È la diversity, bellezza!

In un mondo in cui tutto, persino i dati corporei più elementari come il sesso, è un “costrutto sociale” e in cui quello che conta è come ciascuno di noi “si sente”, il rischio è di non lottare più per sovvertire oggettivi rapporti di forza ma per ricavarci il nostro piccolo angolo di mondo giustapposto a quello degli altri.

Cinzia Sciuto

Da un paio d’anni ho l’occasione di insegnare in un istituto di formazione superiore a Francoforte e quindi di confrontarmi con la generazione degli attuali ventenni. Trattandosi di studenti che stanno solo poche settimane (è un corso concentrato) tengono sempre davanti sul banco un cartello con il loro nome e cognome, si tratta di cartelli standard preparati dalla scuola. Ogni tanto capita però che qualcuno lo personalizzi. È il caso di Chris (il nome è di fantasia), che sul suo cartello oltre al nome ha scritto a mano anche “dei/dem”, che immagino si riferisca al fatto che nei suoi confronti vuole che si usino i pronomi inglesi “they/them” (perché lo abbia scritto con la “d” è un mistero…).
Già da un po’ ho capito che quello dell’“identità di genere” è un tema “sensibile” in questa generazione e sto mettendo in atto delle strategie di sopravvivenza. Per esempio, all’inizio delle lezioni propongo di chiamarci per nome e non per cognome: in tedesco se chiami qualcuno per cognome e gli dai del “Sie” (l’equivalente del nostro “lei”), devi per forza premettere “Frau/Herr”, signora/signor. Giocando sul fatto di non essere madrelingua, dico che per me è difficile talvolta pronunciare i loro cognomi mentre di norma i nomi sono più semplici. E così evito la prima “trappola”, ossia quella di “assegnare” a qualcuno un’appartenenza di genere sulla base dell’aspetto e del nome.
Il nostro tema è di quelli molto “caldi”, soprattutto in questa generazione: identity politics. Chris partecipa attivamente alle discussioni mentre lavora a maglia (non so se in Italia c’è questa moda, ma qui in diverse classi ho avuto studenti che lavorano a maglia durante le lezioni…). I suoi contributi sono sempre puntuali, anche se talvolta molto sopra le righe. Per esempio, quando sostiene che ognuno ha il diritto di rinunciare liberamente ai propri diritti umani. “Quindi io ho il diritto di farmi schiavo di qualcuno?”, chiedo per capire meglio. “Sì, se lo fa liberamente sì”. Cosa significhi “liberamente” sarà poi l’oggetto della discussione che seguirà.
Fra i tanti temi affrontati durante il workshop arriva il momento di discutere delle cosiddette “affirmative actions”, ossia quelle misure legislative che per appianare delle differenze socio-economiche garantiscono dei “privilegi” a determinati gruppi. Esempio classico, le quote rosa (che si chiamano così solo in Italia, in tedesco sono le “Frauenquoten” non le “rosa Quoten” che farebbe solo ridere). Dibattito aperto: chi ha argomenti pro, chi argomenti contro? La discussione si fa accesa. Chris interviene: “Queste misure possono essere utili per aiutare le persone percepite come di genere femminile a emergere”. Proprio così: in tedesco le “weiblich gelesene Personen”, letteralmente persone “lette”, “interpretate”, “percepite” come femminili. Non si può dire che Chris sia una “persona percepita come di genere femminile”, però neanche una “persona percepita come di genere maschile”. Fin da quando sono entrata in classe non mi era chiaro se fosse un ragazzo o una ragazza, dato che fa di tutto esattamente affinché chi ha di fronte non possa capire il suo genere né dal suo aspetto né dal suo nome. Con ogni probabilità si definirebbe una persona transgender o queer o fluid o non binaria. Ho poche ore in ciascuna classe e non ho modo di approfondire le relazioni personali con gli studenti, per cui non lo saprò mai.

Nel registro di classe però “Chris” non esiste. Esiste Christine. Per aiutare gli insegnanti a individuare subito gli alunni ci sono anche le foto. Dal nome e dalla foto capisco dunque che Chris/Christine è una ragazza. Tornata a casa dopo la lezione quella sua risposta mi continua a girare in testa e mi chiedo: poiché Chris/Christine non è una “persona percepita come di genere femminile”, secondo la sua stessa definizione lei, dunque, non dovrebbe avere accesso alle misure riservate alle donne? E viceversa, basta essere “percepite come di genere femminile” per ottenere per esempio un posto grazie alle quote rosa?
Questa vicenda mi ha messo in maniera molto concreta di fronte alle contraddizioni in cui il discorso sull’identità di genere rischia pericolosamente di scivolare e ai rischi a cui andiamo incontro. Innanzitutto, l’ostinazione a voler negare i fatti. Che io mi possa “sbagliare” nell’identificare qualcuno perché dai tratti esteriori non è chiarissimo se sia un uomo o una donna (cosa che accade comunque di rado specie negli adulti, ma comunque può accadere) non cambia assolutamente nulla sul fatto che quella persona sia un uomo o una donna. A Chris non piace che gli altri sappiano subito appena la vedono che è una donna e fa di tutto per nasconderlo. Benissimo. Chris potrebbe anche non voler mai usufruire delle quote rosa perché le ritiene una scorciatoia. Benissimo anche questo. Ma tutto ciò non cambia il fatto che Chris è una donna.
Allora mi sono chiesta: perché Chris fa di tutto per non sembrare una donna? O meglio: fa di tutto affinché chi ha di fronte non riesca a capire se è una donna o un uomo? Evidentemente perché le stanno strette le categorie e soprattutto gli stereotipi legati a quelle categorie. Ma è necessario negare dei meri dati di fatto per rompere quegli stereotipi? Come ho già avuto modo di scrivere, il paradosso è che una istanza che vorrebbe rompere categorie e stereotipi non fa invece che rafforzarli. Che negare i dati di fatto non sia una precondizione necessaria per rompere gli stereotipi, lo mostra un altro caso di un altro studente della stessa scuola, a cui evidentemente stava molto stretto il modo di vestire e di atteggiarsi che di norma attribuiamo ai maschi. E allora portava i capelli molto lunghi, si vestiva con abiti che siamo abituati a vedere indosso alle donne, le unghie curate e smaltate. Questo studente non aveva nessun problema con il suo essere un uomo, aveva invece grossi problemi con gli stereotipi associati al suo essere uomo. E li sovvertiva, senza per questo cambiare nome né appartenenza di genere.
Ma c’è un rischio ancora più profondo che la discussione con Chris mi ha reso chiaro: e cioè che ognuno di noi si ricavi un proprio angoletto personale in cui “sentirsi a proprio agio”, senza minimamente intaccare la struttura sociale che ci circonda. Perché quello che conta non sono le oggettive ingiustizie, ma come ciascuno si sente: c’è chi si sente bene dentro gli stereotipi di genere e deve avere tutto il diritto di starci dentro, c’è chi non si sente “a proprio agio” e allora si costruisce il suo angolo, giustapposto a quello degli altri. In un mondo in cui c’è spazio per tutti, anche per chi, liberamente per carità, si fa schiavo di qualcun altro. È la diversity, bellezza!

 

CREDITI FOTO: Flickr | Lynn Friedman



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