Edmund Husserl, l’essere umano e l’animale

Nello Husserl di "Esperienze del mondo: l’essere umano e l’animale" appare tutto il dilemma gnoseologico ed etico che attraversa l'uomo quando esso è guardato dagli animali.

Giovanni Fava

È uscito per la collana Filosofia/Scienza di Mimesis un agile, ma denso, volume che contiene la prima traduzione italiana di due manoscritti di Edmund Husserl dedicati ai problemi, amplissimi, del mondo, dell’essere umano e dell’animalità. Il saggio s’intitola Esperienze del mondo: l’essere umano e l’animale e viene ad arricchire il lavoro di traduzione delle opere edite ed inedite di Husserl (manoscritti, per l’appunto, ma anche lezioni e ritraduzioni di edizioni ormai datate) portato avanti in Italia negli ultimi anni con grande profitto per la comunità di studiose e studiosi (non solo) husserliani.

I due manoscritti raccolti in Esperienze del mondo sono tardi rispetto al complesso della produzione di Husserl: il primo, Fenomenologia statica e genetica. Il mondo familiare e la comprensione degli estranei. La comprensione degli animali è del 1933; il secondo, Il mondo e noi. Mondo-circostante dell’uomo e dell’animale, del 1934. Entrambi però, come scrive il curatore dell’edizione italiana G. Iocco, sembrano rivolgersi ad un medesimo problema: l’inclusione entro la prospettiva fenomenologico-trascendentale delle «molteplici sfaccettature dell’agire umano» (p. 7), e, aggiungiamo noi, dei modi in cui si presenta l’alterità. L’animale, appunto, ma anche il bambino, (e, altrettanto problematicamente, il malato mentale, il “folle”) pur condividendo con gli esseri umani un mondo, ne hanno un’esperienza differente. Si tratta di determinare il carattere di quest’esperienza. Il problema è radicale, perché chiama in causa il rapporto tra la fenomenologia e le scienze empiriche, e, più in particolare, tra la fenomenologica e la psicologia, le cui pretese chiarificatrici, ineludibili in questo contesto, devono trovare un posto entro il progetto di rifondazione del sapere che anima dall’inizio alla fine l’impresa husserliana.

È noto che Husserl pensasse scrivendo, e i due manoscritti – nel loro incedere che non segue la linea dell’argomentazione, ma ritorna costantemente su di sé, sulle questioni che presenta, tematizza e apre – ce ne forniscono una prova esemplare. Il primo manoscritto si apre con una problematizzazione di tipo metodologico relativa alle strutture di validità del mondo, ovvero ciò che rende il mondo un mondo “esistente”, che rende il mondo “costituito” un mondo “vero”. L’analisi ontologica del «senso d’essere del mondo» (p. 27) pertiene quindi alla fenomenologia statica, che, nella sua connessione con la fenomenologia genetica, deve al contempo ricercare la «struttura essenziale di quella soggettività che fa esperienza del mondo» (p. 28). E tuttavia al senso d’essere del mondo appartiene non solo il soggetto che ne fa esperienza, ma anche l’altro, o meglio, gli altri – l’«umanità», il «Noi universale» (p. 29) scrive Husserl – che deve poter essere incluso nell’analisi fenomenologica.

Tale umanità, che è rintracciata in una sorta di estensione generalizzante della soggettività trascendentale, sfonda già l’ordine dell’ideale per intrecciarsi a quello empirico: è necessario infatti, scrive Husserl, pensare il “Noi universale” come l’«unità di un essere desto» (p. 29). Solo nello stato di veglia questa “personalità universale”, si direbbe, è propriamente tale, è “una”, e si costituisce in una connessione motivazionale e temporale in perpetua genesi, laddove è invece problematico tracciare il rapporto fra la struttura universale della soggettività – l’esperienza nel suo rapporto col mondo – e quei “casi limite” che stanno ai suoi margini e che pure ne hanno una parte strutturale, come la vita del sonno o, anche, la vita dell’infante (un Borges, o uno scettico radicale, avrebbe potuto immaginare un “Noi universale” fatto di esseri umani sognanti, o di bambini, o, anche, di animali – come d’altronde, in forma simile, fece splendidamente Kafka nel suo racconto Investigazioni di un cane). Eppure quest’ultimo rimane un «compito» (p. 31), vale a dire comprendere il neonato, così come comprendere l’animale. E questo perché è il mondo stesso – che ora Husserl definisce come la facoltà che «permette di esperire […] e di custodire […] un senso d’essere identico» (p. 33) – ad “includere” anche gli animali.

Ciò che fa problema, in questo caso, è rendere ragione della differenza che corre tra uomo e animale, del fondamento a partire dal quale essa si manifesta. Perché, infatti, si dice che l’animale è “diverso” dall’essere umano? «Forse in virtù – si domanda Husserl – di una loro corporeità tipica completamente differente?» (p. 35). Nonostante, come si dirà a breve, l’animale sia esperito in un orizzonte di familiarità, dal punto di vista fenomenologico esso è diverso dall’essere umano anzitutto per il suo corpo. Questo abbozzo di soluzione, che non viene approfondito da Husserl, sembra opporsi all’ipotesi di Philippe Descola[1] che la cosiddetta “ontologia” occidentale – ovvero la modalità peculiare di pensare e ordinare le relazioni fra umani e non-umani che predomina in Occidente – si basi sull’idea che tra umani e non-umani vi sia una continuità legata alle componenti corporee e una discontinuità d’interiorità. Fenomenologicamente, non è così: è appunto il corpo – ciò che Descola ritiene invece esser proprio alle ontologie di tipo “animista” – a fungere da fattore differenziante tra umani e non-umani.

Per Husserl, anche l’animale, così come l’altro in generale, viene esperito secondo una variazione di me stesso: vi è un’estensione della mia esperienza che disegna un orizzonte entro il quale l’altro appare entro una “tipica”, un insieme di modalità attraverso le quali si determina la datità dell’essere. Così, l’altro è anzitutto un altro determinato, di una certa nazione, di una certa etnia, con certe caratteristiche che da un lato ce lo rendono noto presentandoci i caratteri che ci risultano immediatamente evidenti, dall’altro adombrano un margine di oscurità, di “sempre ulteriore determinabilità”. Come si diceva, anche l’animale col suo mondo rientra in questa “estensione”, e dunque è «familiare» (p. 36) alla nostra esperienza; e anche l’animale, d’altro canto, è esperito secondo una “tipica”: vi sono buoi, cavalli, uccelli, pesci che possiedono «il proprio essere-l’uno-per-l’altro […] istituiscono una propria connessione» (p. 37), con tutte le modalità di datità dell’essere particolari che si confanno alle varie specie. I buoi si ascoltano, comprendono, si arrabbiano tra loro in quanto buoi, ossia seguendo una modalità particolare che è loro tipica.

Il secondo manoscritto segue l’andamento del primo, prendendo cioè le mosse dal riconoscimento di un «orizzonte aperto di comunità» (p. 46), ossia un universo, un Noi universale, a cui apparteniamo insieme agli altri esseri umani in quanto “comunità umana” [Menscheit]. Ora, tale comunità appartiene ad un mondo che, si è detto, non è fatto solo di esseri umani, ma di animali, bambini, anziani e, scrive Husserl, anche malati mentali. È necessario comprendere come esso stia in relazione con tale “mondo” circostante. Mentre gli animali sono detti da Husserl possedere una struttura egoica, i bambini vengono definiti come pre-persone, vale a dire il loro vivere-con è «parzialmente un co-fungere» (p. 53) insieme agli esseri umani “normali, al “Noi universale”. Qui Husserl approfondisce la fenomenologia dell’animale abbozzata nel manoscritto precedente, tracciando una seconda, rilevante differenza tra essere umano ed animale. Quest’ultimo, egli scrive, non è un essere storico, ovvero «realizza “istinti”» (p. 54): l’animale non crea, nel corso della sua vita, acquisizioni spirituali, ma vive in una sorta di “eterno ora” dal quale egli, con «tutti gli occhi»[2], ci guarda. Con un esempio che si ritrova anche in Marx, Husserl scrive che «l’ape non agisce, l’ape non ha alcuno scopo» (p. 54). Come si può notare dalle citazioni appena riportate, è l’istinto ora a tracciare la differenza tra l’essere umano e l’animale, e dunque una componente legata all’interiorità più che alla corporeità. In questo secondo manoscritto, la corporeità svolge piuttosto la funzione di fattore che, tramite l’empatia, ci presenta immediatamente l’animale come un’alterità con-presente allo stesso mondo dell’essere umano. Nonostante le posizioni appena esposte, nelle ultime pagine del secondo manoscritto Husserl vira verso una problematizzazione ancora più approfondita dello statuto dell’animale, mettendo in discussione – dopo averne fatto il principio differenziante – il concetto stesso dell’istinto, e con esso l’ipotesi che gli animali non abbiano una vita storica, non siano capaci di ricordo, di memoria, e dunque di “acquisizioni spirituali”. Se l’istinto designa infatti qualcosa che si manifesta “all’esterno” (l’animale che, nella ciclicità dei suoi atti, sembra solo ripetere azioni acquisite), i confini con l’“interno” sono tuttavia labili: come possiamo dire che dietro a quella ripetizione non si nasconda una soggettività autentica, che pensa e intuisce proprio come l’essere umano?

Ci pare che in questa tensione irrisolta tra le due posizioni, stia tutta la fecondità, e l’inquietudine, di una ricerca priva di risposte definitive, ma che nel suo interrogarci, apre nuove piste di ricerca. V’è infatti un intero discorso dall’enorme portata etica che corre lungo il filo dell’analisi fenomenologica, e che resta da sviluppare. Queste parole, ci sembra, ne mostrano l’abbozzo:

«Che gli animali […] abbiano occhi per vedere, che abbiano orecchie, che abbiano gambe, che stiano in piedi, sdraiati, che corrano, sollevino e trasportino, divorino e si comprendano reciprocamente, che essi comprendano anche noi in quanto dotati di tali funzioni e che tutto ciò sia fondato su un’evidenza di comprensione reciproca e dal trovare autoattestazione per loro così come per noi – questo è evidente» (p. 39).

 

[1]
[1] P. Descola, Oltre natura e cultura, trad. it. A. D’Orsi, Raffaello Cortina, Milano 2021.

[2]
[2] R. M. Rilke, L’ottava elegia, in Id., Poesie. 1907-1926, trad. it. A. Lavagetto, Einaudi, Torino 2014, p. 356.

 

Leggi altro della nostra rubrica filosofica “Il rasoio di Occam” 



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Il Rasoio di Occam

Rigotti ci spiega perché possiamo riscoprire la clemenza come una virtù perfetta per i nostri tempi più che imperfetti.

Il libro di Pitillo offre una visione d’insieme del nodo rappresentato dal ruolo del Verstand, dell'intelletto, negli scritti jenesi di Hegel.

L’ultimo lavoro di Lucio Cortella, L’ethos del riconoscimento (Laterza 2023), accompagna il lettore nell’elaborazione di una teoria filosofica del riconoscimento attraverso 21 brevi capitoli che costituiscono altrettanti passaggi concettuali e argomentativi. Pregio del lavoro è la sua accessibilità che, senza sacrificare la profondità e la complessità teoretica, consente anche al lettore non specialista di seguire...