d’espressione non va autorizzata solo in caso di vissuti personali particolari. Esistono filoni artistici che, senza il movente biografico, contrastano l’ingerenza delle religioni, ribaltandone o distruggendone i simboli: parliamo di performance artistiche, musicali, non di progetti militari o azioni di sabotaggio lesivi della sicurezza pubblica, se fosse necessario ribadirlo.

Nergal Darski, cantante e chitarrista dei Behemoth, è stato multato da un tribunale di Varsavia per aver calpestato un’immagine della Vergine durante un concerto. È il sesto processo che l’artista subisce.

Nella scena metal estrema, l’immaginario pagano, occulto e satanico è diffuso e di solito si accompagna a una cura scenica sofisticata, ancorché formalmente cruda, che pone in essere l’artefatto.

Accanto al parametro (ideologico) del “sentimento religioso”, ciò che viene ribadito a riguardo delle provocazioni anticlericali è il discorso sui “modi”: puoi dire quello che pensi, ma lo devi dire in un altro modo.

Il discorso sulle modalità espressive è frustrante, perché i criteri sono discrezionali, mentre porre limiti di “modo” in campo artistico significa quasi sempre censurare stili e generi o inaugurare percorsi a tappe, ognuna delle quali diventa più restrittiva della precedente.

I fascismi religiosi, infine, non si accontentano delle buone maniere. Appena ne hanno la possibilità, non si accontentano di come lo dici: non devi dirlo e basta. Questo atteggiamento ha autorevoli giustificazioni teoriche. L’antropologo Tala Assad, della City University di New York, ad esempio, ritiene che certamente ognuno ha la facoltà di pensare quello che vuole delle cose sacre, cionondimeno, comunicare ad altri le proprie convinzioni impegna l’oratore davanti a Dio e alla comunità dei credenti, sicché fare un’affermazione eterodossa equivale a un tentativo di persuasione, di seduzione, che deve essere sanzionato: i fedeli possano ascoltare solo discorsi ortodossi, perché la fede non è un sentimento qualsiasi, è un “impegno” a causa del quale il credente deve prendersi carico di ciò che viene affermato contro Dio.

Voglio offrirvi un esempio di “la tua opinione mi impegna davanti a Dio” che non riguarda l’arte, ma l’attivismo.

L’Aurat March si svolge ogni 8 marzo in Pakistan. Il tema di quest’anno era la salute. Un’installazione di strada, inoltre, ha condiviso le storie di bambine, anche piccolissime, giovani e donne sopravvissute a relazioni abusanti. I media non hanno seguito né le istanze in ordine alla salute pubblica né le denunce di violenza. Hanno atteso con ansia di commentare nuovi e vecchi slogan: Il lavoro domestico è lavoro di tutti; Le donne sono esseri umani, non onore (il Pakistan ha la più alta percentuale al mondo di delitti d’onore); Se ti piace così tanto il velo, legalo intorno agli occhi; La mia camicia non è corta, la tua mentalità è ristretta; Il mio corpo, la mia scelta. Cosa dicono i sentimenti religiosi feriti? «Chiedete i vostri diritti, ma non così. Questi slogan sono immorali». Quest’anno il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale per gli affari religiosi ha dichiarato sacrilega la Marcia. Almeno due tribunali locali hanno chiesto alla polizia di registrare denunce per blasfemia contro gli organizzatori, accusa che può portare alla morte. Aggiungiamo anche che il gruppo terroristico Tehreek Taleban Pakistan ha minacciato gli organizzatori su Twitter.

Un equilibrato discorso sui “modi” dovrebbe ragionare su quelli che i credenti adottano per difendere il loro sentimento e su quali, tra questi, sono da considerarsi accettabili.



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