«Dio non esiste»: l’ultimo tabù?

È ancora difficile nella società di oggi affermare ad alta voce la non esistenza di Dio. Due libri suggeriscono un malcelato desiderio che la dichiarazione di non-fede sia formulata nientepopodimeno che dal leader della confessione religiosa più seguita al mondo.

Raffaele Carcano

Se ci fosse un concorso sul pensiero che più raramente viene espresso pubblicamente (in rapporto alla sua conclamata diffusione), «Dio non esiste» lo vincerebbe a mani basse. È in qualche modo inevitabile che accada nelle società in cui la religione pervade ogni ambito, tra le quali continua purtroppo a rientrare anche quella italiana – e ci tocca persino rallegrarci di non essere più portati al patibolo, come ancora può capitare in diversi paesi di tradizione musulmana. Ma «Dio non esiste» lo si sente dichiarare molto poco anche in nazioni ben più laiche e civili. Gli atei non amano affermarlo: sia perché, ricorrendo a questa forma essenziale, possono apparire a loro volta dogmatici; sia, soprattutto, perché raramente avvertono l’esigenza di sbandierare la propria identità non religiosa. È una delle differenze più eclatanti con i fedeli.
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Sembrerebbe tuttavia serpeggiare anche un malcelato desiderio che tale professione di non-fede sia formulata nientepopodimeno che dal leader della confessione religiosa più seguita al mondo. Nel giro di pochi anni sono stati infatti pubblicati due romanzi che narrano di un pontefice che proclama l’inesistenza di dio davanti alla folla sbigottita di piazza san Pietro. Il primo, del 2016, è stato scritto dal sociologo Marc Augè (Le tre parole che cambiarono il mondo). Il secondo, il recentissimo D.N.E. L’ultima rivoluzione, è opera del senologo Giorgio Macellari, esponente della Fondazione Umberto Veronesi e impegnato in ambiti bioetici. Curiosamente, dunque, anche chi ha dato il titolo a questi due libri ha ritenuto preferibile omettere la frase «Dio non esiste». Ragioni di marketing, o un tabù di ardua rimozione?

Non che i due libri siano così simili. Nel libro di Augè, il papa (Francesco) è solo la prima vittima illustre dell’Operazione Panoramix che, come una sorta di vaccino tremendamente efficace, nel giro di una settimana eliminerà il “virus” della fede dalla faccia della terra. In quello di Macellari, il suo successore Silvestro-Bonifacio I è una persona che ha raggiunto il massimo del potere che voleva e poteva raggiungere e, non avendo più nulla da chiedere alla vita, decide di levarsi finalmente la maschera. L’esito è però ugualmente sovversivo, e il mondo non sarà mai più come prima.

Ovviamente, entrambi gli autori sono persuasi che non solo Dio non esiste, ma che il mondo sarebbe un luogo decisamente migliore senza ogni forma di religione. Un auspicio che Macellari esprime molto più direttamente: convinto che la fede sia la leva privilegiata per sfruttare debolezze universali, arriva al finale dopo aver narrato una lunga disfida teologica tra il pontefice e il fondatore stesso della dottrina cristiana, san Paolo. Che naturalmente ne esce soccombente, deconvertito e convinto di aver preso uno smisurato abbaglio sulla via di Damasco.

A far da contrasto al loro programma di “evangelizzazione” al contrario c’è il fatto che i protagonisti dei due romanzi sono atei dalla morale discutibile: in uno eliminano chimicamente ogni credenza sovrannaturale, nell’altro il vescovo di Roma è un personaggio dall’etica ben difficilmente apprezzabile. Il ricorso a un papa ex machina implica anche scarsa fiducia sia nelle argomentazioni atee, sia nella possibilità che le popolazioni ci possano arrivare autonomamente (come da alcune parti sta peraltro accadendo). Sono circostanze che stonano un poco con il miglioramento che l’umanità dovrebbe trarre dall’eliminazione della fede: come si dice in questi casi, se il buongiorno si vede dal mattino… senza dimenticare che la convinzione che il fine giustifichi i mezzi è stata popolarizzata attraverso un miscredente, Niccolò Machiavelli.

Senza enfatizzare oltre misura questi aspetti (rimangono comunque due opere di narrativa), a mio avviso sarebbe forse preferibile immaginare, più che un futuro senza religioni o con un «governo planetario della scienza», un mondo dove sia stata finalmente cancellata l’ipocrisia. Un mondo autenticamente laico, in cui ognuno, dopo millenni di simulazioni religiosa (ma non solo) possa esprimere sinceramente le sue convinzioni senza patirne conseguenze. In un futuro del genere, è probabile che la negazione di dio verrà affermata molto più frequentemente, in qualunque forma possa essere declinata. Ma la credenza in dio non è una faccenda facilmente liquidabile ricorrendo soltanto a tre parole. E non lo è nemmeno l’ateismo.



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