Donne e lavoro senza giri di boa

L’Italia non è un paese per donne, si sa. Ma quando sono le donne stesse a rilasciare dichiarazioni infelici, è bello che altre si ribellino. Lo ha fatto un collettivo di giornaliste grintose e consapevoli.

Marilù Oliva

L’Italia non è un paese per donne, si sa. Ma quando sono le donne stesse a rilasciare dichiarazioni infelici, è bello che altre si ribellino. Lo ha fatto un collettivo di giornaliste grintose e consapevoli, dopo che la stilista Elisabetta Franchi ha dichiarato che assume le donne solo «dopo i quattro giri di boa – ovvero matrimonio, figli, divorzio, over 40. Sono tranquille e lavorano h24».

Se la stilista si è piegata alle logiche di un mercato dove la disparità di genere è all’ordine del giorno, diciassette professioniste hanno detto di no e lo hanno fatto attraverso il volume “Senza giri di boa” (PaperFirst), un progetto che non si scaglia contro l’imprenditrice, anzi: approfitta delle sue parole per cogliere l’occasione di riflettere.

Eccole le diciassette voci che hanno dato vita a queste pagine: Francesca Biagiotti, Valeria Brigida, Giulia Cerino, Gaia De Scalzi, Micaela Farrocco, Francesca Fornario, Silvia Franco, Chiara Maria Gargioli, Linda Giannattasio, Sara Giudice, Barbara Gubellini, Sofia Mattioli, Ambra Orengo, Valentina Petrini, Giulia Presutti, Chiara Proietti D’Ambra, Nathania Zevi.

Non si tratta di un movimento politico, ma di “un grido trasversale” che racconta quanto sia difficile oggi inserirsi nel mondo del lavoro, mantenerlo, non diventare invisibili quando un presunto ostacolo si frappone tra noi e la professione.

C’è qualcosa che non funziona nel sistema, qualcosa che ha a che fare con una giustizia mancata tra le classi sociali, qualcosa che tende a consolidare i privilegi a scapito della democrazia, in uno scenario in cui i governi che si succedono talvolta peggiorano lo stato delle cose. Tutto questo è rafforzato da modelli atavici :

“La persistente difficoltà in Italia a conciliare un’occupazione con la maternità è causata sia dalla troppo frequente inflessibilità irragionevole e cieca del mondo imprenditoriale, sia dalla diffusione di rapporti di lavoro troppo poco, o per nulla, protetti da diritti esigibili, ma anche dal fatto che culturalmente e organizzativamente l’onere della cura e del benessere dei figli continua a essere caricato esclusivamente sulle spalle delle madri”.

L’arretratezza della condizione femminile nel Belpaese stride con il nostro livello di sviluppo e non è solo il prodotto della matrice patriarcale, ma è anche il frutto di una serie di riforme che, in barba alla Costituzione, hanno reso la donna sempre meno in carriera e sempre più ostaggio della sua condizione di partenza, nonché di un ingranaggio che premia chi può immolarsi al lavoro senza riserve.

“L’ascensore sociale italiano è costruito per schiantare a terra il 90% di noi e arricchire, mediante il nostro impoverimento, i pochi ricchi che si elevano”. Innumerevoli sono le storie che hanno lasciato cicatrici (anche fisiche), storie di possibilità sottratte, storie di sogni deturpati. C’è chi non ce la fa più e arriva al punto di accoltellarsi, chi si dichiara sconfitta, chi rinuncia ai figli, chi ha vissuto come in clausura. Poi ci sono quelle considerate ribelli e sovversive, che spesso hanno pagato caro il prezzo del loro coraggio: licenziamenti, mobbing e via dicendo.

Un libro di denuncia che è anche un grido di speranza e in questo senso gli ultimi capitoli ci prospettano un futuro auspicabile, di cui già si vedono sbocciare i timidi germogli. Un progetto sincero, preciso, ricco di dati, che infonde energia e ci fa sentire – tutte e tutti – meno soli.

 

 



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