Superare gli stereotipi sugli studi e le carriere in ambito scientifico

Secondo una ricerca soltanto il 12,6% delle donne iscritte all’università ha scelto dei percorsi studio in area tecnico-scientifica. Circa il 60% delle studentesse italiane intervistate prima della scelta della facoltà universitaria dichiarerebbe di temere un processo di etichettamento sociale, cioè di essere considerata come una sorta di “nerd”.

Carlo Scognamiglio

Un’intera porzione del dibattito internazionale intorno alla questione dell’istruzione tecnico-scientifica è dedicata alla difficoltà di includere le studentesse e le giovani donne nella scelta di percorsi universitari relativi a quelle che impropriamente vengono definite, per brevità, “carriere STEM”. Precisiamo subito, infatti, che dal punto di vista metodologico-didattico, soprattutto in riferimento all’età scolare, quando si utilizza l’acronimo STEM ci si riferisce a un approccio interdisciplinare basato su un modello  laboratoriale che, ricorrendo a competenze provenienti dalle scienze della natura, dalla matematica, dall’uso delle tecnologie e dalle diverse articolazioni dell’ingegneria, pone gli studenti di fronte a situazioni problematiche, da cui uscire trovando soluzioni teoriche o generando artefatti. Nel dibattito più largo, anche universitario, e soprattutto nella “vulgata” italiana, si utilizza l’acronimo STEM anche per definire una successione discreta delle quattro discipline evocate dalla sigla, appunto. E quindi si parla di “carriere STEM” per indicare le “carriere in ambito scientifico”, generando facili equivoci. Ma questo non accade solo in Italia, si tratta di un’inclinazione internazionale, che deriva forse da un problema intrinseco: non tutti gli scienziati sono poi così convinti che le diverse discipline debbano ibridarsi, per cui si rimane in una situazione ambigua, almeno dal punto di vista terminologico.

Secondo una ricerca promossa da Microsoft nel 2017, European Girls in STEM (e qui si deve intendere l’acronimo, appunto, come insieme delle carriere scientifiche, e non quale approccio didattico interdisciplinare), soltanto il 12,6% delle donne iscritte all’università ha scelto dei percorsi studio di area STEM. Il dato appare piuttosto sorprendente se si considera che secondo l’indagine qualitativa, basata su interviste, il 42,1% delle studentesse di scuola secondaria si dichiara interessata alla matematica e il 41,7% conferma un discreto senso di autoefficacia nelle discipline scientifiche (contro il 37,6% del dato europeo). Incrociando i dati con altre ricerche, rileviamo che nei periodi successivi si è avuto un leggero incremento delle iscrizioni, che nell’anno accademico 2018/19 hanno raggiunto il 18,33% rispetto al totale delle donne iscritte all’università. All’interno dei percorsi scientifico-ingegneristici, in base ai dati del 2020 rileviamo che le ragazze si attestano comunque molto al di sotto della metà (37%) degli iscritti complessivi a quelle facoltà, nonostante il loro buon rendimento nelle discipline scientifiche durante l’intero percorso scolastico e, più in generale, un profitto complessivamente migliore – rispetto ai maschi – nella carriera pre-universitaria. Le ricerche qualitative condotte nell’ambito di European Girls in STEM, avevano già fatto emergere alcuni elementi particolarmente interessanti, nell’ottica di una possibile interpretazione di tale fenomeno, che ha tuttavia una sua complessità, non risolvibile in poche battute. In particolare colpisce un dato, in base al quale circa il 60% delle studentesse italiane intervistate prima della scelta della facoltà universitaria dichiarerebbe di temere un processo di etichettamento sociale, cioè di essere considerata come una sorta di “nerd”, confermando i timori diffusi rispetto alla penetrazione culturale di un immaginario pop decisamente modesto. Probabilmente anche la mancanza di sufficienti modelli di riferimento nell’ambito della comunicazione di massa (soprattutto TV e Social Network), con particolare riferimento ai canoni “narrativi” della femminilità, tende a incidere sulla percezione sociale, e dunque sull’auto-percezione delle ragazze eventualmente interessate agli studi scientifici, al punto da disincentivarne un prosieguo coerente coi propri interessi o con le proprie attitudini.

Questo è un primo tipo di stereotipo, ed è oggetto di attenzione anche su un piano internazionale del dibattito sulle STEM, testimoniando un fortissimo condizionamento dei pari e dei modelli sociali, nei processi decisionali delle giovani generazioni.

Al di là della difficoltà inclusiva nei confronti delle studentesse, l’impressione generale è che la forte insistenza degli ultimi vent’anni su una valorizzazione dell’approccio STEM non riesca comunque a produrre un significativo aumento del numero di studenti attratti dalle discipline scientifiche e ingegneristiche, neanche tra i maschi, almeno non in modo sufficiente rispetto alle aspettative governative. Anche qui, sarebbe troppo complesso entrare nel dettaglio del fenomeno, che è comunque assai differenziato, e non può essere letto attraverso un’unica chiave di interpretazione. Un caso molto particolare è proprio l’Italia, dove le politiche salariali per gli insegnanti sono tali da rendere la professione del docente poco attrattiva per i migliori laureati d’area scientifica, i quali sono naturalmente orientati verso possibilità occupazionali più gratificanti e remunerative. Ne sono prova le enormi difficoltà di reclutamento di docenti di matematica e fisica. E ciò è particolarmente vero per l’ultimo ventennio, quando il prestigio sociale e il potere d’acquisto salariale degli insegnanti italiani hanno subito un grave logoramento.

Ma provando a osservare il fenomeno da un punto di vista psico-pedagogico, non possiamo ignorare che esiste un rapporto stretto tra alcune forme del pensiero scientifico, con particolare riferimento alla fisica e alla matematica (di fatto basilari per ogni altro sviluppo dell’approccio STEM), con il senso di autoefficacia e in generale con la sfera dell’emotività. Il concetto di self-efficacy, introdotto nel dibattito psicologico da Albert Bandura, è particolarmente significativo in rapporto alla definizione del proprio impegno in una determinata attività, e dunque nella costruzione delle proprie aspirazioni future, ed ha risvolti metacognitivi rilevanti, andando a interferire con la capacità di spiegazione dei propri successi o insuccessi.

Beatrice Caponi e altri ricercatori alcuni anni fa hanno condotto ricerche interessanti sul rapporto tra matematica e metacognizione, dalle quali emergono informazioni significative sull’importanza del senso di autoefficacia, ma anche sulla persistenza di alcuni bias che appaiono incardinati alla disciplina, nel vissuto di alcuni discenti, e che incidono in modo obliquo sui processi di apprendimento. Da una serie di interviste raccolte tra studentesse e studenti, si rilevano frequenti dichiarazioni fortemente condizionanti il rapporto con la matematica. Si legge ad esempio che per alcuni degli intervistati “se capita di far male in matematica penso per questo di essere uno stupido”, e che “se ho sbagliato l’esercizio, ci resto male e lascio stare”, oppure “mi lascio prendere dall’agitazione e dall’ansia quando non so come andare avanti”; oppure “provo malessere (mal di pancia o altro), durante lo svolgimento dei compiti in classe[1]. Sulla base dei ricchi dati raccolti dall’intera ricerca, è possibile ipotizzare dunque che per gli studi matematici, forse in maggior misura rispetto ad altri campi di applicazione, la correlazione con la dimensione emotiva è particolarmente forte, interferendo coi processi metacognitivi in modo da ostacolare una più chiara spiegazione di successi e insuccessi. Ecco perché è probabilmente tanto diffusa la convinzione – costitutiva di un secondo, comune stereotipo – della matematica come “materia difficile”, per la quale “si è portati”, oppure “negati”.

Pertanto, rispetto ai modelli di insegnamento tradizionali, si va diffondendo l’idea in base alla quale per approdare a una maggiore consapevolezza metacognitiva nelle discipline scientifiche, occorre far irrompere nella pratica didattica alcuni processi trasformativi (che poi, in realtà, sono parzialmente già presenti in molte realtà scolastiche, già da diversi anni), come il ricorso sistematico ad azioni esperenziali, un maggior rinforzo sociale per l’impegno prestato in quell’area, l’esercizio di una peculiare attenzione ai propri processi di apprendimento (metacognizione) e la prossimità di buoni modelli di riferimento. Tutto questo dovrebbe convergere dunque nell’approccio didattico sintetizzato nell’acronimo STEM.

Secondo la teoria dei quattro elementi di Bybee[2], infatti, la dimensione della didattica STEM education dovrebbe avere un marcato profilo esperenziale, per costruire competenze di identificazione e spiegazione dei problemi tratti da esperienze di vita e fenomeni naturali, e articolare le diverse discipline secondo la logica della co-progettazione. Al fondo di tale iniziativa, secondo Bybee, occorre rafforzare un paio di importanti convinzioni: in primo luogo, assumere che i nostri ambienti sociali e culturali siano in fondo modellati sulle strutture concettuali e i modelli applicativi delle discipline STEM e, secondariamente, convincersi che ogni cittadino dovrebbe impegnarsi in modo costruttivo nelle questioni legate alla tecnologia, alla scienza e alla matematica.

Se quest’ultimo aspetto è certamente acquisibile come importante momento di consapevolezza etico-sociale, per la promozione di un approccio culturale ampio e non settoriale, con l’idea di una funzione costruttiva e responsabile della sostenibilità, appare forse più insidioso il primo assunto, dove possiamo intravedere anche qualche elemento di rischio. Una prassi operativa e sperimentale, che superi anche l’elemento contemplativo delle materie scientifiche per accelerare soltanto e prevalentemente su una dimensione applicativo-ingegneristica, cioè per “risolvere problemi”, può effettivamente facilitare il radicamento di una convinzione – relativa a una presunta leggibilità dei nostri ambienti e sociali attraverso il filtro unico delle cosiddette “discipline di area STEM” – sostanzialmente sbagliata. Si uniscono in tale convinzione una forma di riduzionismo e un’idea utilitaristica, evidentemente ingiustificate e potenzialmente distorsive, che forzano in una dimensione di lettura quantitativa ogni dinamica sociale, anche quando non è in alcun modo misurabile. Bisogna stare molto attenti, perché se è vero che incoraggiare l’approccio STEM può favorire il superamento di alcune false credenze e pregiudizi rispetto alle discipline scientifiche, rischia di generare un altro stereotipo, altrettanto limitante e pericoloso, fondato sull’idea che l’approccio delle scienze sia interamente risolvibile nella risoluzione di problemi pratici attraverso opportune applicazioni tecnologiche. Il che è solo parzialmente vero e, se radicalizzato in una posizione univoca, diventa globalmente falso.

[1] B. Caponi,  G. Falco,  R. Focchiatti,  C. Cornoldi,  D. Lucangeli , Didattica  metacognitiva  della matematica. Nuove prospettive e strumenti, Erickson, Gardolo (TN) 2006, pp. 375.

[2] R.W. Bybee, STEM Education Now More than Ever, National Science Teacher Association, Arlington 2018.



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