L’arcitaliano che si spacciava per moderato

Silvio Berlusconi è morto. Sarebbe fuori luogo oggi compiangerlo per inopportuno buonismo. Il berlusconismo ha rappresentato l'autobiografia dell'Italia e c’è il motivato timore che gli sopravviva una società rimodellata sul paradigma della sua arci-italianità greve e furbastra, vanitosamente libidinosa.

Pierfranco Pellizzetti

«-Il diamante più grosso del mondo? Non
sapevo che facesse collezione di diamanti.
-Lui no. Ma fa collezione di signore che
fanno collezione di diamanti»[1].
Orson Welles

«L’ordine che ama un certo uomo d’ordine in
Italia, è quello che tiene a bada la coscienza
e assicura all’ingiusto il ‘sonno del giusto’»[2].
Vitaliano Brancati

Fenomenologia di un mentitore seriale
Montanelli, che lo conosceva bene, lo aveva definito “il più grande piazzista d’Italia”. Il guaio è che in questo quarto di secolo Silvio Berlusconi non ci ha venduto polizze farlocche o auto di terza mano, raccontandocele come se fossero affaroni. Bensì ha rifilato all’intera comunità nazionale sogni avariati e ingannevoli; diversivi a fronte dell’effettivo prosciugamento con destrezza del nostro capitale sociale, allo scopo di rimpolpare a livelli faraonici le proprie casse personali. Ed è costante motivo di stupore constatare che ancora l’8% dei nostri concittadini votanti continui a prestare fede a un tale spudorato mentitore seriale.
Comunque sbaglia chi dice che con Giorgia Meloni si è insediato in Italia il primo governo di destra. Perché il Berlusconi, per quattro volte Presidente del Consiglio (1994-1995, 2001-2005, 2005-2006, 2008-2011), è sempre stato intimamente un uomo di destra; e come tale ha governato, seppure maldestramente tendente al disastroso. Visto che un Paese complicato come l’Italia non lo si guida con le barzellette e analoghi diversivi. Piuttosto una destra da bar sport, la sua: machista inveterato, protervo omofobo, recalcitrante alle regole e sistematico prevaricatore dei sottoposti, nella gag caricaturale del padrone delle ferriere.

A meno non si intenda affermare che anche in questo caso si è trattato solo di pura e semplice finzione; perché l’unico principio in cui davvero credeva questo assatanato ometto iomaniaco è ciò che gli conveniva; senza remore o ripensamenti indotti da un soprassalto di decenza (parola di cui ignorava il significato). Appunto, il tutto condito da un costante ricorso alla bugia, visto che l’insincerità era il suo tratto caratteriale prevalente. A partire dal proprio corpo, di cui mistificava persino la statura bassina facendo ricorso a scarpe con il rialzo. Senza dimenticarsi della capigliatura, di cui pretendeva di occultarne la caducità celandola sotto una singolare cuffietta di neoprene tipo tuta subacquea. Mentre si stendeva un velo pietoso sulle sue pretese performances da stallone, con relative erezioni decennali; improbabili già negli anni Novanta a seguito di interventi alla prostata (con presumibili innesti di protesi).

Dunque, una casistica disastrosa, che lascia intuire la presenza di un comprensibile complesso di inferiorità virato a superiorità; coltivato circondandosi di yes-men che ridevano a comando e ragazze a tassametro pronte a magnificarne la straordinaria virilità. Una audience/harem che la condizione di riccone gli consentiva di acquistare un tanto al chilo, con l’effetto di credere lui stesso alle panzane che raccontava. Sicché il servilismo di cui si attorniava lo induceva a ritenere che l’umanità intera fosse composta solo da beoti; per cui insisteva a propinare le sue bubbole anche a chi non era sul suo libro paga, inducendo crescenti fenomeni di rigetto. Da qui lo smarrimento quando scopre che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy non riescono a trattenere il riso solo al sentir pronunciare il suo nome. Un buffo naturale che non si rendeva conto di esserlo. Anche perché tale eventuale scoperta veniva rimossa dalla parte in penombra della sua natura bipolare: la ferocia vendicativa, che si scatenava contro chi osasse soltanto mettere in discussione le sue certezze, proprio perché fondate su una psiche friabile. Il nababbo compratore sistematico di corpi e anime, come ostentazione sprezzante della propria superiorità e munificenza, nascondeva dietro al sorriso da paresi un’intrinseca cattiveria, interpretabile come reazione alla inconfessabile paura – lui, piccoletto e bruttarello – dei giudizi nei suoi confronti niente meno che del genere umano. Da comprare e asservire per esorcizzarne la minaccia presunta.

Me lo diceva esplicitamente un parlamentare di Forza Italia della prima ora, indignato per il modo in cui l’ex Cavaliere aveva liquidato, a mo’ di kleenex usato, il suo fedele cappellano e ghost writer Gianni Baget Bozzo; in quanto convinto che non gli servisse più: «Bisogna prestare attenzione ai suoi cambiamenti di espressione. Magari quando racconta la sua solita storiella e ride insieme al capannello di ascoltatori entusiasti, con l’aria dell’amicone scanzonato. Ebbene, appena ha l’impressione che nessuno lo veda più, i suoi occhi – fino ad allora spensierati – cambiano di colpo. Assumendo lo sguardo assassino da predatore carnivoro del Cretaceo».

Lo slittino di Citizen Berlusconi

“Rosebud”. Il Charles F. Kane – Orson Welles di Quarto Potere (Citizen Kane), titanico magnate della comunicazione con velleità politiche nonché proprietario compulsivo di ville e castelli, nel celeberrimo e iper-celebrato film del 1940 – esala l’ultimo respiro pronunciando la misteriosa parola. Che poi si rivelerà l’imprevedibile rimembranza della piccola slitta con cui giocava da bambino. Quale è la Rosabella (Rosebud) di Citizen Berlusconi?
L’enigma del politico Berlusconi, dell’impresario Berlusconi, del riccone Berlusconi, è stato ampiamente esplorato e raccontato. Conosciamo tante cose riguardo all’Uomo del Destino che ha tenuto a lungo i destini di tutti noi; seppure avvolti in un mistero di fondo. Sappiamo degli inizi da piccolo imprenditore nel settore edile grazie ai finanziamenti provenienti da un istituto di credito – stando a voci ricorrenti – in odore di “lavanderia del denaro” d’origine mafiosa; quale la filiale milanese del Banco di Rasini (dove – guarda caso – ci lavorava suo papà).

Da quel momento attendibili indagini giornalistiche e giudiziarie segnalano la costante presenza al suo fianco di personaggi preposti ad assicurare un canale diretto di comunicazione con la grande malavita organizzata, vuoi nella veste di controllore (tipo Mangano, il mafioso pluriomicida che risultava in forza allo staff della villa di Arcore – residenza del Nostro – con l’improbabile qualifica di “stalliere”), vuoi come “facilitatori diplomatici” del rapporto (Dell’Utri?); quasi degli ambasciatori, anche se non è chiara la loro personale collocazione: uomini di Berlusconi o della Mafia?
Scorgiamo il marchio P2 (grazie alla coppia Gelli-Ortolani che si era impadronita di asset decisivi per la conquista dell’etere durante il saccheggio del patrimonio Rizzoli) anche sui primi passi dell’avventura televisiva del Biscione berlusconiano.
Non è certo sconosciuto il metodo adottato per impossessarsi del colosso editoriale Mondadori, assicurandosi la non disinteressata benevolenza di alcuni giudici (con accesso a conti-numero in banche svizzere).

Ben noto è pure il prologo della sua “discesa in politica”, accompagnata dalle insistenti sollecitazioni dell’amico Bettino Craxi e dai molto concreti memoranda dei più fidati collaboratori: «Quando Silvio decise di scendere in campo con Forza Italia la nostra alternativa era di finire in galera come ladri o mafiosi»[3], confiderà la spalla di sempre, il compagno d’infanzia Felice Confalonieri; tuttora presidente di Mediaset per conto del padrone.
Tutto questo – soldi, maneggi, potere – è conosciuto, stranoto. Ma cosa si nascondeva dietro quel suo ghigno da predatore felice, la sua incrollabile determinazione?

L’impressione che si ricava dai decenni di investigazioni di cui si diceva sull’irresistibile ascesa di Silvo Berlusconi è quella di un inaudito concentrato di spiriti animali, mossi dall’altrettanto mostruosa condensazione di volontà di potenza in un omarino che altrimenti sarebbe soltanto ridicolo.
Andare alla ricerca della sua “Rosabella” significa analizzare il Berlusconi-fenomeno.
Nella congettura secondo la quale il Super-ego alle soglie del delirio, altro non sarebbe che una contorta operazione mentale di transfert che vira nel suo contrario le profonde insicurezze di un piccolissimo borghese meneghino, cresciuto da un padre bancario (dunque, ossessionato dal perbenismo formale e – insieme – dai dané, con relativi simboli di status), formatosi nella Milano dove giravano soldi e opportunità facili, mentre già iniziava la calata dei cosiddetti “falchetti” brianzoli e valligiani, con le loro bertoldesche furbizie affaristiche, e mentre le seconde generazioni di immigrati dal Sud si trasformavano in un vero e proprio “tipo” umano – i milanesizzati – dando vita a una mentalità/cultura che avrebbe fagocitato la vecchia Milano (la sostanziale arcaicità familistica e di clan rivestita di una patina modernista, poi definita “comunicativa”; tra Bettino Craxi e Adriano Celentano). La Milano, presunta capitale morale dell’Italia, che si americanizzava nel suo hinterland e nelle sue periferie inseguendo modelli provincialotti e vitelloneschi (il mito stelle-e-strisce ridotto a macchinoni rombanti e quelle ragazze pon-pon ipertettute, destinate successivamente a diventare la griffe della televisione berlusconizzata; da Drive-In a Veline.

L’egolalia di un insicuro?

Soprattutto la Milano dove già spuntavano i proconsoli finanziari delle varie Mafie, che in quegli anni avevano operato il salto di qualità: il passaggio dai vecchi affari sostanzialmente marginali, dalla prostituzione al pizzo, a qualcosa di davvero grosso; iniziando a trattare monopolisticamente (strutturandosi organizzativamente e insieme militarmente) la merce droga; eroina e poi cocaina.
Business sempre più letale quanto in grado di generare un fiotto inarrestabile di denaro sporco. Bisognoso – appunto – di “lavanderie”.
Da questi proconsoli finanziari del capitale mafioso (Sindona e compagni) che tracciavano nuove vie, si potevano apprendere tecniche straordinariamente efficaci per raggiungere il successo. Esempi illuminanti, specie per ragazzotti ossessionati dall’arrampicata sociale e che la condizione di followers sovreccitati induceva ad accantonare ogni remora morale; ma non l’incarto perbenistico in cui il principio di moralità è confezionato.

Ragazzi cresciuti nelle case di ringhiera del quartiere Isola Garibaldi, in famiglie di ceto medio/basso che difendevano con le unghie e coi denti il loro decoro piccolo- borghese; sempre a rischio di scivolare un po’ più in basso, tra il circostante popolo degli operai e degli idraulici (come lo zio di Fedele Confalonieri. Quel Giovanni Borghi che poi fonderà la Ignis diventando un grande della “siderurgia bianca” italiana: anche questa una storia milanese di quegli anni).
Il mondo in cui muove i primi passi il Berlusca, un po’ falchetto (del resto papà e mamma venivano da Saronno) e un po’ signorino (nell’autobiografia a magazine del 2001 “Una storia italiana” ci tiene a far scrivere che da ragazzo, oltre che “geniale, disinvolto, padrone di sé e di facile comunicativa”, “suscitava qualche invidia il suo buon gusto nel vestire”[2]). Come dire, “i bene del quartiere Isola Garibaldi”, la creme della via Gluck” o “la bella gente della Barona”. Risibilmente pretenzioso come un “Casino dei Nobili” di Novi Ligure o Binasco.

Quella distinzione affettata che suona tanto voglio e non posso, una patetica ricerca esibita di stile che ignora come la sua prima condizione sia la naturalezza e la nonchalance. Non certo l’ostentato e caricaturale “mi consenta” con la voce impostata a brignao (l’artificiosa parlata spingendo le labbra in fuori, a cul di gallina) che dovrebbe fare educanda dell’Istituto Marcelline ma – semmai – ricorda più il Totò millantatore di un’inesistente aristocraticità nel film Miseria e Nobiltà (1954) o il Renato Rascel scrivano comunale a Pavia, che lega le sue speranze di promozione sociale all’acquisto di un cappotto, nell’omonima pellicola di Alberto Lattuada (1952) ispirata a Gogol. L’ansia palese, leggibile nelle fotografie di allora, che riproducono il Nostro, paffuto e in pantaloni alla zuava, l’espressione petulante da “Superbone” (il personaggio del ragazzotto sbruffoncello nel fumetto “il Monello” di quegli anni), perfetta icona del giovane arrampicatore che si tira su dandosi delle arie, atteggiandosi.

E intanto drizza lo sguardo con risentita invidia verso i palazzi di Corso Vittorio o di Viale dei Giardini, guata minaccioso il mondo della vecchia Milano bene. Da qui il crescere, nell’incubatrice dell’ansia da precarietà di posizionamento sociale e nel risentimento cetuale, quella voglia di rivalsa che si concretizza in un’idea monomaniacale: “ve la farò vedere io! Vi compererò tutti!”.
Di certo il Berlusconi, in decollo nel suo volo senza scali, non si era accorto che, nello stesso periodo, Paolo Sylos Labini stava tracciando il profilo del suo tipo umano: «Fra gli strati di formazione intermedia si ritrovano più di frequente gli individui peggiori, disposti a intraprendere l’ascesa sociale e la scalata al benessere con ogni mezzo»[3].

La prima molla? Purissima rabbia. Contro tutti e tutto. Tutti noi da fare su; noi, a cui rifilare “il pacco” da super-magliaro per ricavarne una sensazione di superiorità e – al tempo – poterci disprezzare per la dabbenaggine dimostrata facendoci prendere per il naso e mettere nel sacco. Secondo la ben nota teoria – più volte esternata dal Nostro – secondo cui “il pubblico è composto da ragazzetti, neppure troppo intelligenti”.
Perché Berlusconi ci odia. Ma è un sentimento che rivolge anche contro se stesso, inconfessabile quanto profondo. Che altro dire del bisogno maniacale di intervenire su quel corpo che non è a misura delle proprie aspirazioni. Ritinto e tenuto assieme da lifting e iniezioni di derivati del silicone, fatto oggetto di trapianti. Plastificato.

Gli odierni trucidi delle borgate hanno l’impressione di riappropriarsi demiurgicamente della propria identità rimodellandola con piercing e tatuaggi. Berlusconi fa più o meno lo stesso, seppure in modalità assai più costose. Comunque, comportamenti dietro i quali si intravede una terribile insicurezza.
Berlusconi ha paura? Di certo una paura ce l’ha: il terrore di venire condannato. Da esorcizzare entrando in politica per ricavarne prescrizioni, attenuanti e altre diavolerie predisposte dai suoi avvocati e implementate dai suoi ministri. Con i giudici che diventano “l’uomo nero” negli incubi del maturo bambino cattivo e capriccioso. Da stigmatizzare con la piegatura in senso demonizzante del vocabolario politico, in cui spicca la reinvenzione del termine “giustizialista” (dalla designazione del movimento peronista dei descamisados a sinonimo di indebita persecuzione mediante l’uso distorto e per scopi di parte dei processi). Ovviamente, campagne di delegittimazione contro i magistrati che non assecondano il “Cavalier Bugiardoni”[4], non certo gli assoldati; come il giudice Renato Squillante condannato per “corruzione in atti giudiziari”: il lodo che consentì all’allora Cavaliere di impadronirsi della Mondadori.

A palese smentita dell’impressione che Berlusconi ce l’abbia con l’intera magistratura. Solo con quelli che osano dargli torto. Per tutti gli altri, come per chiunque si sottometta alla sua spaventosa volontà di dominio, è pronto a indossare la maschera del “Ceausescu buono”. Definizione di cui siamo debitori del solito Fedele Confalonieri.
L’attitudine con cui ha marcato di sé l’intero ventennio di Seconda Repubblica. Sempre all’insegna della menzogna, anche se i comportamenti reali ne tradiscono l’intima natura di uomo di estrema destra. Come ne dà palese conferma l’operazione fondativa della sua egemonia ventennale: l’invenzione di uno strumento per la conquista del potere sdoganando e poi federando gli sparsi frammenti della galassia reazionaria e trasformando in maggioranza elettorale le più pervicaci pulsioni legge&ordine. Il tutto camuffato nell’apparente benevolenza di un packaging rassicurante all’insegna del liberalismo e del moderatismo. Puro fumo negli occhi, visto che fondando il proprio partito personale Forza Italia, Berlusconi aggregava al proprio carro i neo-fascisti del Movimento Sociale di Gianfranco Fini e i secessionisti della Lega di Umberto Bossi.

Facendo un uso pantagruelico degli strumenti argomentativi predisposti da tempo nei centri studio dell’estrema destra stelle-e-strisce. Tra il Potomac e l’Hudson. Avendo come modello ideale di riferimento quel McMondo che il politologo clintoniano Benjamin Barber definiva «quell’allettante complesso di affarismo americano, consumismo americano e marchi americani che ha dominato il processo di globalizzazione»[5]. Così l’Italia mcmondizzata da Berlusconi americano alla brianzola vede insidiate le proprie abitudini alimentari dall’insapore panino ripieno di carne trita, beve Cocacola, veste jeans e ascolta la sola musica illuminata dal cono di luce dell’industria discografica anglo-americana. I territori vengono popolati a fungaia da cattedrali del consumo; “non luoghi” imposti dalle logiche della grande distribuzione e dal business dell’intrattenimento Made in USA.

E adesso, poer nano? [6]

Ora – però – la sua parabola è giunta al termine; una vicenda umana e pubblica, in cui ha sempre infettato quanto sfiorava: la politica – ovviamente – ma anche l’informazione, l’intrattenimento e perfino lo spettacolo calcistico, ormai ridotto a contenitore di spot pubblicitari. Ma cosa rimane, dopo la sua trentennale occupazione della scena nazionale? Qualcuno potrebbe dire che – con Gorgia Meloni – lascia la Destra saldamente al governo; lui, grande sdoganatore di tutti i peggiori rigurgiti reazionario-nostalgici. Ma ormai – di questi ultimi tempi – il controllo della sua creazione elettorale gli era sfuggita definitivamente di mano. Mentre Meloni trionfa alle elezioni del 25 settembre scorso più per karakiri da insipienza degli avversari che per meriti effettivi del suo aggregato destrorso.

Piuttosto c’è il motivato timore che gli sopravviva una società rimodellata sul paradigma della sua arci-italianità greve e furbastra, vanitosamente libidinosa. Il peggio del peggio dell’ethos nazionale, che in questi decenni ha prodotto una duplice reazione intellettuale, sinergica eppure distinta: la critica “estetica” alla Marco Travaglio (B. quale disordine civile) e quella “etica” alla Paolo Flores d’Arcais (B. quale massacratore dei valori democratici). Mentre diventavano sentire prevalente l’avidità possessiva come principio guida, l’informazione trasformata in mazza brandita dai mazzieri del boss, il controllo del potere legislativo virato a mordacchia per i giudici, l’infedeltà fiscale legittimata quale scelta lungimirante, la delegittimazione delle regole ridotte a inciampi intollerabili al fare per il fare, la menzogna ascesa a marchingegno apprezzabile nel simil-macchiavellismo del “fine che giustifica i mezzi” (ma Albert Camus obiettava: “chi giustificherà i fini?”). Insomma, l’imbarbarimento di un’estrema marca di provincia cresciuto ai margini dell’impero stelle-e-strisce in preda al cosiddetto “edonismo reaganiano”, figlio della stagione neoliberista in rotta di collisione con l’idea stessa di società.

Ora che è morto, dopo lunghe sofferenze fisiche che abbiamo visto in diretta dal San Raffaele, sarebbe fuori luogo compiangere per inopportuno buonismo. Perché il berlusconismo è stato qualcosa di ben più grave – caro Maurizio Ferraris – del «parcheggio in terza fila portato a dimensioni di politica internazionale»[7]. È stato l’autobiografia vivente delle mutazioni avvenute l’ultimo mezzo secolo nel ventre della società italiana: «il passaggio dal mediocre banale al mediocre mannaro»[8].

[1] Giorgio Bocca, Piccolo Cesare, Feltrinelli, Milano 2002, pag. 21

[2] Sandro Bondi e altri, Una storia italiana, Mondadori, Milano 2001 pag. 9

[3] P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, cit. pag. 54

[4] Marco Travaglio, “Il Cavaliere Bugiardoni”, La Primavera di MicroMega 1/2006

[5] B. Barber, L’impero della paura, Einaudi, Torino 2004 pag. 139

[6] Copy Dario Fo in dialetto milanese

[7]  M. Ferraris, MicroMega 4/2011

[8] P. Pellizzetti, Fenomenologia di Berlusconi, Manifestolibri, Roma 2009 pag. 24

[1] I giornalisti Joseph Cotten ed Everett Sloane a proposito dell’editore Charles Kane/Orson Welles, Quarto Potere

[2] V. Brancati, Il borghese e l’immensità. Bompiani, Milano 1973 pag. 166

Foto Flickr | European People’s Party



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