Donald Sassoon: “il capitalismo si sta trasformando in un gigantesco casinò”

Nel suo nuovo libro “Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo. 1860-1914”, Sassoon spiega come, se prima del mondo industriale l’ansia era causata da fenomeni naturali, oggi ci sono anche ansie causate dal meccanismo stesso del capitalismo.

Roberto Rosano

Donald Sassoon, professore emerito di Storia Europea Comparata alla Queen Mary University of London, allievo di Eric Hobsbawm, è considerato uno dei maggiori storici contemporanei. I suoi lavori sulla realtà politica, culturale ed economica europea, sono attualmente tradotti in più di dodici lingue. Tra questi anche due saggi dedicati a Togliatti e Mussolini. Discutiamo con Donald Sassoon del suo ultimo libro, “Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo. 1860-1914 (Milano, Garzanti 2022, trad. P. Lucca)”.

Professor Sassoon, Lei sostiene che l’ansia sia congenita al sistema capitalistico. Può spiegarci il motivo?

Gli esseri umani sono sempre stati ansiosi. Prima del mondo industriale, però, l’ansia era causata da fenomeni naturali, pestilenze, invasioni straniere… Oggi, oltre all’apprensione dovuta all’imponderabilità naturale, ci sono anche ansie causate dal meccanismo stesso del capitalismo. Perché il capitalismo è un sistema dinamico, che cambia di continuo e che produce continuamente vinti e vincitori. Se sei un imprenditore, oggi sei su e domani potresti essere giù. Non perché sei stato pigro o disattento, ma perché arriva una novità tecnologica che rende obsoleto il tuo prodotto, tanto per fare un esempio.

Com’è accaduto ai produttori di polaroid, videocassette…

Esattamente. Dunque, quando uno è su è comunque preoccupato e mai pago di ciò che ha raggiunto. Non ci sono conquiste definitive nel capitalismo. Questo dinamismo è l’anima del sistema.

Ma Lei ha scritto anche che questo “sistema” si sta trasformando sempre più in un gigantesco casinò…

Il sistema bancario, inventato da voi italiani, è molto antico, ma è diventato davvero importante solo nel XX secolo. Oggi come oggi, il sistema finanziario, visto nella sua complessità, è qualcosa di davvero gigantesco. Le do una semplice statistica: oggi una ditta di accountancy come PWC ha più dipendenti della la General Motors. Se qualcuno lo avesse detto nel 1920, sarebbe stato internato. Oggi la produzione fisica dei beni è sempre più decentrata verso Cina, India, Brasile, come sappiamo, mentre nei Paesi che siamo soliti chiamare “capitalisti” i proletari sono una minoranza. In Gran Bretagna, il primo grande Paese industriale al Mondo, la working class rappresenta solo l’11% della popolazione.

E dire che Marx, Smith, Ricardo parlavano pochissimo di banche…

Nel Capitale se ne parla pochissimo. All’epoca era normale. Il capitalista tipo fondava un’azienda con alcuni dei suoi capitali o quelli dei suoi amici. La prima S.r.l., in Inghilterra, si ha a metà ‘800. A proteggere i capitalisti era lo Stato. Alcuni pensano che il capitalismo si giovi dell’assenza dello Stato e, invece, è vero esattamente il contrario.

La Cina è un buon esempio di quello che dice?

La Cina è un buon esempio per spiegare quanto sia difficile stabilire se un Paese sia o no capitalista. È un Paese che si dice comunista, è diretto dal Partito Comunista, dichiara di perseguire il socialismo, eppure vive uno sviluppo incredibile, dovuto in parte a capitali locali, in parte a capitali stranieri, e, in massima parte, all’iniziativa dello Stato stesso. La Cina sta affrontando anche problemi tipici del capitalismo, dal calo demografico all’inquinamento, ma anche questi problemi hanno “caratteristiche cinesi”. Insomma, il capitalismo riesce ad adattarsi a diversi sistemi sociali, politici. Può funzionare sotto una democrazia, sotto una dittatura e, come dimostra la Cina, anche sotto…

… il comunismo. Paradosso dei paradossi! Insomma, la democrazia liberale non è più un dogma del capitalismo. Ma un altro fenomeno interessante è la sparizione di quelle varianti socialiste della decolonizzazione, il socialismo arabo, africano. Oggi in Siria, Tunisia, Algeria, Zimbabwe abbiamo cleptocrazie dittatoriali generalmente pro-mercato…

Nel mio libro ho cercato di spiegare come mai il capitalismo rimane sostanzialmente nel mondo occidentale e poi solo più tardi appare in Giappone, Taiwan ed altri piccoli Paesi asiatici. Ed ho cercato di spiegare cosa avevano in comune questi Paesi: uno Stato forte.

Com’è uno “Stato forte”?

È uno Stato che fa la cosa più importante: far pagare le tasse, punire chi evade e costruire un clima di consapevolezza generale della necessità del sistema fiscale. I Paesi che ha nominato poco fa, ed io aggiungerei anche l’india e il Pakistan, hanno tutti, invece, uno Stato debole.

Lei dà ragione a Colin Crouch quando disse, già vent’anni fa, che il neolaburismo altro non è che la prosecuzione del neoliberismo dei governi conservatori?

In tutti i Paesi caratterizzati dal bipolarismo è necessario, per governare, ed essere rieletti, guadagnare il favore del centro, temperare le posizioni. È vero che le due fazioni possono fare scelte diverse, ma l’arco delle possibilità è comunque ristretto. Nella storia d’Italia post-fascista, la democrazia cristiana era, dopo tutto, una forza riformista, tant’è che aveva addirittura coinvolto il partito socialista al governo. Roosevelt non era certo un trotzkista, ma aveva capito, dopo la crisi del ’29, che per rifare l’economia era necessario l’intervento dello Stato.

La forza dei sindacati si misura solitamente con la cosiddetta “densità sindacale”, la percentuale rappresentata dagli iscritti sul totale della forza lavoro. Nei Paesi Ocse questa è in costante declino. Perché, secondo Lei?

I sindacati sono in declino in tutti gli Stati dell’Europa occidentale e si concentrano sempre più nel settore statale e sempre meno in quello manifatturiero. Una volta, quando si indiceva uno sciopero, l’imprenditore, che magari aveva una consegna importante, si trovava in seria difficoltà. Nel settore pubblico, chi sciopera non lo fa contro l’imprenditore, ma contro chi adopera il servizio pubblico. La difficoltà dei sindacati oggi è trovare il consenso dei cittadini, spiegare ad un genitore perché vale la pena che l’insegnante di suo figlio scioperi. Non è facile.

Lei ha scritto che uno degli aspetti peculiari del capitalismo è il fatto di non poter essere distrutto o rovesciato conquistandone il centro, perché non ne possiede alcuno. Insomma, aveva ragione Marx: è finito il tempo dei colpi di mano?

Sì. Facciamo un esempio pratico: gli Stati Uniti. Tutti continuano a parlare della “meta-rivoluzione” del 6 gennaio, ma è un’assurdità. In nessuno modo, quel manipolo di persone avrebbe potuto conquistare il potere o ribaltarlo, perché dov’è il potere negli USA? Alla Casa Bianca? La mia professoressa di diritto costituzionale, in un’università americana, una donna di destra, diceva che il Presidente degli Stati Uniti ha scarsissimi poteri: nominare i giudici della Corte costituzionale e iniziare la Terza Guerra Mondiale. Ma non ha il potere di far varare le leggi.  Ci sono due Camere, il Senato è eletto in cinquanta Stati, i quali fanno le loro leggi, hanno enormi poteri locali. Dunque, il potere dov’è, negli Stati Uniti come nel resto dei Paesi capitalisti? Un po’ dappertutto.

Si è fatto un’idea del motivo per cui il capitalismo gode di cattiva stampa nella letteratura mondiale, fatta eccezione, forse, per Ayn Rand?

Proviamo ad immaginare per un secondo come potrebbe essere un romanzo filocapitalista: c’è un’industria che ha 10.000 lavoratori e sta andando male. Arriva un grande imprenditore, la compra, licenzia 5.000 operai. L’industria è salva e comincia a proliferare, mentre quei 5.000 muoiono di fame. Nessuno considererebbe possibile un romanzo del genere e nessuno considererebbe mai eroico l’imprenditore. I libri di Ayn Rand, infatti, diciamoci la verità, erano un po’ noiosi.

 

Foto Wikipedia | Razzairpina



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