Il diritto d’aborto va garantito nella vita delle donne e non solo sulla carta

Se è vero che l’obiezione di coscienza è un diritto, proprio perché basato su scelte etiche forti questo diritto dovrebbe essere sostenuto con orgoglio da coloro che lo rivendicano e che, invece, vogliono rimanere nell’anonimato, calpestando il pari diritto delle donne di sapere se il medico a cui si rivolgono è obiettore/trice di coscienza. Questione di “privacy”, ci dicono, spiegandoci che il loro diritto alla “privacy” può autorizzarli a calpestare il diritto alla salute delle persone che dovrebbero curare. Una affermazione che definirei quantomeno discutibile, proprio dal punto di vista della coscienza e dell’etica professionale.

Anna Pompili

È successo al Salone del Libro di Torino: la ministra Roccella, incalzata dalle attiviste di Non Una di Meno sul diritto d’aborto, ha risposto che non esiste alcun pericolo per l’aborto in Italia; lo ha fatto ironizzando su chi quel diritto cerca di garantirlo, ossia le ginecologhe e i ginecologi non obiettori. Secondo Roccella, infatti, se guardiamo all’ultima relazione al Parlamento sullo stato di applicazione della legge 194, l’aborto non sarebbe un problema per operatori, che mediamente sosterrebbero un carico di lavoro ridicolo, di appena un aborto a settimana. Mi permetto di risponderle partendo dalla mia modesta esperienza personale: sono responsabile di un centro per le interruzioni di gravidanza di Roma, dove lo scorso anno sono stati eseguiti 418 aborti farmacologici in regime di Day Hospital, 139 aborti farmacologici in regime ambulatoriale, 390 aborti chirurgici. A questi devono essere aggiunte, poiché parliamo di carichi di lavoro, anche le 139 donne che, dopo incontri ripetuti, hanno deciso di portare avanti la gravidanza. Si tratta di un lavoro che, come si può intuire da quest’ultimo dato, è ben più impegnativo dell’esecuzione di un semplice intervento, giacché riguarda un colloquio complesso, l’ecografia, la spiegazione delle procedure, l’individuazione di eventuali margini di incertezza, che richiedono un grande impegno per sostenere senza condizionare in alcun modo la scelta della donna.

Questa mole di lavoro è stata sostenuta da me e da una collega: senza considerare i giorni festivi e le ferie, dunque, nel mio servizio nel 2022 abbiamo eseguito 22 procedure a settimana (con un carico di lavoro di 24, perché dedichiamo anche più tempo a chi è incerta ed ha bisogno di maggiori attenzioni e sostegno per maturare una decisione). Per ciascuna di noi (che si è concessa solo 15 giorni di ferie estive) il carico di lavoro è stato di 12 IVG a settimana. Ciò vorrebbe dunque dire che a Roma qualche non obiettore vanta inspiegabilmente carichi di lavoro in negativo.
Misteri della statistica? No, se andiamo a guardare bene, e se vogliamo capire come stanno realmente le cose. Torno allora a riferirmi alla mia modesta esperienza: nell’ospedale a cui faccio riferimento, vi sono altre/i quattro ginecologhe/i non obiettori, che però non eseguono IVG. Dunque, nell’intera struttura, su sei specialisti in ginecologia e ostetricia non obiettori, solo due eseguono IVG. Forse allora la contabilità dei carichi di lavoro non può essere fatta dividendo banalmente il numero di IVG per il numero di specialisti non obiettori, ma richiede una valutazione più complessa.

Certo, come giustamente ricorda la ministra Roccella, lei non è il ministro della Salute. Certo sarebbe bene che fosse lui, il Ministro Schillaci, medico, a interessarsi del lavoro di molti suoi colleghi. Magari anche dopo aver letto il libro di Chiara Lalli e Sonia Montegiove “Mai Dati”. Potrebbe così rendersi conto che quello che succede nel mio ospedale non è un caso isolato, perché, ad esempio, anche al Sant’Eugenio di Roma succede lo stesso: lì, su dieci ginecologi non obiettori, solo due si occupano di interruzioni di gravidanza. Forse, dopo aver letto il libro, potrebbe finalmente convincersi della necessità di realizzare quello che l’Associazione Luca Coscioni per la Libertà di Ricerca scientifica chiede da tempo: la pubblicazione di dati aperti, non aggregati, che permetta di evidenziare e elaborare possibili soluzioni alle reali criticità nell’applicazione della legge.
Certo, l’obiezione di coscienza è un diritto, ricorda la ministra Roccella. Dimenticando, però, che la legge 194 ha ben chiara l’esistenza di un conflitto di interessi tra chi rivendica questo diritto e le donne che rivendicano il diritto alla salute. Proprio per questo motivo, l’art. 9 della legge, oltre a garantire il diritto del personale sanitario a sollevare obiezione di coscienza, afferma che “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”. Ciò significa che “in ogni caso” si deve assicurare alle donne un percorso, ossia che “in ogni caso”, anche se si è obiettori, non ci si può girare dall’altra parte. Soprattutto, non possono farlo gli assessori alla Sanità, i Presidenti delle Regioni, i vari Ministri della Salute, che dovrebbero essere inchiodati alle loro responsabilità. Come dice, semplicemente, la legge.

Certo, l’obiezione di coscienza è un diritto. Proprio perché basato su scelte etiche forti, questo diritto dovrebbe essere sostenuto con orgoglio da coloro che lo rivendicano e che, invece, vogliono rimanere nell’anonimato, calpestando il pari diritto delle donne di sapere se il medico a cui si rivolgono è obiettore/trice di coscienza. Questione di “privacy”, ci dicono, spiegandoci che il loro diritto alla “privacy” può autorizzarli a calpestare il diritto alla salute delle persone che dovrebbero curare. Una affermazione che definirei quantomeno discutibile, proprio dal punto di vista della coscienza e dell’etica professionale.

Molte donne fanno lunghi viaggi per abortire. A questo semplice dato di fatto, che non suscita in lei alcuna indignazione, la Ministra risponde affermando che “in Italia ci sono più punti aborto che punti nascita” (dunque, le donne che decidono di abortire sarebbero ingiustamente privilegiate rispetto a quelle che danno figli alla patria?). Una risposta, questa, che evidenzia chiaramente l’impostazione ideologica di chi dà per scontata una falsa dicotomia all’interno di un diritto, il diritto alla salute sessuale e riproduttiva, che è unico, e che contempla la possibilità di scegliere se avere figli o non averne, e, in questo caso, la possibilità di accedere ai moderni metodi contraccettivi e all’aborto.

Molte donne fanno centinaia di chilometri non solo per abortire, ma anche per poter accedere alla metodica farmacologica. Infatti, in molte regioni italiane semplicemente si ignora il dettato dell’articolo 15 della legge, che affida loro il compito di assicurare la possibilità di accedere alle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza”. A fronte della ormai indiscussa sicurezza della metodica, nel nostro paese permane verso di essa una ostilità che non si basa su ragioni mediche, ma solo su pregiudizi politici e ideologico-religiosi: mentre nel resto d’Europa essa è la metodica utilizzata nella stragrande maggioranza delle interruzioni di gravidanza, per lo più in regime ambulatoriale, nel nostro paese nel 2020 è stata utilizzata nel solo 31,9% degli aborti. Con enormi differenze regionali: in Molise è stata utilizzata solo nell’1,9 % degli aborti, a Trento nel 6,6%, nelle Marche nell’11,3%, in Abruzzo nel 13%.

È un problema organizzativo, certo. Perché i governi, ma anche e soprattutto le Regioni, hanno il dovere di garantire il diritto alla salute delle loro cittadine, con una organizzazione dei servizi che risponda a criteri di efficienza e non a diktat ideologici.

Ma è anche un problema per la politica, più in generale. A chi pensa di rassicurarci, affermando che non ha alcuna intenzione di toccare la legge 194, da operatrice rispondo che le criticità emerse in questi 45 anni sono legate non solo alla cattiva applicazione, ma anche al testo stesso della norma, che deve essere aggiornata. A chi già pensa ad un’applicazione basata su interpretazioni rigidamente restrittive della legge, rispondo che è ora di modificarne alcune parti, perché sia effettivamente garantito il diritto alla salute sessuale e riproduttiva, come è già successo in molti altri paesi europei, primi fra tutti Francia e Spagna.

Le contrapposizioni violente non servono a nessuno, soprattutto non servono alle donne che vorrebbero poter esercitare i loro diritti libere da stigmatizzazioni e da coercizioni; eppure, le proteste di Torino esprimono una richiesta della società civile alla quale non si può restare indifferenti. Per questo motivo, l’Associazione Luca Coscioni si è fatta promotrice della costituzione di un gruppo interparlamentare che valuterà possibili modifiche del testo della legge 194, oltre alle strategie da attuare per garantirne la piena applicazione. Il 20 giugno, in Parlamento, si terrà un primo seminario per iniziare a mettere a fuoco le criticità e le possibili soluzioni.  Perché, come ci ricorda l’OMS, il diritto alla salute sessuale e riproduttiva è un diritto umano delle donne.

Anna Pompili è Consigliera Generale dell’Associazione Luca Coscioni



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