Di muri e frontiere si muore: la storia della donna afghana morta assiderata

La morte è avvenuta al confine tra Iran e Turchia ma la nostra responsabilità è grande, perché parliamo di aiutare il popolo afghano ma poi costruiamo muri e chiudiamo le frontiere.

Valerio Nicolosi

Sdraiata, con una coperta sul volto e i piedi congelati dentro due sacchetti di plastica. La foto che ritrae la donna afghana morta il 31 dicembre 2021 sta facendo il giro delle redazioni e dei social network perché dimostra, in uno scatto semplice, la ferocia della chiusura delle frontiere al di là della retorica della mobilitazione per le donne afghane.

Perché se è vero che alcune persone stanno venendo via, è vero anche che fuori da chi ha collaborato con ambasciate e contingenti militari occidentali non resta alternativa se non quella di passare illegalmente le frontiere verso l’Iran, la Turchia e da lì risalire verso la rotta balcanica per arrivare verso la Germania, la Svezia o gli altri paesi del Nord Europa dove hanno qualcuno che li aspetta e la possibilità di rifarsi una vita. Un viaggio da oltre 9.000 chilometri, dove però le distanze sono il pericolo meno grave e dove di frontiere e confini si muore, anche assiderati.

Quel pezzo di confine è storicamente uno dei passaggi che dall’Asia Centrale porta verso l’Europa, un varco utilizzato dagli afghani nel corso degli ultimi anni, anche quando i Talebani erano ufficialmente sconfitti eppure continuavano a far paura alle persone, soprattutto quelle di etnia Hazara da sempre perseguitate perché musulmane sciite e di lingua farsi.

Nonostante ci siano più di 3 milioni di afghani presenti sul territorio, l’Iran non è un paese ospitale, neanche per gli Hazara. Tanti vengono rimpatriati (circa 100.000 dal 15 agosto a oggi) così i molti che restano si adattano a piccoli lavori in nero e di fatica, mentre gli altri proseguono verso la Turchia, nella stessa direzione della signora morta il 31 dicembre scorso. La zona è montuosa e molto fredda d’inverno, questo non rende il passaggio facile. Negli anni sono molti i migranti morti lungo quei sentieri, io stesso lungo la rotta balcanica ho raccolto molte testimonianze di morti su quel confine: “due di noi avevano finito le forze, stavano morendo ma non potevamo fermarci, saremmo rimasti lì anche noi senza poterci più muovere” mi ha raccontato nel 2020 in Bosnia il giovane Reza, un afghano partito a 18 anni dall’Iran, dove aveva trascorso 6 anni insieme a uno zio, dopo che i Talebani avevano sterminato tutta la sua famiglia.

Il confine turco-iraniano quindi è molto battuto, tanto che nel 2017 Erdogan fece approvare un progetto di costruzione di un muro, progetto che ha subito un’accelerazione nel 2020, dopo gli accordi di Doha tra Trump e i Talebani, quando sarebbe stato evidente a tutti che i secondi avrebbero ripreso il potere. Così lo scorso settembre erano pronti già 80 chilometri di muro e l’obiettivo era quello di arrivare a poco meno di 140 entro la fine 2021.
Il progetto completo prevede un totale di circa 300 chilometri che si snodano da Doğubeyazıt a Yüksekova, passando per Van. Coprendo quindi da Nord a Sud gran parte del confine con l’Iran.

Ma la nostra, legittima, indignazione per quella mamma morta assiderata non deve autoassolverci dalla tragedia quotidiana dei migranti, perché è morta in territorio iraniano ma sarebbe potuta morire, così come successo a tante altre persone, a pochi chilometri da casa nostra, senza che qualcuno se ne accorgesse o senza mai essere identificata. Quello che avviene lungo i confini europei è esattamente la stessa dinamica: la Grecia ha alzato un muro di 40 chilometri con la Turchia e fino al 15 agosto negava lo status di rifugiati agli afghani, rimpatriandoli così come facevano la Germania, l’Austria e altri paesi Ue.

L’Ungheria dal 2015 ha alzato il muro con la Serbia e proprio la scorsa settimana ha raggiunto un accordo con la Turchia per avere 50 agenti turchi lungo il confine per una collaborazione nel pattugliamento. In Bulgaria da tempo ci sono gruppi di paramilitari fascisti che pattugliano i confini per picchiare e respingere i migranti, tutto con il benestare delle autorità.

La Croazia è ormai certificato che agisce con violenza contro i migranti, anche donne, prima di respingerli in Bosnia, dove è arrivato il sistema dei centri per migranti sempre più simili a prigioni. È significativa in questo senso la riapertura del campo di Lipa, andato a fuoco lo scorso anno quando ospitava 800 persone e inaugurato lo scorso settembre con una nuova capienza di 1500 persone. Nel Nord della Bosnia c’è anche un cimitero dove ci sono alcune stele musulmane sulle quali è inciso “Lice NN”, senza nome.
Sono quelle dei migranti trovati morti mentre tentavano di passare il confine.

Andando più a Nord la situazione non migliora: la Slovenia continua il suo lavoro di costruzione della barriera di rete e filo spinato lungo il fiume Kolpa, che la divide dalla Croazia e, molto più a Nord, c’è il muro tra Polonia e Bielorussia e quello tra quest’ultima e la Lituania, meno noto alle cronache europee ma altrettanto efficace nel respingere i migranti che Lukashenko utilizza come forma di pressione nei confronti dell’Europa.

Un quadro desolante su tutta la rotta Est europea, dove gli inverni sono freddi, il clima è inospitale per chi non è ben vestito e non ha un buon rifugio, mentre il resto lo fanno le polizie di frontiera, pattugliando tutti i percorsi possibili spingono chi scappa a percorrere strade non segnate e spesso pericolose, con burroni dirupi improvvisi.
Un gioco a livelli dove in ballo c’è la vita e la dignità delle persone.



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