Donne partigiane: la Resistenza fu anche femminile

In occasione del 25 aprile pubblichiamo un articolo tratto dal numero di MicroMega+ del 7 marzo 2023. Che la Storia abbia trascurato, intenzionalmente o per distrazione, tante donne è una verità incontrovertibile, che valse anche per le donne partigiane nella Resistenza. E questo non perché gli uomini siano più forti, ma perché hanno avuto il monopolio della cultura e del potere, entrambi indispensabili per redigere i documenti su cui si costruiscono l'una e l'altro.

Teresa Simeone

“Avevamo vent’anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch’è in mano nemica
vedevam l’altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent’anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l’amore”
Italo Calvino

Nel 2012 uscì Libere sempre, libro in cui un’ex partigiana di 87 anni scrive una lettera a una ragazza incontrata per caso in un parco e parla di sé, della propria gioventù e della scelta, rivelatasi fondamentale, di far parte della lotta per la Liberazione: quella donna era Marisa Ombra, vicepresidente dell’ANPI nazionale, staffetta attiva nei Gruppi di Difesa della Donna, ex dirigente dell’UDI, morta nel 2019, dopo una vita di militanza in favore delle donne.
Il libro racconta di un’adolescente che ha sconfitto l’anoressia riempiendo quel vuoto con l’impegno politico, e il “politico”, nei tempi bui della sua giovinezza, consisteva nello scegliere se stare con i nazisti e i repubblichini oppure cercare di dare una dignità a quell’Italia che lottava per riconquistare l’umanità persa.
“Posso dirmi molto fortunata – confesserà poi – perché è stata la vita stessa a presentarmi la via d’uscita. Accadde quando di anni ne avevo ormai diciassette. Un gesto di mio padre mi obbligò a uscire dal cerchio chiuso delle domande senza risposta in cui stavo sempre più asserragliata e a guardare fuori. Il mondo aveva preso fuoco. C’erano delle urgenze. Le mie angosce potevano aspettare. C’era qualcosa da fare subito.”

E lei scelse, scelse di stare con la Resistenza, con i partigiani, con quegli italiani che non avevano voluto indossare la camicia nera. Era libera, una libertà faticosa, perchè richiede una continua apertura all’esterno: “l’attenzione verso il mondo e verso gli altri, e quindi verso se stessi, è il primo requisito per imparare a esseri liberi”.[1] Anche la Resistenza, allora, era declinata al maschile: che la storia abbia trascurato, intenzionalmente o per distrazione – una distrazione comunque colpevole e discriminante – tante figure femminili è una verità incontrovertibile. E questo non perché gli uomini siano più forti, ma perché hanno avuto il monopolio della cultura e del potere, entrambi indispensabili per redigere i documenti su cui la si costruisce. Chiunque abbia avuto a disposizione gli strumenti per fissare le informazioni ha scelto quali riportare e quali tacere, non necessariamente nell’ottica di una loro manipolazione, spesso, però, in quella dell’arbitrio. Una sorte dura, non fosse altro per la lunghezza temporale dell’oblio, è toccata all’universo delle donne, delle cui esistenze per secoli, tranne per poche eccezioni, non si è fatto cenno, come se non fossero mai state partorite né defunte: ignorate nella presenza e nell’essenza.

Coscienza del proprio valore e autostima sono arrivate lentamente, anche con l’impegno in campi considerati prima loro estranei: una forte spinta è venuta anche dalla partecipazione alle azioni partigiane nel periodo buio dell’occupazione tedesca, quando il coraggio di varcare i ruoli assegnati che le confinavano in casa incomincia a sovvertire gli equilibri di genere e ad aprire nuovi e più pericolosi, ma anche dignitosi, scenari di esistenza. E, ciononostante, a lungo si è negata voce a tante donne che avevano preso un fucile, indossato dei pantaloni e una camicia logora, lasciato la sicurezza delle loro case per salire sulle montagne o anche soltanto per preparare le azioni nelle città, rischiando la salute, gli affetti, la vita e che, alla fine della guerra, erano tornate alle loro occupazioni senza un grazie e senza veder riconosciuto il loro specifico contributo. Marisa Ombra riporta l’esempio di Tina Lorenzoni, una combattente di 25 anni che, più volte impegnata in missioni importanti, fu poi arrestata e fucilata. Quando le fu conferita alla memoria la medaglia d’oro al valore militare, venne salutata come “Angelo consolatore tra i feriti”: tutta quella spericolatezza, tutto quel coraggio, sottolinea amaramente Ombra, umiliati da un funzionario che non sapeva trovare le parole per definire una persona come Tina Lorenzoni.

A molte di loro, dopo la Liberazione, fu chiesto di non sfilare; alcune poterono farlo, ma con la fascia di crocerossina, per indicare un valore attivo sì, ma non militare, che fosse accettabile socialmente. Elsa Oliva, comandante di una brigata, col titolo di tenente, racconta: “Nella lotta di liberazione non sempre la donna era accettata come lo sono stata io. Anche nelle formazioni dei garibaldini la donna serviva per lavare, rammendare, al massimo fare la staffetta. E rischiava più dell’uomo, perché le staffette rischiavano moltissimo: io avevo un fucile per difendermi, ma la staffetta doveva passare tutte le file, andare in mezzo al nemico, disarmata, e fare quello che faceva. E se era presa….Sono tantissime le donne che hanno partecipato alla Resistenza e non hanno avuto il riconoscimento…..Anche a me non hanno riconosciuto il periodo di Bolzano”.
A volte sono loro stesse a non chiedere il riconoscimento ufficiale di partigiane: perché? “Per decenni, migliaia di donne che avevano preso parte nei modi più vari alla Resistenza stanno zitte perché pensano di non avere proprio nulla da dire, di essere state irrilevanti. Quando le storiche cominciano a chiedere loro di raccontare, si schermiscono. Il fatto che mettessero quotidianamente a repentaglio la vita tra pericoli e difficoltà di ogni genere, non conta[2].

Nella Resistenza, tuttavia, la donna si scopre non solo libera, ma piena di risorse: “Può sentirsi, finalmente, un individuo. Una persona degna d’attenzione e dotata di valore di per se stessa, non solo in relazione al proprio ruolo di moglie o madre[3], scrive Benedetta Tobagi in La Resistenza delle donne, dove riporta testimonianze su come molte partigiane fossero consapevoli che la promiscuità con gli altri uomini mettesse a rischio la loro reputazione, allora un bene essenziale per essere accettate in società. «È facile dire di una donna: “fa la puttana” quando vive con mille uomini. D’altronde, se entravo alla sera in una stalla con trenta ragazzi, non potevo mica pretendere che la gente pensasse che dicevo il rosario. Insomma io lo sapevo e l’ho accettato tranquillamente che dicessero che facevo la puttana. Ma ho vissuto da cattolica»[4], sottolinea l’autrice nel riferire le confessioni di un’ex partigiana, Tersilla Fenoglio, nome di battaglia Trottolina.
Le donne partigiane combattenti riconosciute – si legge nel sito dell’ANPI – furono 35 mila e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna; 4653 di loro furono arrestate e torturate, oltre 2750 vennero deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate; 1070 caddero in combattimento e 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d’oro al valor militare: un numero impressionante per una presenza che è stata di fatto per molto tempo un’assenza.

Fu proprio quell’impegno a cambiare la percezione femminile del sé, ricorda ancora Ombra in un’intervista, a proposito del 25 luglio 43, in cui spiega come la guerra avesse lavorato come una talpa e trasformato la gente da fascista in antifascista, come si sperasse nella fine ma si fosse rimasti sconcertati dal comunicato di Badoglio che diceva che la guerra continuava e come i tedeschi avessero occupato le città: “In quei mesi – continua Ombra – quelle ragazzine impararono a diventare grandi e a pensare al di là di quel piccolo orizzonte nel quale era racchiuso il loro futuro. Era naturale che avrebbero votato di lì a poco. E conquistato spazi via via crescenti di esercizio politico.” E infatti, quelle donne, che conoscevano soltanto divieti, rompevano il silenzio, si incontravano, si organizzavano. Donne tradite e in silenzio, violentate – ma era meglio non dirlo perché sarebbero state disonorate -, costrette nell’ignoranza, a cui non era permesso pensare autonomamente, studiare, esprimere la loro intelligenza, si appropriano, con la lotta di Liberazione, di nuove modalità di esistenza, della consapevolezza di poter agire, imbracciare un fucile, dormire al freddo con gli uomini, fare la guardia, passare tra le fila tedesche: era un atto rivoluzionario per le partigiane e servì a dar loro il senso del proprio valore e della propria forza

Il primo riconoscimento – riferisce sempre Marisa Ombra in un suo articolo pubblicato su Patria Indipendente del novembre 2016 – l’abbiamo avuto proprio dai partigiani con i quali vivevamo, perché loro tra l’altro sapevano in ogni momento che noi non eravamo obbligate ad andare a fare la guerra. I ragazzi erano obbligati, in qualche modo, perché c’erano i bandi dei tedeschi, dei repubblichini, e se non si presentavano venivano dichiarati disertori, e i disertori venivano naturalmente fucilati, o deportati. Per noi non c’erano stati bandi, l’abbiamo fatto per tutte le motivazioni che qui sono state lette. Io credo che riconoscevano che era la prima volta che le donne come massa entravano in guerra, e ci entravano in quel modo, in prima fila; uscivano dal ruolo familiare e si assumevano responsabilità militari, politiche, sociali fondamentali”.
Le donne entrano concretamente nella storia e, insieme all’amicizia profonda che nasce tra partigiani, si fa strada un sentimento nuovo, “quel senso della politica al quale erano estranei la carriera, il professionismo, il guadagnare, il farsi posto nella vita”.

Una bella testimonianza, quella di Marisa Ombra, nel cui impegno si sono intrecciati Resistenza, antifascismo e femminismo e il cui forte appello alla bella politica, fatta di onestà e serietà, e alla libertà, inestricabilmente connessa con la responsabilità, individuale e collettiva, rimane una costante nelle storie di tante. “Sono ex prof, ex tante altre cose, ma non ex partigiana: perché essere partigiani è una scelta di vita”, ebbe a dire un’altra grande figura di donna impegnata fino alla fine dei suoi giorni, Lidia Menapace.
Accanto a una Resistenza armata, c’è stata una resistenza civile, come oggi la ricerca storica sta sempre più sottolineando. “La resistenza civile – scrive Jacques Sèmelin in un bel saggio di qualche anno fa – costituì un mezzo privilegiato per aprire un abisso fra la dominazione militare, che era uno stato di fatto, e la sottomissione politica, che è una disposizione di spirito[6]. In tal senso, le obiezioni di quanti non riconoscono valore alla Resistenza né a quella armata né, a maggior ragione, a quella disarmata, appaiono non solo effetto di una miopia chiaramente ideologica, ma anche il frutto di un cinismo che riconosce il peso di un’azione solo dalla sua efficacia pratica. Il senso di un agire morale non può misurarsi dal successo o dall’insuccesso, militare o politico, né dalle modalità in cui si espresse, bensì dalla capacità di ribellarsi e di porre le condizioni di una responsabilità presente che si fa testimonianza per il futuro. Sappiamo che in tutta Europa ci furono forme di Resistenza, diverse per composizione, estensione e strutture ma accomunate dalla stessa volontà di non piegarsi alla dittatura nazifascista: quella delle donne, che furono di supporto alla rete di clandestinità, divenne necessaria per alimentare il mare in cui i partigiani poterono nuotare.

Come scrive Massimo Canuti nel libro La resistenza taciuta, nel decidere di “imbracciare un fucile o di diventare una staffetta, le donne non hanno scelto soltanto di combattere per il loro Paese, l’Italia. Lo hanno fatto anche per se stesse[6] e, come disse Tina Anselmi, “La lotta armata fu la nostra emancipazione dalle famiglie”. In quegli anni di militanza clandestina le donne iniziarono un percorso nuovo, di presa di coscienza, di volontà di partecipazione, di richiesta di diritto, il più importante di tutti, quello di voto. E, finalmente, lo ottennero: il 1° febbraio del 1945, il Consiglio dei Ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emanò un provvedimento che, finalmente e definitivamente, estendeva il diritto di voto alle donne. Il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 lo conferiva alle italiane che avessero almeno 21 anni e che non esercitassero la prostituzione, ma non contemplava l’elettorato passivo che poi sarà concesso con il Decreto n. 74 del Marzo 1946: in occasione delle prime elezioni amministrative postbelliche e poi di quelle politiche del 2 giugno 1946, le donne con almeno 25 anni di età poterono non solo eleggere ma essere elette. Come riportò allora la giornalista Anna Garofalo: «Le schede che ci arrivano a casa e ci invitano a compiere il nostro dovere hanno un’autorità silenziosa e perentoria. Le rigiriamo tra le mani e ci sembrano più preziose della tessera del pane. Stringiamo le schede come biglietti d’amore».
La mattina del 2 giugno il Corriere della Sera titolò: “Senza rossetto nella cabina elettorale” con cui invitava le donne a evitare di presentarsi presso il seggio col rossetto sulle labbra. Poiché la scheda doveva essere incollata, per non rendere nullo il voto con qualche segno di riconoscimento, si doveva essere attenti a non “sporcarlo”. “Dunque – concludeva il giornalista – il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio”. Ci era voluto tanto per ottenere quel diritto: nessuno sbaffo avrebbe dovuto vanificarlo.


[1] Marisa Ombra, Libere sempre, Einaudi, pag. 48.

[2] Benedetta Tobagi, La resistenza delle donne, Einaudi, pag. 340.

[3] Op. cit. pag. 80.

[4] Op. cit. pag. 143.

[5] Jacques Sèmelin, Senz’armi di fronte a Hitler, edizioni Sonda, 1993, pag. 16.

[6] Massimo Canuti, La resistenza taciuta, Corriere della Sera, pag. 23-24

CREDITI FOTO: Collections – GetArchive – Ada Gobetti, partigiana.



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