Due popoli, uno Stato: un’utopia realizzabile

La spartizione, l’accaparramento e la frammentazione della terra sono state al centro dei conflitti in Israele e Palestina nell’ultimo secolo. Oggi i clan al potere di entrambe le fazioni dipendono dalla guerra per la propria sopravvivenza politica: Hamas aveva bisogno del 7 ottobre per riaffermarsi sugli avversari politici e il governo israeliano continua a bombardare Gaza per rimanere in piedi. Nonostante l'assenza di forze civili organizzate per ribaltare gli attuali governi e l'insipienza della comunità internazionale, la soluzione va cercata testardamente, più che nella terra, nelle istituzioni democratiche adatte per realizzare l’utopia dei due popoli in uno Stato.

Fabio Armao

Ci vuole coraggio oggi, in Italia, per rivendicare il dovere, prima ancora che il diritto, di discutere di guerra e pace, di Ucraina e Russia, di Israele e Palestina sottraendosi alle polemiche politiche (e, a maggior ragione, alle inutili corride da arena social) e con qualche cognizione di causa (che è alla portata di chiunque abbia voglia di leggere, magari attingendo all’ottima produzione accademica italiana e straniera su questi temi). E ancora di più a “mettersi in discussione”, come ha fatto la redazione di MicroMega. Parteggiare è del tutto legittimo, ma non aiuta a orientarsi in una situazione disperante come quella bellica, dove comunque i torti che si accumulano su tutti i fronti fanno strame delle (poche) ragioni residue.
In un’intervista rilasciata a la Repubblica del 15 marzo, la scrittrice Suad Amiry, sostenitrice degli accordi di Oslo e della soluzione dei due Stati, afferma: “Abbiamo negoziato per trent’anni, non siamo mai arrivati a nulla. E sa perché? Perché questo è uno scontro sulla terra, se vogliamo una soluzione dobbiamo partire dalla terra”.
L’elemento della territorialità, in effetti, accompagna la vicenda israelo-palestinese fin dalle origini. Non è certo una sua esclusiva prerogativa: tutti o quasi i conflitti hanno una componente territoriale. Ma qui la terra è un elemento consustanziale al progetto politico da cui ha origine lo Stato di Israele, oltretutto arricchito nel tempo, strumentalmente, di significati religiosi.
A costo di apparire prosaico, vorrei ricordare che la Dichiarazione Balfour del 1917 rappresenta l’esito di un processo intriso, a ben vedere, di razzismo e di antisemitismo, non a caso gestito da una delle massime potenze coloniali dell’epoca, la Gran Bretagna che, con il realismo (e il cinismo) che l’hanno contraddistinta nelle sue imprese indiane e nordamericane, pensa così di rendere più accettabile la pretesa (che condivide con gli Stati Uniti) di impedire le migrazioni degli ebrei nel proprio paese. È una forma di esternalizzazione di un problema politico, affidato al movimento sionista, cui di fatto gli inglesi suggeriscono anche la strategia di insediamento nella quale, del resto, si erano dimostrati maestri: procedere all’acquisto di terre, riprodurre cioè in Palestina il meccanismo delle enclosure, partendo dal presupposto della terra nullius (la terra vuota è di chi la coltiva), che aveva funzionato così bene nelle immense praterie del Nordamerica.
Non è certo questa la sede per ripercorrere tutte le tappe che da allora hanno segnato la nascita e l’espansione dello Stato d’Israele; ma vale almeno la pena osservare che quella stessa destra religiosa ultraortodossa che adesso arma i coloni e li spinge a creare sempre nuovi insediamenti nei territori palestinesi, era inizialmente contraria all’idea sionista di una “terra d’Israele”, ritenendo invece che il popolo ebraico dovesse assimilarsi nei paesi in cui viveva.
Catapultandoci ai giorni nostri basta guardare una mappa della regione Israele-Palestina per rendersi conto che il risultato di questa – lasciatemi dire – fallimentare ideologia territoriale dell’Occidente (riprodotta, per inciso, anche negli accordi di Dayton sulla spartizione della Bosnia) è un patchwork delirante di enclavi separate da muri. Una geografia schizofrenica di gated communities (kibbutz) e campi profughi, due delle architetture urbanistiche di maggior successo della globalizzazione neoliberista.
Se questa è l’idea di terra, non ci si può sorprendere poi che a gestirla siano alla fin fine poteri a base clanica. Hamas è un clan, per di più a carattere paramafioso, capace di vincere le elezioni a Gaza, ma non di rinunciare ai metodi clientelari e violenti con cui gestisce il proprio consenso. Un clan costretto, tra l’altro, a interagire sempre di più con altri clan familiari palestinesi che monopolizzano il mercato nero – ne trovate ampie conferme nelle cronache dei giornali. Sul versante israeliano, un sistema istituzionalmente democratico si è incancrenito attorno a un’oligarchia del potere il cui boss, Netanyahu, non si è mai fatto alcuno scrupolo di anteporre i propri interessi a quelli collettivi.
Diciamolo meglio: entrambi i contendenti, in mancanza di basi solide su cui fondare la propria legittimità, hanno trovato nella guerra – ma sarebbe più corretto definirla ormai faida – la soluzione alla propria stessa sopravvivenza politica. La strage del 7 ottobre 2023 di oltre 1200 civili israeliani inermi, ciò che la rende se possibile ancora più grave, è stata un tentativo dei capi di Hamas (in maggioranza residenti all’estero, con ogni confort) di riaffermare la propria leadership tra i tanti gruppi palestinesi che competono per accreditarsi presso le rispettive porzioni di masse. Il bombardamento indiscriminato di Gaza e il massacro perdurante dei palestinesi serve al governo israeliano, che non ha più titolo per definirsi democratico, per mantenersi in carica.
È come dire che anche questa guerra rappresenta una “prosecuzione della politica con altri mezzi” e che la vera tragedia è la totale assenza di forze civili e politiche che siano in grado di sbarazzarsi di leader inadatti a gestire un processo di pace, perché troppo impegnati a difendere i propri interessi personali e incapaci anche soltanto di immaginare l’esistenza di un bene pubblico superiore. A questo, come se non bastasse, va aggiunta l’insipienza di una comunità internazionale che, invece di affidarsi alle istituzioni cui ha saputo dar vita, dalle Nazioni Unite all’Unione europea, preferisce subappaltare il compito arduo della mediazione a regimi autoritari dell’area, alcuni in chiaro conflitto di interessi (mi riferisco, com’è ovvio, al Qatar, tra i principali finanziatori di Hamas).
Per tornare, in conclusione, alla citazione di Suad Amiry da cui ho preso le mosse, non credo tuttavia che la soluzione vada cercata una volta di più a partire dalla terra, la cui a dir poco maldestra spartizione è all’origine di tutto. Il possesso della terra non assicura di per sé a un popolo le risorse per sopravvivere e la costruzione di sempre nuovi muri non ne garantisce la sicurezza. Sono le istituzioni a farlo. E quelle democratiche, di cui Israele ha memoria, hanno tutte le potenzialità per realizzare l’utopia di due popoli in uno stesso Stato.
CREDITI: ANSA / MOHAMMED SABER



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