Diritto a internet in Costituzione, ma ricordando Stefano Rodotà

Bene il diritto di accesso a internet in Costituzione, purché sia accompagnato da tutte le garanzie contro lo sfruttamento privato di quello che deve restare, o diventare, un bene comune, se non proprio pubblico.

Mauro Barberis

Nessuno può dire se, come e quando finirà la pandemia: per non parlare della remota possibilità che ci lasci migliori, di cui s’è parlato tanto tanto all’inizio, oppure, più realisticamente, solo più poveri e infinitamente più stressati di prima. Una delle poche certezze è che la nuova normalità – questo, ormai, il nome per il massimo delle nostre ambizioni – assegnerà un ruolo centrale a internet. Nei giorni scorsi ne ha parlato in un’audizione alla Camera Vittorio Colao, già amministratore delegato di Vodafone Europa dal 2008 al 2018, poi consulente non troppo ascoltato del governo Conte, per il quale organizzò una kermesse di solito ricordata solo per la sua inutilità, e oggi ministro all’innovazione tecnologica del governo Draghi.

Colao ha promesso che uno dei modi principali per spendere i soldi del Recovery Fund – ammesso che arrivino, nonostante che se ne discuta ancor meno che ai tempi del governo Conte, e sia passato un altro mese, e alcuni paesi siano ormai contrari – sarà portare internet super-veloce e fibra digitale in ogni casa italiana entro il 2026: domani, praticamente. Con un colpo d’ala imprevisto, solo in questo simile alle dichiarazioni di Draghi su Erdogan che hanno terremotato i nostri rapporti con la Turchia, il ministro ha inoltre aggiunto che il diritto di tutti gli italiani a internet dovrebbe essere scritto in Costituzione, come proposto trent’anni fa da Stefano Rodotà.

Quest’ultimo, come molti dei suoi allievi specie genovesi ricorderanno bene, aveva dedicato alla regolamentazione di internet gli ultimi anni della sua vita pubblica. Prim’ancora di diventare il principale redattore italiano della Carta di Nizza – la dichiarazione dei diritti dell’Unione Europea – Rodotà aveva proposto di includere nella Carta costituzionale italiana il diritto di accesso alla rete. Nel 2014 aveva steso anche una Dichiarazione dei diritti in internet, approvata dalla Camera nel 2015, nella quale si dice espressamente che «ogni persona ha eguale diritto di accedere a internet in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate».

Sin qui, ovviamente, siamo tutti d’accordo con Colao: chi mai potrebbe opporsi a proposte del genere in un momento in cui vaccinazioni, lavoro (in smart working), scuola (in dad), erogazione di sussidi, ristori e dei più elementari servizi sociali, dipendono dal possesso di uno smartphone? Al punto che la principale disuguaglianza sociale, fra le tante incrementate dalla pandemia, è proprio la barriera digitale (il cosiddetto digital divide): chi non è connesso a internet, come tanti anziani ma anche studenti di aree meno cablate della penisola, finisce per dipende da chi è connesso anche per i propri bisogni più elementari. A questo punto, però, bisognerebbe riflettere su almeno due problemi sollevati dallo stesso Rodotà: che era, a suo modo, un liberale di sinistra (un liberal), coerente e radicale.

Il primo problema è che per lui, come per me, per quel che vale, la rete, internet, l’intelligenza artificiale, non sono solo un bene pubblico (lui diceva comune) da garantire a tutti, come l’acqua e l’ambiente. Per lui e per me il digitale è anche soprattutto un potere. E cos’è una costituzione, almeno per noi liberal, se non un atto di diffidenza verso il potere, sia questo pubblico, come lo Stato, le Regioni, ecc., oppure privato, come i monopolisti del digitale? Per citare solo un esempio di cui si parla da una vita e s’è riparlato in questi giorni su basi più concrete: perché Amazon, Google, Facebook, arricchitesi con la pandemia ancor più di Big Pharma, dovrebbero continuare a pagare le tasse in paradisi fiscali come Olanda o Irlanda, invece che pagare la minimux tax recentemente proposta da Joe Biden, e di farlo in tutti i paesi, in particolare quelli dell’Unione Europea, nei quali accumulano i loro profitti?

Il secondo problema è che per Rodotà, come per Shoshana Zuboff e per un’intera generazione di critici del digitale, i monopolisti di cui sopra hanno fondato il loro impero economico e la loro influenza politica – la Zuboff lo chiama un golpe, il cui culmine è stato l’attacco dei trumpiani a Capitol Hill – appropriandosi dei, ma lei dice rubando, i nostri dati personali. Ora, l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana ha recentemente ripubblicato come un libretto la voce compilata da Rodotà per la Treccani nel 2000 e intitolata Riservatezza. Bene, pure lì, con una straordinaria preveggenza, Stefano compiva la seguente operazione: riconcepiva la privacy, tradizionalmente pensata come diritto a non essere disturbati, come diritto di ognuno al controllo sui propri dati personali.

Insomma: ben venga il diritto a internet di accesso a internet in Costituzione, purché sia accompagnato da tutte le garanzie contro lo sfruttamento privato di quello che deve restare, o diventare, un bene comune, se non proprio pubblico.

 

(foto di Niccolò Caranti, CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons)



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