L’eclissi dell’intellettuale (impegnato)

Lo splendido volume “Rive Gauche” di Agnès Poirier (Einaudi) e il grande cambiamento del ruolo dell’intellettuale negli ultimi decenni.

Edoardo Lombardi Vallauri

Durante l’ultimo anno e mezzo, con il covid, a tratti è avvenuta una cosa rara, ossia c’è stato qualche attimo di interesse generale, anche di popolo, per le prese di posizione degli scienziati e perfino per quelle – non sempre stupende – di alcuni veri, raffinati uomini di cultura. Non quindi una ribalta per i soliti “intellettuali” piacioni che si esibiscono brandendo banalità rassicuranti o politically correct, ma proprio per intellettuali veri. A una cosa del genere non eravamo più abituati, e c’è voluta una calamità planetaria perché accadesse. Prendendo posizione sulla regolamentazione della pandemia, gli intellettuali hanno fatto capolino sotto i riflettori.

Questo fugace accadimento può essere l’occasione per rinnovare la riflessione sul fatto notorio che il ruolo dell’intellettuale è molto cambiato negli ultimi decenni di vita della nostra civiltà.[1] Ad esempio, leggendo un libro uscito anch’esso nell’ultimo anno, cioè lo splendido Rive Gauche di Agnès Poirier (Einaudi, 2021), si è riportati al periodo in cui gli intellettuali engagés erano al centro della generale attenzione, e avevano influenza su gran parte di ciò che contava, nella società francese dell’immediato dopoguerra.

Il termine stesso intellectuels aveva preso il significato attuale alla fine dell’Ottocento, ed era diventato di uso comune soprattutto dopo la mobilitazione di molti uomini di cultura francesi (a cominciare da Émile Zola) per sostenere l’innocenza di Alfred Dreyfus nel noto processo che lo vide accusato di alto tradimento. Quindi si potrebbe dire che anche in quel caso si trattava di una calamità nazionale. Ma la verità è che a trasformare la condanna penale di una persona per ragioni ideologiche in una calamità che colpiva personalmente tutti i francesi era proprio l’atteggiamento della società, che si interessava energicamente e appassionatamente alle questioni ideali e ideologiche. Oggi una notizia come la condanna di Dreyfus rischierebbe di rimanere in qualche trafiletto di giornale, senza neanche arrivare in televisione; e peraltro, quand’anche arrivasse in qualche notiziario televisivo, la popolazione che assiduamente affolla i centri commerciali se ne infischierebbe.

Tornando agli anni Quaranta, a Parigi Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Albert Camus e diversi altri scrittori e filosofi (non soltanto francesi) dominavano la scena pubblica. La gente attendeva elettrizzata l’uscita dei loro libri, ed era avida di dettagli sulla loro vita privata (fortemente innovativa, peraltro). I politici coccolavano i pensatori, invece di ingiuriarli e ridicolizzarli come fanno adesso; e anzi i grandi intellettuali facevano i ministri (André Malraux fu ministro della cultura per dieci anni). Sì, facevano i ministri della cultura i grandi intellettuali, non gli ex sincadalisti quasi senza laurea.

La forte attenzione di cui godevano rendeva le opinioni degli intellettuali estremamente importanti sul piano politico, cioè proprio influenti sulla cosa pubblica e sullo svolgersi della vita civile. Al tempo stesso e inversamente, proprio questa evidente possibilità di incidere li induceva a essere socialmente engagés. Oggi per un intellettuale impegnarsi in cause ideologiche e civili rappresenta quasi esclusivamente il rischio di subire campagne denigratorie e minacce. Questo accadeva anche all’epoca di Sartre e Beauvoir, ma era il rovescio minore di una medaglia che li motivava a cercare di agire positivamente nella società, poiché essa di questo impegno li ripagava abbondantemente. Con libri della più strenua filosofia, che non facevano nessuno sconto al lettore ed erano ben lontani dallo scendere nella banalità per assicurarsi più pubblico, quelle persone guadagnavano non moltissimo, ma abbastanza da vivere tutta la loro vita in albergo, in modo da non perdere tempo con cose di proprietà che li avrebbero distolti dal pensare e sperimentare a tempo pieno.

Non soltanto le cose non stanno più così né in Francia né tantomeno in Italia, ma abbiamo la forte percezione che non potrebbero mai ripetersi nello stesso modo. Gli intellettuali sono ormai stabilmente relegati nella marginalità. Questo ha certo molte cause, ma si può attirare l’attenzione su una di esse, non necessariamente e non in tutto cattiva. Almeno fino all’ultimo dopoguerra, a decretare quali fossero i contenuti a cui rivolgere la generale attenzione era un’élite di persone colte, dietro a cui il resto del corpo sociale si accodava per dirigere il suo interesse verso le opere e le idee di coloro che rappresentavano il vertice della creatività e della serietà intellettuali. Questo realizzava una saldatura fra la cultura “alta” e la cultura popolare, in cui aveva molta fiducia ad esempio Antonio Gramsci. Fiducia che è stata decisamente smentita dai fatti: il diffondersi – in sé benvenuto – del benessere economico e di un minimo di istruzione alla quasi totalità della popolazione, insieme con l’affermarsi della televisione[2] (e ormai dell’internet), ha fatto sì che adesso a decretare quali siano i contenuti a cui dedicare attenzione non siano più i molto competenti, ma la massa intera della popolazione (peraltro imbeccata da esigenze di raccolta pubblicitaria), che quindi si orienta a cose molto meno interessanti.

Un esempio significativo della differenza tra la Francia del dopoguerra e l’Italia di oggi è rappresentato da uno dei fatti più importanti della storia intellettuale del nostro paese che si sono verificati nell’ultimo anno, cioè la cessazione (per ragioni ideologiche e mercantili) di una rivista di cultura e engagée come MicroMega, da parte di un editore/attore economico che all’epoca di Sartre si sarebbe vergognato di chiuderla. Le persone – intellettuali impegnati – che pubblicavano MicroMega si sono trovate completamente abbandonate dal sistema editoriale, e hanno dovuto ingegnarsi per farcela da sole. Invece, quando l’editore Gallimard cessò di pubblicare la rivista esistenzialista Les Temps Modernes (tra l’altro, per ragioni né ideologiche né mercantili[3]), l’altro editore René Julliard ne prese prontamente il posto.

Resta una riflessione abbastanza amara: pare evidente che disinteressandosi, come fa la maggioranza schiacciante degli italiani, del pensiero di chi per professione pensa, o addirittura disprezzandolo e cercando di delegittimarlo con slogan da trivio, come è prassi di buona parte dei politici italiani, non si fa un buon affare. Ogni paese ha bisogno di persone che pensano.

NOTE

[1] Il tema è stato affrontato innumerevoli volte. Per un segnale quasi profetico sulla fase moderna del fenomeno, si veda il notissimo saggio di Elémire Zolla, Eclissi dell’intellettuale, Bompiani 1959. Molto utile per una veloce panoramica anche la recente serie di interventi di Rino Genovese su Le parole e le cose: https://www.leparoleelecose.it/?p=2833&.

[2] È per questo tipo di ragioni che Alberto Asor Rosa ne Il grande silenzio (2009) parla della televisione come di un “intellettuale collettivo”, riecheggiando neanche troppo paradossalmente l’espressione che Gramsci riferiva al partito comunista.

[3] Proprio Malraux, allora ministro della propaganda di De Gaulle, minacciò (lui sì, per ragioni ideologiche) l’editore Gaston Gallimard di rivelare alcuni comportamenti che questi aveva tenuti durante l’occupazione tedesca, e che sarebbero certo risultati come minimo impopolari. Gallimard cedette dunque a un ricatto del tutto personale.



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