Potere, terrore e soldi: la “nuova” Libia pronta ad accogliere Mario Draghi

Dopo Di Maio e l’ad di Eni, Descalzi, è il turno del premier, pronto a volare verso Tripoli per incontrare il nuovo capo del governo, Dbeibeh.

Valerio Nicolosi

A quasi due mesi dall’elezione a sorpresa di Abdul Hamid Dbeibeh alla carica di capo del governo, la Libia è più che mai centrale nella geopolitica del Mediterraneo (e non solo). Il neopremier a inizio febbraio ha sconfitto la lista data per favorita, quella formata da Aguila Saleh, ex Capo della Camera dei rappresentanti di Toubruk, in Cirenaica, e dall’ex ministro degli interni di Tripoli, Fathi Bashagha, entrambi molto influenti nella propria zona di competenza.

Dbeibeh invece è un uomo d’affari di calibro internazionale, tanto che la sua famiglia, in passato vicina al raìs Gheddafi, come riferisce il Times, è stata accusata “del più grande caso di frode nella storia scozzese” e la sua elezione è stata molto discussa perché almeno tre dei 75 delegati all’elezione del capo del governo e del Consiglio presidenziale hanno ricevuto proposte di soldi in cambio del sostegno a Dbeibeh.

Con la vittoria di Dbeibeh di fatto non ha vinto nessuno schieramento in campo nella Libia degli ultimi anni: in particolare non ha vinto la Fratellanza Musulmana che, con il grande sponsor Recep Tayyip Erdoğan, sosteneva la candidatura di Bashagha, uomo forte di Tripoli dove la Turchia ha forti interessi e ha addirittura inviato droni e combattenti per sostenere l’ex governo di Fayez al-Sarraj, di cui Bashagha era ministro degli Interni. Non ha vinto Al-Sisi e, con lui, l’asse con l’Arabia Saudita che ha visto un indebolimento sempre maggiore del generale Haftar il quale fino a due anni fa sembrava avesse la vittoria in tasca e la presa di Tripoli a portata di mano.

In questo contesto l’Europa e in particolare l’Italia provano a inserirsi dopo un’assenza importante che ha lasciato campo aperto agli altri attori internazionali. Forti anche della nuova linea statunitense dopo l’elezione di Biden, Macron ha dichiarato che “la Francia ha un debito con la Libia”, visto che proprio da Parigi era iniziata l’offensiva che dieci anni fa ha portato prima alla caduta di Gheddafi e poi ad anni di crisi e guerre intestine.

Mario Draghi il 6 e 7 aprile volerà in Libia, seguendo la missione del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, di pochi giorni fa e quella dell’amministratore delegato di ENI, Claudio Descalzi, che hanno incontrato il capo del governo, il Consiglio di presidenza e soprattutto il Ministro del petrolio. Gli interessi sono tanti e l’Italia cerca un ruolo da protagonista in un Paese che sembra pacificato ma che di fatto non lo è.

La presenza di numerose milizie straniere inviate dalla Turchia e dalla Russia non garantisce la stabilità del Paese: alcune di esse sono composte da jihadisti provenienti dalla Siria mentre altri sono mercenari dell’agenzia Wagner, il cui capo è vicino a Putin. Stessa cosa vale per le lotte intestine tra le tante fazioni interne che non saranno facili da dimenticare per i massacri compiuti sulla popolazione civile e gli avversari politici.

Proprio qualche giorno fa sono stati identificati centinaia di cadaveri a Tarhuna, in una fossa comune nella quale si scavava da quasi un anno, da quando la città era stata strappata a una banda fedele a Haftar. I responsabili sono i fratelli Kanyat, una banda che ha terrorizzato per anni la popolazione locale, uccidendo alla luce del giorno, facendo rastrellamenti e obbligando i migranti detenuti in un lager in quella zona a scavare e a seppellire i cadaveri nelle fosse comuni. Quando la città è stata presa dalle forze di Tripoli, tre dei sette fratelli Kanyat ancora rimasti in vita si sono rifugiati in Cirenaica insieme a un centinaio di miliziani a loro legati. La rabbia è esplosa nella popolazione locale che nei giorni scorsi ha organizzato manifestazioni per ricordare quello che è accaduto.

Potere, terrore e soldi: chi ancora controlla la propria zona difficilmente sarà disposto a cedere il controllo al nuovo governo di unità nazionale. Ed è proprio quest’ultimo punto che l’Italia sta ignorando, almeno formalmente, perché il grande business della detenzione dei migranti in Libia è ancora sotto il controllo delle singole fazioni.

Secondo l’inviato ONU in Libia, Jan Kubis, sono attualmente 3858 i migranti detenuti nei centri ufficiali libici, ai quali vanno sommati quelli dei numerosi e difficilmente controllabili lager gestiti direttamente dalle milizie e che sono una grande fonte di guadagno grazie ai riscatti che le famiglie d’origine pagano dopo aver ricevuto video e foto di torture e sevizie dei loro familiari.

Su questo il governo italiano tace e, anzi, il rinnovo del memorandum d’intesa tra Italia e Libia per l’attività di controllo e respingimento dei migranti è ormai un assunto della politica italiana che vede poche, pochissime voci contrarie levarsi a ogni scadenza.

La presenza italiana ed europea in Libia è strategica anche per limitare l’espansionismo turco che ha causato non pochi problemi anche nel Mediterraneo Orientale, dove a largo di Cipro c’è una questione aperta sulle trivellazioni e le aree di competenza. La Grecia e Cipro ne hanno fatto le spese ma il tema è ben più vasto, tanto da essere stato inserito tra i punti dell’ultimo Consiglio Europeo, dove i capi di Stato e di Governo dell’Unione hanno augurato un clima più disteso con una potenza regionale ingombrante e per di più membro della Nato come la Turchia, soprattutto per il ruolo essenziale che gioca nel blocco dei flussi migratori verso la Rotta Balcanica.

Un quadro complesso, quindi, non solo in Libia ma in tutto il Mediterraneo per la presenza di numerose potenze locali e mondiali che hanno interessi simili e contrastanti.

[Foto di Valerio Nicolosi]

 

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